La continua ricerca di Rosario Palazzolo tra personaggi e storie che si impongono alla sua scrittura - Intervista di Rosa Guttilla
Rosario Palazzolo è prima di tutto uno scrittore, oltre a vestire i panni dell’attore e di regista teatrale. L’architettura delle parole - che non trascura mai il concetto - riveste per lui un’importanza che a volte diventa “tormento creativo” fino a quando non trova espressione compiuta e, allora, è pronta per essere donata al pubblico. Che sia uno spettatore o un lettore nulla cambia. Dal debutto nell’ambito della scrittura teatrale, che risale al 2005, Palazzolo si è imposto con diverse produzioni nel panorama nazionale, con rinnovato apprezzamento di critica. A lui è stato assegnato il Premio Anct 2020 (Premio della Critica Teatrale) per lo spettacolo “‘A Cirimonia” nella messa in scena e interpretazione di Enzo Vetrano e Stefano Randisi.
Lo spettacolo "’A Cirimonia" ha appena ricevuto un importante riconoscimento. In questo anno terribile forse ha un peso maggiore...
Ha il peso che ha, ma non mi illudo, gli anni terribili stanno sempre dietro l’angolo, in attesa del mio passaggio, e il mondo è pieno di angoli, per fortuna ho un passo svelto e una buona vista, e così li scovo sempre un attimo prima, e tento di anestetizzarli con l’ironia, o con la fortuna, o con entrambe, e poi mi destreggio, mi smarco, provo a correre sulla fascia laterale del campo, quella più vicina al dirupo, da lì è più facile arrivare in fondo alle cose, oppure caderci.
’A Cirimonia era già stato messo in scena nel 2009 con attori diversi: come è cresciuto in questi anni?
Diciamo che è cresciuto in altre opere, e adesso che ci penso, un paio di mesi fa, una studentessa (Martina Vullo, si chiama), ha fatto un’ottima tesi di laurea sul mio lavoro d’autore, dedicando un intero capitolo a questo aspetto della mia scrittura, e in verità mi ha fornito parecchi spunti di riflessione, ché insomma constatava, Martina, che i miei testi subiscono una sorta di travaso costante, inarrestabile e necessario, proponendo molto spesso punti di vista differenti di un medesimo discorso, o immaginari convergenti in un ragionamento sempre nuovo, e dopo averci riflettuto devo dire che mi trovo parecchio d’accordo con questa analisi, e in effetti ci sono alcuni temi, certi personaggi, che proprio mi perseguitano, s’incuneano in storie che non gli appartengono, pretendono la mia attenzione, mi costringono a osservare la vita con quei filtri lì, e io mi assoggetto, demordo, e provo perlomeno a trattare un minimo di autonomia.
Perché la scelta della coppia Vetrano-Randisi per questa nuova messa in scena?
Il realtà l’idea è venuta a Filippa Ilardo che stava studiando ’A Cirimonia per un suo saggio (“Scena multipla e scatola del reale, tra metafisica e metateatro – Rispecchiamento e piani di rappresentazione nella drammaturgia di Rosario Palazzolo”, Maltemi Editore, 2020), e così, un giorno, al telefono, Filippa mi disse “Guarda che secondo me questo testo sarebbe perfetto per Vetrano e Randisi”, e lo disse come una scoperta incontestabile, figlia di un empirismo coatto, imbattibile, come quei pensieri che funzionano perfettamente già solo al pensiero, e per i quali, io, provo un certo timore, poiché funzionano talmente bene, al pensiero, che la realtà non potrebbe fare altro che contestarli, e pure provai una specie di stretta al cuore, ché in effetti ’A Cirimonia avrei voluto rimetterlo in scena io, prima o poi, e avevo persino fatto pace con Anton Giulio Pandolfo che con me lo aveva diretto e interpretato nel 2009, e non voglio certo insinuare d’averci fatto pace per questo, beninteso, ma una nuova versione dello spettacolo poteva essere un coronamento, e insomma io dissi “Senti, vediamo che dicono loro, vediamo che ne pensano”, e ne pensarono bene, e così ci sentimmo, e così dovetti tornarci su, e così diventai l’autore deprecabile che sono diventato, quello che non è mai soddisfatto, che soffre durante le prove, che ogni tanto dice cose sgradevoli, che sa travestirle bene, che poi mica tanto, che infine è felice, e abbraccia tutti, proprio lo stereotipo più abominevole.
Come è arrivato alla stesura del testo?
Per tappe, per fallimenti, per inerzia, per pigrizia, per ticchio, per pallino, per ansia, per disperazione, per pignoleria, per megalomania, per necessità, per senso, per chiacchiera, per chiudere un discorso, per ribadirlo, ma anche per negarlo, o tanto per farlo, per tarlo, per gioia, per miracolo, e pure per vanto.
