Protagonista di molti film e fiction televisive, oltre che in teatro, Massimiliano Gallo è un attore che ha dimostrato di sapere affrontare tutti i generi dello spettacolo con grande dinamicità, che fa capo a una tradizione, quella napoletana, famosa nel mondo da sempre. Figlio d’arte del cantante e attore Nunzio Gallo, avrebbe dovuto essere in tournée con Il silenzio grande di Maurizio De Giovanni per la regia di Alessandro Gassmann, testo che è diventato anche un film ora in post produzione.
Iniziamo proprio da qui: Da quel “Silenzio grande”, teatrale.
Siamo stati in giro lo scorso anno ottenendo un gran successo e quest’anno avevamo la tournée da gennaio ad aprile, a questo punto però credo che la posticiperemo all’anno prossimo. Il problema maggiore è che si dovrebbe organizzarla in modo preciso, con la situazione in corso non è possibile sapere una settimana prima cosa succede. Lo stesso fatto che le regioni variano di colore a seconda del contagio è un altro problema, magari succederebbe che si è in un posto e diventerebbe difficile raggiungere il luogo delle date successive.
E del film omonimo che ci dici?
Lo abbiamo girato sempre con la regia di Alessandro Gassmann, con me recitano Margherita Buy e Marina Confalone. Vediamo se riusciamo a portarlo a un festival, e in seguito uscirà.
Sei un protagonista molto attivo del nostro spettacolo, i risultati che stai ottenendo saranno frutto senz’altro di caparbietà e impegno.
Il cinema mi è capitato per caso nel senso che facevo teatro, tournée molto lunghe. Si presentò l’occasione del provino per fare “Fortapàsc” di Marco Risi, fui preso, era un ruolo molto bello. Il film seguente è stato “Mine vaganti”, Ferzan Ozpetek ebbe l’intuizione di utilizzarmi in una commedia dopo che mi aveva visto in un ruolo drammatico. In dieci anni sono riuscito ad arrivare a 35 film e una quindicina di serie televisive di successo e continuando sempre a fare teatro, avendo la fortuna di lavorare con i più grandi: solo quest’anno, per esempio, mi è capitato di recitare con Garrone e Sorrentino. Penso che ora tutto succeda ora con naturalezza perché arrivo da una gavetta molto lunga, da una vita di lavoro anche se magari sembra sia stato semplice all’inizio, cosa che non è mai. Diciamo che oggi sono più preparato, a volte quando arriva un po’ di successo si fa fatica anche a gestirlo, non si sa mai quello che è vero e quello che non lo è.
Sei figlio d’arte, avrà avuto la sua importanza per capire alcune dinamiche, alcuni sacrifici fatti.
Certo, sapevo benissimo cosa voleva dire ma soprattutto sono arrivato a fare l’attore talmente per gradi che ora sono sereno. Esser figlio d’arte significa capire che questo è un lavoro fatto di enorme disciplina, che non è lasciato al caso, che richiede tutte le 24 ore dell’intera giornata perché è anche un modo di vivere, bisogna gestire la propria in vita in relazione del lavoro, con accortezza. Dai miei genitori il più grande insegnamento che ho avuto è proprio la disciplina. E da mio padre anche l’idea che è comunque un gioco, di non prendersi mai sul serio e di stare con grande gioia sul set, sul palco. Al lavoro ci vado sempre come fosse la prima volta, non amo i miei colleghi che lo fanno con uno spirito di sofferenza, come se andassero in miniera, ci sono lavori più complicati insomma. Fare della propria passione un lavoro è già una grande fortuna.
L’attore deve avere umiltà, mettersi a disposizione del regista?
Per come lo intendo io si’, nel senso che dev’essere come una spugna, capace di grande intelligenza emotiva. Dico sempre che l’attore è un essere straordinario, è come se avesse i dati di un computer ma il cuore di un grand’uomo, avere entrambe le cose, e capire che linguaggio sta usando il regista, soprattutto quando si fa cinema è inutile partire per una personale direzione. E’ lui che ha il lavoro in testa, noi ci facciamo dei passaggi mentali come attori che sono molto autoreferenziali e che spesso non coincidono con il cammino di chi dirige uno spettacolo o un film. Un buon attore deve avere l’intelligenza di saper ascoltare, io sono uno che se discute col regista lo fa per una costruzione. Credo che un attore che si fa la regia da solo in un film o in uno spettacolo dove c’è già un regista non fa un buon servizio né a cosa interpreta né a se stesso, capita di vedere chi ha grande potere contrattuale che impone personalità o forza, ma il prodotto che ne esce non è mai un buon prodotto.
Con questa pandemia cosa è cambiato e sta cambiando?
