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INTERVISTA a MARIA FEDERICA MAESTRI - di Michele Olivieri

Maria Federica Maestri Maria Federica Maestri

Maria Federica Maestri, regista e artista visiva, trascorre l'infanzia a Roma e in diversi paesi stranieri, Turchia, Libia, Spagna. Dal 1970 vive e lavora a Parma, negli anni ottanta studia al D.A.M.S. di Bologna e nel 1985 fonda insieme a Francesco Pititto "Lenz Rifrazioni", oggi Fondazione, formazione di ricerca rigorosa impegnata in un continuo lavoro di indagine sul linguaggio scenico. Nella prima fase del percorso creativo le pulsioni poetiche delle drammaturgie classiche occidentali considerate vengono sezionate e ritrascritte in azioni teatrali contemporanee. Dagli inizi del duemila diventa centrale la ricerca visiva e plastica: l'azione performativa si incunea tra la scrittura per immagini e la creazione plastica dello spazio, che non ha più i limiti funzionali della scena ma tende ad essere un'installazione artistica autonoma. La densità del lavoro performativo è simmetrica all'intensità, eccezionalità, unicità degli interpreti, reagenti artistici del testo creativo. In una convergenza estetica tra fedeltà esegetica alla parola del testo, radicalità visiva della creazione filmica, originalità ed estremismo concettuale dell'installazione artistica, le opere di Lenz riscrivono in segniche visionarie tensioni filosofiche e inquietudini estetiche del presente.

Gentile Maria Federica, come è mutato nel tempo il vostro lavoro e la visione estetica?
Dal 1986 il lavoro si è modificato negli anni compiendosi poeticamente in tre grandi cicli: nei primi anni, come suggerisce il nome Lenz Rifrazioni, abbiamo lavorato alle rifrazioni di un oggetto amoroso, la novella di Büchner Lenz, che attraversato da diversi linguaggi – filosofico, religioso, letterario, visivo, musicale – si riformava e si ricodificava al passaggio delle luci linguistiche. Non ci interessava affermare il nostro nome, nella personalizzazione dell'opera, ma piuttosto sprofondare nell'identità dell'estremismo poetico di Lenz. Attraversare le opere, riscriverle, ricandidarle alla contemporaneità, mettendo in scena poeti anche molto distanti e molto diversi fra di loro: dopo il progetto su Lenz, abbiamo lavorato su Majakovskij, Dostoevskij e questo è stato il primo periodo di autoformazione, in cui io curavo principalmente la parte di lavoro attoriale, Francesco ha sempre curato la parte di elaborazione drammaturgica e dell'immagine, mentre il lavoro visivo e installativo era svolto da diversi collaboratori. Questi sono stati i primi sette-otto anni.

Attualmente la Lenz Fondazione come si pone nell'impronta dell'arte, in quanto attività estetica e metodologia realizzativa?
Oggi, dopo molti anni, se ripenso alle nostre necessità fondative, all'impulso originario che ha dato inizio al nostro percorso, al nostro "viaggio creativo" nell'universo artistico, mi rendo conto che tali pulsioni originali restano immutate, la tensione e la passione etica e formale, così come non cambia la dimensione d'indagine linguistica. Il mutamento, la crescita scaturiscono piuttosto dal rapporto tra tali necessità iniziali e il lavoro quotidiano diretto a mantenerle vive. Vive e modificabili.

Quale valore infondi al "concetto d'opera"?
Il concetto di 'opera' è stato proprio uno degli elementi fondamentali – e fondanti – della nostra formazione. A partire dalla prima fase, dai primi quindici anni, il testo di partenza, la drammaturgia, ha sempre avuto un ruolo molto importante. Nel caso di Lenz si trattava di un testo – più che drammatico – post-drammatico. Lavoravamo su una novella di Büchner, un capolavoro sintetico, per penetrarne non tanto la ritrascrivibilità scenica quanto l'impulso visionario alla creazione breve, frammentaria, plastica. Ma soprattutto l'opera di Büchner ci orientava nella definizione del ruolo dell'artista.

Che tipo di artista?
Un artista irriducibile come è stato Jacob Lenz nel Settecento: un pre-brechtiano, un pre-marxista, una figura anomala ma densa di pulsioni mistico-irrazionali. Una figura in cui si fondevano motori diversi: artistici, ideologici, umani, intellettuali, religiosi, a creare un potente addensamento linguistico-filosofico. Proprio il nostro pieno coinvolgimento nell'opera ci ha definito, dal principio, non una "compagnia" ma una "formazione" che coinvolgeva funzioni diverse all'interno dello stesso ensemble.