La scrittura, in generale, è croce e delizia della sua produzione artistica in generale, essendo unica nel panorama teatrale e non solo.
La scrittura deve essere unica, o perlomeno sforzarsi in tal senso, ché la parola è la sola arma che possediamo per contestare la realtà, venirne a un capo, e io intendo la scrittura per come l’intendo io, e io l’intendo, essenzialmente, come uno sguardo laterale sulle cose, capace di indicare le strade – e che siano tante e piene di incroci, svincoli e sottopassi – soprattutto a chi si arroga il diritto di indicarne una sola, è insomma un grimaldello, per me, è, la scrittura, o al limite una specie di monito, un invito costante all’approfondimento, all’analisi, al dispiegamento delle forze ragionatrici contro l’ineluttabile medietà delle masse barbare in cui s’è trasformata l’individualità, e mi rendo conto di tradire una certa tracotanza nel dire ciò che dico, ma in effetti a tracotare è il concetto, sempre, frutto di una realtà pluriprismatica, e di fronte a un concetto così io mi arrendo, ammetto la mia presunzione e chiedo scusa, e del resto il concetto è preponderante, per me, e la forma che hanno i miei testi non è altro che la forma che il concetto ha reclamato, il suo abito della festa, en pendant col pensiero che lo ha circoscritto, epperò propendo per un’analisi che non sia mai risolutiva, mai doma, mai resa innocua dalla soddisfazione di averla centrata, e ritengo che questa caratteristica, questa pretesa, sia di coloro che hanno qualche rotella fuori posto, e immaginano il processo creativo come qualcosa da esplorare, piuttosto che da spiegare, perché auspico un destinatario responsabile, intelligentissimo e coraggioso, disposto a crollare con tutta la baracca, e in effetti la baracca è già pronta a crollare, prima ancora di qualsiasi spinta.
Dalla laurea in filosofia (con una tesi sul teatro di Edoardo De Filippo) come è giunto, tra l'altro, ad essere drammaturgo?
Accidentalmente, senza alcuna appendice romantica, e in barba a qualunque previsione, quasi per contestazione, e difatti ancora oggi faccio sogni complicati in cui sono ciò che non sono mai stato, che sarei dovuto essere se solo le cose fossero andate come dovevano, e del resto così sono andate in una qualche realtà parallela, perché, stando alle premesse, sul fatto che io diventassi uno scrittore, che qualcuno lo confermasse, e che addirittura ne facessi un mestiere, c’erano le medesime possibilità che ci sono per il signor Tizio, mettiamo, che un giorno decide di farla finita, e allora apre la finestra, si lancia nel vuoto, e proprio in quel momento passa di lì un camion di materassi, in cui qualcuno, per la prima e unica volta, ha dimenticato la cappotta aperta.
Secondo lei la circostanza della pandemia che ripercussioni ha o avrà sul teatro?
È una domanda difficile, e per cui la mia risposta sarebbe senz’altro modesta, e oltremodo boriosa se solo provasse a infilarsi in un ragionamento minimamente esaustivo, e neppure l’ironia la salverebbe, e ciò che mi sento di dirti è che viviamo in un tempo in cui occorrerà molto tempo prima di poterlo dire a qualcuno.
Chi ci prova, a mio parere, è un idiota.
Come ha affrontato questo periodo di forzato stop dalle scene?
Fantasticando su un dopo.
Progetti in cantiere?
Sto scrivendo un testo teatrale, che verrà prodotto dallo Stabile di Catania con la mia regia e in scena Silvio Laviano, e posso dire che è un testo che mi sta facendo faticare parecchio, un testo complesso, zeppo di curve, che paga il tempo in cui sta nascendo, e del resto parla proprio dell’inutilità della scrittura, del teatro, oggi, e di tutte quelle abilità del pensiero che hanno a che fare con la creazione, e non certo per colpa del virus attuale, ma di tutti quegli altri che già da molto avvelenano le nostre vite, e poi ci sarebbe il romanzo nuovo, che dovrebbe uscire a novembre prossimo, ma siamo nell’ambito dell’ipotesi, soprattutto perché devo convincere me stesso sulla sua necessità, temo proprio di non riuscirci.
C'è una frase di un autore che è il suo faro nella scelta quotidiana di essere "uomo di teatro"?
“Tutto quello che scrivo, tutto quello che faccio, è disturbo e irritazione.
Tutta la mia vita in quanto esistenza, non è altro che un continuo disturbare e irritare. Giacché richiamo l’attenzione su dei fatti che disturbano e irritano.
Io non sono un uomo che lascia in pace la gente.” (Thomas Bernhard)
Rosa Guttilla