Tutto. Il teatro soprattutto è stato messo da parte, in un angolo, in nome di un’emergenza si è cancellato secondo me qualcosa di essenziale per la crescita di un popolo, per la sua coscienza. Leggere nei decreti che il teatro messo, con la chiusura continua, alla stregua delle sale bingo fa molta tristezza, anche per il Paese. Il teatro è un’esperienza collettiva indispensabile e irripetibile che è nato per quella funzione, parlare con il popolo, a volte anche con scopi politici, ma che nasce per un confronto con la società. Saltare questo capitolo dicendo che non è possibile in questo momento aprire in nessun modo i teatri è qualcosa di molto triste. Le sale teatrali sono i luoghi più sicuri in assoluto, ci sarebbe da fare un ragionamento con i comitati scientifici. Del resto parlano i dati dell’Agis, su 340 mila spettatori c’è stato un solo contagio. Dire che i mezzi pubblici devono essere comunque affollati perché non c’è un’alternativa e poi chiudere i teatri è qualcosa di difficilmente digeribile.
E’ anche per questo che avete creato l’associazione UNITA?
Stiamo cercando di ricostruire un po’ la categoria, ridare un po’ di dignità al comparto dei lavoratori dello spettacolo, naturalmente noi ci occupiamo degli interpreti sia dello spettacolo dal vivo che dell’audiovisivo. A lungo andare secondo me questo Paese però dei punti fermi deve averli, la cultura è uno di questi.
Con l’associazione vi sentite ottimisti? Vedete degli spiragli di luce?
Noi stiamo intavolando una serie di cose, c’è già stato già un decreto che è passato grazie a UNITA, stiamo collaborando con il MIbact, chiaramente siamo propositivi e ottimisti verso il futuro e verso una ripartenza. Il teatro è un luogo sacro, e non lo dico io come attore: è un posto dove la comunità si incontra, dove l’individuo si forma. Adesso dobbiamo sperare nel vaccino e di conseguenza in una ripresa, in un ritorno alla normalità che comunque non avverrà da un giorno all’altro. Speriamo nella prossima stagione, e che sia una normalità anche nel senso di recupero dei rapporti, vivere così come ora distanziati non fa bene a nessuno.
Cosa diresti a un giovanissimo che volesse intraprendere la strada del teatro, del cinema?
Quando faccio i laboratori con i giovani sono sempre molto severo proprio perché credo alla sacralità del luogo teatrale, e di questo lavoro. Non condivido l’approccio elementare approssimativo, pigro, di molti ragazzi. In questi ultimi vent’anni c’è stato forse un messaggio falsato dai talent tv, invece il nostro è un lavoro che si deve fare perché innanzitutto fa stare bene e perché è l’unica cosa che potresti fare, sentirlo come un ‘esigenza fisica e mentale, e poi bisogna capire che la voce è uno strumento, come la mimica, le mani, e quindi c’è da lavorare su quegli attrezzi, non si può non conoscere il corpo, non gestire i movimenti. Bisogna applicarsi, studiare, conoscere i testi, imparare a distinguere i generi teatrali, musicali, anche cinematografici. Capire i diversi linguaggi.
Hai debuttato con Carlo Croccolo. E poi?
Si’, subito dopo il liceo, con il Tartufo di Moliére, poi ho fondato una compagnia con mio fratello e dopo ancora, cinque anni con Carlo Giuffrè, con cui ho fatto anche due lavori di Eduardo, Non ti pago e Natale in casa Cupiello, dove facevo il figlio. Quella è stata un’edizione storica, fu la prima senza Eduardo in scena. Ho lavorato anche con suo fratello Aldo, erano straordinari. E poi con Vincenzo Salemme. Diciamo che ho avuto la fortuna di incontrare dei veri capocomici, cosa che oggi manca. Direttori artistici in grado di dirti come si dice una battuta, che non è cosa scontata perché ci sono registi che sono bravi nel dirigere uno spettacolo ma che non sanno dare indicazioni all’attore.
Dopo i De Filippo, I Giuffrè la tradizione del teatro napoletano è sempre ancor oggi viva, presente?
Assolutamente sì, fortunatamente è un teatro che sta in salute, come lo è sempre stato, i grandi successi di allora si ripetono con le compagnie di oggi, quella di Salemme, di Luca De Filippo e Carolina Rosi e altre. Anche la città di Napoli artisticamente è in ottima salute, è diventata un set a cielo aperto prediletto dai registi, ma aldilà di quello è una città che durante la crisi culturale iniziata prima della pandemia ha reagito di più e meglio, che sforna continuamente talenti in tutte le arti, anche sotto l’aspetto delle novità, non solo nella tradizione. Pensiamo a Arturo Cirillo che inscena Scarpetta, ai testi di Annibale Ruccello, o ancora alla nuova drammaturgia di Leo Muscato.
Francesco Bettin