La congiuntura hölderliniana da cosa è scaturita?
Ciò lo definirei il periodo della grande densità poetica, della maturità artistica, l'incontro con la poesia hölderliniana. Hölderlin è il Leopardi della letteratura tedesca, ma la sua scrittura poetica presenta maggiori difficoltà di comprensione e penetrazione; è insieme visionario e scientifico, lucido e folle, personificazione di tutti gli ossimori e le contraddizioni dell'intellettuale romantico dopo il fallimento del sogno rivoluzionario.

In senso più ampio, Hölderlin induce all'atto della lettura prendendo conoscenza di ciò che è scritto o di come è scritto?
La lettura della sua opera ci ha permesso di essere penetrati da una visione complessa del pensare poetico, la poesia che dà forma al significato, forma e sostanza, parola e visione. Hölderlin è stato "il maestro", molto più dei maestri "vicini" del teatro; non mi sono mai sentita prossima alla teatralità, né alla funzione emotiva dell'attore, né alle figure di riferimento canoniche del teatro a me contemporaneo. Noi abbiamo scelto istintivamente un'altra strada, e più che prenderla siamo stati presi. Quello su Hölderlin è stato un lavoro di quattro anni e credo che nessun'altra formazione in Italia abbia lavorato così tanto e ossessivamente, non solo su una singola figura, ma su un materiale altrettanto denso e oscuro e in fondo così poco teatrale. Tutto questo era assolutamente anti-tendenziale, nel senso che erano gli anni del teatro effimero, della seduzione dell'immagine estetizzante e "facile", dei sentimenti, delle emozioni, insomma vivevamo in tutt'altro clima culturale. Tutto ciò succedeva dal '91 al '94. In quel periodo il mio lavoro all'interno del processo creativo consisteva nel dare struttura, ossatura alla drammaturgia: per anni, insieme a Francesco Pititto e Barbara Bacchi, abbiamo tradotto i testi di Hölderlin in una pratica quotidiana, di analisi e approfondimento estremo che dava funzione e forma all'esperienza spettacolare. Il lavoro con gli attori potente, estremo, continuo, incessante.

La collaborazione con Giuliana Di Bennardo quale valore aggiunto ha portato?
In questa fase, di cui abbiamo sopraccennato, c'è stato un passaggio importante: bene appunto la collaborazione con un'artista, Giuliana Di Bennardo. Con lei c'è stata una condivisione profonda della pratica artistica, e mi ha, per così dire, "infettato": vederla lavorare, seguirla da vicino e sentire sovrapporsi la funzione del teatro alla parola plastica, mi ha coinvolto moltissimo, ed è stato un contagio meraviglioso. Da lei ho imparato tantissime cose, ma soprattutto il rigore della visione formale. È stato un rapporto lungo, fruttuoso, durato quattro, cinque anni, e terminato con un passaggio critico difficile, come spesso avviene nelle relazioni forti; da allora, più o meno dal 2000, ed in particolare in questi ultimi dieci anni mi sono occupata della visione plastica, della materia, cercando di mettere sullo stesso piano il lavoro attoriale e il lavoro "construens", quindi creando installazioni più o meno complesse e articolate, e più o meno indipendenti dal lavoro teatrale. Fino a riflettere profondamente sull'autosufficienza di questa parte del mio lavoro, senza rinunciare al lavoro attoriale, ma avvertendo una specie di primato della visione plastica sull'azione performativa.

A quale riflessione ti conduce la scelta della materia nella visione corporea e umana?
Gli umani sono meravigliosi, ma meno duttili della materia, perché hanno coscienza di sé. Solo quando la perdono, o sono assediati dalla follia, sono veramente artisti. Il lungo lavoro che abbiamo fatto con gli attori da noi chiamati "sensibili" – attori che hanno patologie, disabilità psichiche e intellettive – mi ha permesso di entrare in spazi esistenziali sconosciuti. Quando lavoro con loro vengo letteralmente sovrastata dall'intensità della loro funzione poetica, non li contieni, ma ne sei contenuto. È un lungo processo, che mi ha portato a mettere sostanzialmente sullo stesso piano il lavoro installativo e il lavoro di visione drammatica. Oggi mi sento "ricomposta" in queste due visioni della materia: una corporea e umana, e l'altra più muta, più silenziosa.

Il movimento ordinato ad un fine, come si è messo in pratica nel vostro complesso degli elementi coordinati e operanti?
Per un lunghissimo periodo l'ensemble è stato numeroso, e per dieci, dodici anni una media di cinque-sei attori fissi, stabili, un collaboratore alle scene, il musicista, l'organizzatore, l'amministratore e un ufficio stampa, un team vero e proprio. A partire dal 2006 questa macchina produttiva è stata progressivamente smontata. Prima di tutto perché condizionava le modalità espressive, [...] avveniva che il nucleo attoriale determinasse i progetti e non il contrario, e quando questo processo è arrivato ad una saturazione delle relazioni artistiche ha prodotto una crisi inevitabile e necessaria di alcuni rapporti storici. Da quel momento in poi, per ogni progetto abbiamo cercato di individuare l'interprete più adatto, coerente, che con la sua eccezionalità incarnasse quel lavoro, l'interprete unico che dà senso e significato all'azione performativa.

A tutto tondo quale evoluzione ha avuto nel tempo il tracciato della Lenz?
Il nostro percorso artistico è iniziato a metà degli anni ottanta nelle stanze/galleria di un grande appartamento nel centro storico di Parma. La scelta di lavorare in spazi non convenzionali è rimasta nel tempo una nostra nitida cifra stilistica. Ma oltre alla "glorificazione" dell'identità spaziale dei luoghi attraversati nelle nostre mise-en-site, nei primi anni novanta abbiamo sentito prioritaria la necessità di avere un luogo di lavoro "stabile", in cui creare le nostre opere senza i vincoli legati alle comuni tipologie teatrali. Una vecchia fabbrica di circa 1000 mq situata nella periferia storica della città, ristrutturata lasciandone intatti i segni del tempo, è diventata la nostra officina creativa e la sede permanente delle nostre attività.

Cosa ritieni imprescindibile trovare nel luogo di lavoro?
Fondamentale è la dimensione del "luogo". Ci siamo fondati senza avere alla base una struttura tecnica/architettonica, nessun edificio. Abbiamo iniziato il nostro percorso artistico in una condizione di massima autonomia, nella stanza di una grande casa, una modalità oggi, peraltro, molto praticata. Tuttora continuo a creare pensando a quella stanza, dove per "stanza" intendo non tanto il luogo familiare e privato quanto una dimensione di auto-rappresentazione; un "non luogo" inconciliabile con la tradizione del teatro italiano, che ancora oggi, con pochissimi esempi di spazi post-industriali rifunzionalizzati ad uso scenico, rimane ancora il teatro dell'ottocento: con la struttura del palcoscenico, la visione frontale, il rapporto separato tra pubblico e scena. Rimane la fatica di una visione diversa del teatro: penso anche alla dimensione della "scenografia", che io definisco "installazione artistica": terminologia che scelgo non perché dà più valore all'opera ma in quanto "toglie", elimina la dimensione dell'inconsistenza scenografica, del legno, della tela, delle quinte: elementi materici senza identità, semplicemente strumentali al racconto scenografico. Perciò il "luogo", la "stanza", la "white box" degli spazi espositivi, luminosa – eludente la luce teatrale – è ciò che ha ispirato inconsapevolmente gran parte del nostro lavoro.

Una sorta di moto ondoso in cui la parola naviga con le altre parole?
C'era, all'origine, una spinta, un'idea naturale di fusione tra le discipline, dove la parte visuale aveva una dominante forte, se pur governata da un certo minimalismo e rigore, poiché la cifra interpretativa dello spazio era quella di essere una parola in colloquio con le altre parole, visive, drammaturgiche e sonore. Eravamo nella metà degli anni '80, un periodo molto ricco nel panorama della ricerca italiana, un periodo in cui – dopo anni di seduzione visiva – si riprendeva, in maniera nuova, il lavoro sul testo. Modalità che per noi è diventata cammino estetico. Fin dall'inizio abbiamo lavorato a macro-progetti, biennali o addirittura triennali, mettendo al centro non un testo ma un'opera. Attraverso la lettura dell'opera, volevamo rilevare soggetti ed elaborazioni legati al presente: una classicità rivisitata e tradotta per un immaginario contemporaneo.

Oggi alla Lenz Fondazione qualcosa è cambiato nell'atto di avvicinarsi, di accostarsi?
Non troppo è cambiato da allora nel senso che è sempre viva la pulsione analitica, la tensione alla de-creazione, quella "giusta inquietudine" che innerva il lavoro artistico. Non mancano i dubbi, l'esigenza di rinnovare e rivitalizzare – proprio attraverso il dubbio – le motivazioni del fare artistico. Non cambia quel rapporto di "somatizzazione": si è quello che si fa. Non riesco a pensarmi estranea al linguaggio performativo e installativo, che oggi corrisponde meno alla fruizione dello "spettacolo compiuto", inteso come confinato nella dimensione della lettura dello spettatore.

Come metti a fuoco un obiettivo artistico?
Quello che perseguo attualmente è l'identità dell'installazione che funziona come colloquio intimo con lo spettatore, anche al di là del tempo di fruizione dello spettacolo. Questo è l'aspetto che più mi appassiona, mentre all'origine mi appassionava il rapporto con l'interprete. Oggi questo rapporto non è sfumato ma, al contrario, esaltato dall'incontro con gli "attori sensibili" e dalla dimensione di "eccezionalità" che loro incarnano. Oggi considero l'attore un dispositivo esaltante di connessione tra l'installazione scenica e la parola intellettuale o misterica della poesia. L'attore si trova a metà, legato ai due piani. Non è indipendente. Trovandomi oggi di fronte ad un attore solo, seduto su una sedia, farei in un certo senso più fatica a lavorare con l'attore che con la sedia. Perché la materia, a differenza delle persone, ha un'innocenza che ti permette di lavorare senza dover scendere a compromessi. La materia è dura ma è anche innocente: una volta deciso l'atto da compiere non c'è più mediazione. Con l'umano invece devi continuamente mediare. Mediare e rimediare.

Lo storico Festival Internazionale di Performing Arts "Natura Dèi Teatri", diretto da te e da Francesco Pititto, nasce da quale esigenza?
"Natura Dèi Teatri" è un progetto di produzione e riflessione sullo stato dell'arte contemporanea. Il nostro spazio fisico ed espressivo viene attraversato dalle esperienze estetiche più innovative nell'ambito delle performing arts europee. Gli artisti sono invitati a produrre lavori ad hoc per il Festival, stimolati da impulsi concettuali suggeriti dalla nostra visione poetica. Oltre alla presentazione dei nostri spettacoli, alla realizzazione dei laboratori pluridisciplinari, dal 1996 abbiamo aperto questo dialogo attivo con la scena contemporanea internazionale, attraverso la direzione del festival – da noi curato – dedicato alle nuove ricerche artistiche.

Il linguaggio della "Lenz Fondazione" su quale vocabolario si fonda?
Matrice irrinunciabile del pensiero pedagogico di Lenz è la ricerca di una nuova funzione linguistica dell'attore nel teatro contemporaneo. Il laboratorio è lo stato in cui si trasfondono sapienze drammatiche, filosofie sceniche e tecniche del vivente, è il tempo in cui l'umano trapassa sé per compiersi pienamente nel proprio destino artistico e poetico. È monumento in costruzione.

A tuo avviso quando l'interprete diventa attore sensibile?
In questi anni il pubblico ha esperito tante modalità di messa in scena. La funzione di chi deve predisporre il complesso articolarsi di segni linguistici se il segno primario – l'attore sensibile – pone già in partenza un potenziale espressivo esplosivo e di per sé già catartico. Quale altro attore o attrice, se non attore o attrice sensibile, potrebbe dire lo stesso verso nella medesima intonazione, improvvisazione, discrezione, sincerità, invenzione? Quando l'attore sensibile diventa presenza senza tempo, universale, rappresentativa di quella dimensione spaziale, emozionale, teatrale nel senso più puro. Non c'è caricatura, né imbonitura, c'è solo la Parola nell'unica modalità in cui deve essere detta, questo provoca grande emozione in chi partecipa, e in questa emozione si condensano i diversi linguaggi".

Grazie a "Lenz Fondazione" viene identificata una nitida produzione letteraria basata sulle varie poetiche teatrali?
Ripensando a Lenz, a Hölderlin, a Kleist, a queste drammaturgie così straordinarie del romanticismo tedesco, all'insinuarsi della parola poetica oscura che sembra attingere ai margini poetici della normalità, mi viene da pensare che quest'incontro con queste persone eccezionali e diverse fosse già "annidato" in un presentimento intellettuale, in una sorta di futuro circolare.

Nel panorama teatrale contemporaneo Lenz rappresenta una realtà esclusiva, per ricerca e visione. Un connubio, il vostro, che ha portato un vento inedito?
Grazie all'incontro accennato nella risposta precedente, siamo venuti a contatto con realtà molteplici e con interpreti eccezionali. Autori e attori di una vita artistica sconosciuta. Prima dell'incontro reciproco eravamo entrambi sconosciuti a questo tipo di possibilità. E d'altra parte questo attraversamento, che non è all'origine della poetica ma s'inscrive in una ricerca non cosciente, non si esaurisce in un discorso di "teatro dedicato" e non è più neanche tanto un'esperienza di rifondazione della propria teatralità, passando da questo nuovo "eroe poetico e tragico". È un attraversamento divenuto ormai permanente, un'esperienza che ha come spalancato una porta su un abisso. Accade quando – di fronte ad alcune realtà sconosciute – ti rendi conto che non c'è più niente di certo e perdi ogni punto di riferimento. Nel primo decennio del duemila abbiamo moltiplicato, intensificato molto le esperienze laboratoriali, venendo a contatto con il ventaglio più ampio del carattere umano.

Cosa intendi per "carattere"?
Per "carattere" intendo proprio la personalità, che nell'attore sensibile, appunto, è qualcosa di straordinario. Abbiamo lavorato con persone con disabilità fisica, mentale, autismo, manierismi comportamentali, disabilità sensoriale. In dieci anni di lavoro con il primo nucleo di formazione si è consolidato un rapporto soggettivo particolarmente profondo e totale con alcuni attori sensibili, tra cui Barbara Voghera, interprete del primo "Amleto" oggi ridefinito in una monumentale forma di assolo. Barbara è diventata ormai una delle attrici cardine della nostra poetica. La considero un talento superiore e raro da incontrare.

Come si sviluppano all'interno del collettivo le "prove"?
Solo ora, dopo tanti anni di lavoro sulle grammatiche di fondo dell'attore, riusciamo ad avere delle prove in singolo in cui esaltare la soggettività, la costruzione dell'elaborazione drammaturgica del testo. Un lavoro molto grosso che è passato dall'alfabetizzazione teatrale a un lavoro di solitudine interpretativa molto importante dal punto di vista della relazione con il mondo al quale non apparteniamo e non apparterremo mai che è quello, appunto, del "teatro dedicato".

Hai avuto modo di definire "chimica sociale" il bisogno di aggiornamento e rinascita del teatro contemporaneo?
Condizione necessaria per un profondo rinnovamento del linguaggio del teatro contemporaneo, è la riunificazione tra esperienza estetica e comunità vivente nel presente storico: il teatro concepito come uno spazio dinamico, in cui possono essere realizzate forme di sperimentazione artistiche e comunicative. Un teatro inteso come fisica dell'immaginazione, volumetria della creatività, chimica di corpi sociali, differenziati ed esaltati nella soggettività del proprio agire estetico. La nostra azione artistica ha sempre tenuto in colloquio due piani apparentemente antitetici: la parola mediata, macrologica necessaria al linguaggio artistico contemporaneo e l'appartenenza alla mappatura sotterranea del luogo in cui viviamo e lavoriamo; una relazione stretta col sottotraccia antropologico della città in cui creiamo, senza esserne parte culturalmente subordinata, una cittadinanza dinamica.

Una sorta di resurrezione e di palingenesi?
"Lenz" è presente con pienezza creativa in marginalità simboliche della realtà urbana – ipersensibilità psichica, adolescenza, intellettualità radicale – e le restituisce, direi le traduce, nella lingua dell'arte contemporanea oltrepassando il profilo dell'identificazione "locale". Il nostro lavoro ultra decennale con attori "sensibili", ex lungodegenti psichici e persone con disabilità intellettiva ha maturato un percorso di ricerca unico in Europa per intensità e risultati espressivi.

La ricapitolazione del teatro mediante "attori sensibili" dove trova il suo naturale nutrimento?
Credo che uno dei motivi che porta molti artisti ad interagire con le persone portatrici di un disagio sociale sia la necessità di 'vedere' paesaggi sconosciuti, di non essere riconoscibili a se stessi. In genere quando si ha un rapporto con un interlocutore, in questo caso l'attore, si ha la vocazione di una totale compromissione nell'altro, una totale identificazione nell'interprete, dove però c'è il rischio di una saturazione: se so già chi sei, perché mi identifico in te, se conosco la tua lingua e tu conosci la mia c'è la sensazione di un "consumo": si sente come consumato il rapporto linguistico con il proprio interlocutore attoriale. Quando ci si avvicina a un paesaggio diverso, dal punto di vista intellettuale, spirituale ed emozionale, invece, non ci si riconosce e quindi c'è la possibilità della perdita, del disorientamento e, quindi, dell'apertura a nuovi orizzonti e, allo stesso tempo, la fascinazione di accedere a un luogo misterioso.

Nell'azione del tendere e nello stato di ciò che è teso, si instaura una forza di trazione?
Questa è un'altra ragione possibile è l'apparente semplificazione del rapporto linguistico – presupponendo un potere conoscitivo di elaborazione – dovuta al fatto di lavorare con un soggetto ritenuto ingenuo, infantile, generoso, anche se nello stesso tempo estremamente "duro". Duro perché non corrisponde immediatamente ad un proprio modo di pensare; generoso e malleabile in quanto "bisognoso" o ritenuto tale dal regista che prova così un'illusione di potere. Credo che questo sia un fraintendimento del lavoro creativo con i soggetti sensibili. "Prendersi cura di" è normale ma non è uno scopo. Il dare potere – un potere che passa attraverso il linguaggio – può essere, invece, uno scopo formativo. Questa però è una strada meno praticata e quando lo è la modalità utilizzata è strutturalmente abbastanza convenzionale. Conoscere un testo a memoria e saper parlare correttamente sono tecniche attoriali necessarie ma che non esauriscono un percorso. Le grammatiche di base devono essere assimilate mantenendo il filtro della soggettività. Se ho una persona sordomuta, la parola si trasforma in base alla caratteristica soggettiva.

Dove si identifica il valore ampio nelle espressioni per Lenz?
Quello che ci interessa è dare potere di lingua tenendo conto del potenziale espressivo soggettivo. Un'ultima chiave di lettura possibile è che il "teatro sociale", essendo la formazione in Italia un campo di intervento molto forte, abbia aperto scenari lavorativi nuovi, dove un giovane artista può sperimentare, fare pratica e produrre teatro.

Una forma intensiva per scovare l'uscita può essere ricercata in una pietra, una sbarra, uno steccato. Cosa segna per te una favorevole frontiera?
Esiste un confine, quello del beneficio terapeutico: una richiesta giusta che riguarda però la società e non il linguaggio dell'artista. È un lavoro che presuppone delle tecniche diverse, sottolinea il lavoro di gruppo piuttosto che la crescita individuale, il processo rispetto alla costruzione dell'opera. Il punto è avere chiaro nella mente lo scopo dell'operazione. Se chiedo ad una persona anziana di raccontarmi il suo primo amore devo sapere prima dove voglio arrivare. Se lo faccio per ristabilire delle attività cognitive legate alla sua memoria è una funzione ben precisa. Se attraverso il racconto del vecchio che ricorda la fanciulla il vecchio diventa la fanciulla il discorso cambia: è una visione poetica, una lettura finalizzata all'opera e questo indipendentemente dal fatto che lo spettacolo alla fine ci sia o non ci sia. Il processo, una volta chiarito lo scopo, acquista una direzione precisa, un valore autonomo immediato.

Come avviene l'incipit tra l'attore normodotato e l'attore sensibile nell'incontro e nel dialogo?
In tutta la prima parte del lavoro con gli attori sensibili c'è stato come un sodalizio, un matrimonio artistico straordinario in cui si cercava di rivitalizzare la lingua dell'attore normodotato, che di per sé è una ripetizione di alcuni stilemi costruiti in anni e anni di lavoro. L'incontro e il dialogo tra l'attore normodotato e l'attore sensibile muoveva quella fissità che si crea in un lavoro attoriale, anche se di ricerca. L'attore sensibile innestava la propria rivoluzione su un campo e per farlo aveva bisogno di questo dialogo stretto. Ciò che emergeva soprattutto era la capacità di vivere con un'intensità parossistica il momento performativo, al punto che non era più così marcata la distinzione tra realtà e verità.

Hamlet, andato in scena con la tua regia insieme a Francesco Pititto rappresenta la summa di una lunga e profonda esperienza laboratoriale ed artistica, nella piena verità della finzione?
Riguardo ad "Amleto", per esempio – complici le strutture testuali e poetiche – Barbara introduceva la 'verità di realizzare quella finzione'. Pur essendo chiaramente consapevole della propria funzione di interprete, strutturava tale sovrapposizione in piena verità, ricomponendola dentro la drammaturgia amletica che è di per sé una drammaturgia di follia. È un'azione iperbolica: se noi normalmente abbiamo piacere a rappresentare un'azione, nel caso dell'attore sensibile tale piacere è elevato alla potenza, come se il campo di intenzioni, di tensioni, di piaceri e desideri trovasse in quel momento l'unico punto di realtà e di verità insieme: io amo solo lì perché è lì che si esprime l'amorosità della mia identità, attraverso la parola poetica, fiabesca. È una capacità visionaria e di vocalità interiore superiore, che non è presente in tutti, questo è bene sottolinearlo. In alcuni soggetti è dato come un dono, frutto di una compensazione quando un'altra possibilità espressiva è stata negata. Ma solo alcuni di loro sono attori nel senso vero del termine, che implica anche una certa disciplina, capacità, tecnica. Oggi più che pensare a questo scambio tra attore normodotato e attore sensibile, avendolo praticato a lungo, mi interessa di più trovare l'unicità in ogni singolo. Ho ridotto molto la parte laboratoriale con i nuovi ingressi e i giovani a livello base e continuo a lavorare sullo stesso nucleo concentrandomi di più sull'unicità e sull'autonomia espressiva del soggetto sensibile.

Un'attività diligente e sistematica di ricerca, volta alla scoperta della verità e al punto d'arrivo di una trasformazione (fonetica, morfologica, lessicale)?
Ogni attore sensibile ha delle caratteristiche e una gamma espressiva che sono in rapporto al tipo di disabilità. Barbara è elegantissima ma ha anche una forte fisicità. Mentre l'attore molto anziano con una storia di mancanza di consapevolezza del proprio corpo, come l'ex-lungodegente psichico, può avere invece un'assenza quasi totale della fisicità, dell'esistenza della propria corporeità, a favore di una capacità sublime di elaborazione verbale. L'indagine che stiamo portando avanti oggi cerca più l'unicità che il dialogo. C'è sicuramente ancora l'aspetto dell'influenzarsi ma è un'influenza molto meno ideologica rispetto al "contagio" iniziale. È un'indagine sempre più prossima all'esito estetico.

Come percorri nel tuo immaginario, Maria Federica, lo "spirito del teatro"?
Ogni segno naturale è perfetto. La perfezione dei segni naturali ritorna in quelli artificiali se fecondi, grandi, degni, chiari, giusti, certi. Da temere è l'ingenuità, da perseguire l'innocenza. La coscienza è rivale della grazia, ma la conoscenza fa percorrere il cammino verso la bellezza e la verità.

La capacità di produrre opere, beni, servizi, progetti e, più in generale, idee è sempre foriera di fertilità?
Pericolosa è la mancanza d'acqua. Un segno fecondo deve designare e liberare molti significati. Si deve combattere la povertà moltiplicando generosi i segni della propria subordinazione. Bisogna sapere della secchezza e dell'aridità che ospitano la tragedia e del sacrificio dell'oscurità. Ma distruzione e costruzione siano insieme, componendosi nella metamorfosi della parola corpovoce del vivente: la parola vive morendo nel corpo eroico. L'unità dell'origine si unisce alla fluidità della fine. Una sola testa all'inizio, ma poi due braccia e dieci dita, testo e arti del teatro. Il corpo plastico in combattimento tra i piani spaziali e le linee della luce è la parola dell'arte nella parola del teatro.

Maria Federica dove ritrovi la "grandezza del teatro"?
Grandi significati posseggono una grandezza o fisica o morale. È un errore confondere il margine con la piccolezza. Esso contiene il tutto e quindi è enorme. La grandezza non distingue l'alto e il basso, sale e scende l'orizzonte. Il grande segno morale è minuscolo e non fa mostra di sé. La superbia non misura i segni veri, degenerazione del teatro senza conseguenze e senza degnità.

Lenz Fondazione possiede la dote stilistica del saper parlare, scrivere, spiegare con chiarezza. Una "chiarezza del teatro" riferita all'anima, alla coscienza, allo sguardo, alla limpidezza?
Il chiarore viene dal pallore, la paura che guida la scelta dei segni. Un segno chiaro e bastevole per se stesso rende distinto il significato di tutte le altre cose. Forse la massima virtù, la più difficile a cui conformarsi. "Claritas" è nel suo punto supremo a mezzogiorno, all'aperto, in pieno sole, dove il teatro non distingue più tra il naturale e l'artificiale, quando il bello è nudo, non velato d'immaginazione.

La verità del teatro è un rilievo dell'opera che si vuol fare, una forma piccola da farsi grande?
La verità si oppone alla falsa conoscenza delle cose reali. La verità è alternanza dei toni e la mescolanza dei generi poetici. Il poeta tragico fa bene a studiare il poeta lirico, quello lirico l'epico, l'epico il tragico. Poiché nel tragico sta il compimento dell'epico, nel lirico il compimento del tragico, nell'epico il compimento del lirico. Si raggiunge la verità attraverso l'errore, la confusione e il caos.

L'atto teatrale di creare, di far nascere dal nulla è già di per sé una certezza Maria Federica?
Il teatro è attesa e compimento dell'arresto. Lo sguardo e l'attesa, è l'atteggiamento che corrisponde al bello. Finché è possibile concepire, volere, desiderare, il bello non appare. Per questo in ogni bellezza c'è contraddizione irriducibile, amarezza irriducibile, assenza irriducibile. Il teatro è nella vulnerabilità delle cose preziose. Fiori, angeli, bestie.

Mi parli del prossimo lavoro che vedrà "Lenz Fondazione" debuttare in prima nazionale a Parma?
Il secondo capitolo del dittico dedicato al mito di Ifigenia sarà in scena a "Lenz Teatro", nelle stesse sere in cui verrà proposta anche la prima nazionale dello spettacolo firmato da me con Francesco Pititto "Orestea #1 Nidi". Dall'8 al 13 aprile a Parma sarà in scena "Iphigenia in Tauride. Io sono muta". Ad interpretare lo spettacolo sarà Monica Barone, danzatrice dotata di una grande sensibilità performativa maturata in un rapporto profondo e consapevole con la propria specificità fisica; il lavoro, che si avvale delle notazioni coreografiche di Davide Rocchi, è l'esito di una triplice ispirazione: il dramma di Goethe "Iphigenie auf Tauris" (1787), l'opera di Gluck "Iphigénie en Tauride" (1779) e la storica azione di Joseph Beuys "Titus-Iphigenie", che ebbe luogo a Francoforte nel 1969. "Il quadro visivo su cui si infrangono le acque del Mar Nero che bagnano le rive di Tauride – l'attuale Crimea – definisce la linea di orizzonte che separa Iphigenia dalla patria e dagli amati. Sola, esiliata in una terra straniera in cui vigono usanze inumane, vive come un'ombra in un bosco sacro, custode muta del santuario dedicato a Diana, la dea che impietosita l'aveva salvata anni prima da un tragico destino di morte, vittima innocente della violenza del padre. Al centro dell'area scenica, sospese tra i rami metallici di piante meccaniche, in un rispecchiamento nitidamente autobiografico, si stagliano le corna della cerva immolata e sgozzata al posto della giovane. Sul proscenio si erge un piccolo altare, un freddo tagliere in acciaio, su cui è posto un lavacro per eseguire i rituali di purificazione: su quell'altare, disobbedendo a leggi che ritiene ingiuste e disumane, Iphigenia non immolerà alcuna vittima, non compirà alcun sacrificio umano, ma con un rito intimo e segreto implorerà gli dei di ritornare libera e di essere felice. Di fronte al loro silenzio, confusa e angosciata, decide di osare un'azione audace e di conquistare una nuova patria-corpo, libera da vincoli sociali e religiosi". Simboli, rituali, azioni autobiografiche della potente performance del 1969 di Joseph Beuys "Titus-Iphigenia" sono state ispirative per l'"Iphigenia in Tauride" di Lenz. Inoltre, sempre dall'8 al 13 aprile, Lenz Teatro ospiterà il debutto di "Orestea #1 Nidi", prima parte di un articolato progetto triennale firmato da Maria Federica Maestri e Francesco Pititto dedicato alla tragedia eschilea. (www.lenzfondazione.it)

Michele Olivieri

Ultima modifica il Domenica, 31 Marzo 2019 12:29

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