I Fatti
Tre Azioni della Necessità
La danza, quella con la “D” maiuscola che affonda le sue radici nella irriducibilità del tempo che ritorna, ha trovato una non ordinaria accoglienza all'interno della XXII edizione del “Festival le Voci dell'Anima” di Rimini, diretto con passione da Maurizio Argan e Alessandro Carli e quest'anno suggestivamente dedicato a “Gli Altri”. È infatti loro intenzionalità e finalità l'andare in cerca di ciò che non è ancora maturato alla ribalta e così, come scrivono nella presentazione, “Gli altri sono tutti coloro che vogliono far sentire la propria voce ma spesso non riescono, non possono, non hanno uno spazio per poterlo fare. Gli altri sono una necessità, gli altri siamo noi”. Un luogo, un cerchio che rimanendo chiuso e perfetto si apre all'infinito, uno spazio ultra-scenico in cui, giovedì 26 settembre sono andati in scena, dei 15 selezionati per il Festival tra le ottanta candidature ricevute, i seguenti tre brevi spettacoli, appunto, di danza.
PINK LADY / Rosalie Wanka
Di e con: Rosalie Wanka Premio Theater Schwere Reiter 2021 - Monaco di Baviera. Al Teatro degli Atti di Rimini. Durata 12 minuti.
Una donna che non si sente 'coinvolta' dall'esserlo perché lo è, 'donna'. In fondo un enigma che tutte ci riguarda ma che riguarda anche 'tutti' laddove il genere può essere lo strumento di cui disponiamo per indagare l'eterno e l'irriducibile, l'essenza che ci appartiene, tra Nietzche e Artaud, libera e continuamente in transito ma solidamente ancorata all'intimità, condivisa oltre l'apparenza che ci riguarda individualmente, nella Storia e nella Società. La sua danza è dunque un viaggio verso l'essenziale che usa le sue specifiche singolarità, nello specifico il femminile che qui si mostra in tutta la sua 'bellezza', per attraversarle. Non essere coinvolta è dunque, usando un dimenticato slogan, “non fare la guerra ma fare l'amore”, nel senso di com-partecipare a quella irriducibile ma elastica intimità. Ci invita a guardare con lei, chiunque sia disposto a farlo veramente, con lei e attraverso di lei che sa trasformare quel corpo, ed i suoi gesti, in una tavola di geroglifici che dobbiamo solo decifrare. Una coreografia coinvolgente e appassionante, tecnicamente accurata, in cui ciò che è fisico riesce man mano a diventare 'spirituale' su una scena non più vuota. A lungo e intensamente applaudita.
SALE Q.B. / Templetheater
Con Martina Monaco da un’idea di Eva Raguzzoni costumi: Natalia Korolkova luci: Antonio Santangelo. Al Teatro degli Atti di Rimini. Durata 25 minuti.
Foto Dino Morri
“Quanto Basta” non è solo o tanto una affermazione 'culinaria', ma diventa soprattutto un assioma tra il metafisico e l'esistenziale, in questo eterodosso spettacolo che trasfigura fin nella sua tecnica la danza come ci siamo abituati a guardarla. Un'altra donna ma in un luogo che potrebbe essere lo stesso, anzi che continua ad essere il medesimo. Parte infatti anch'esso da un altro dei più consueti tra gli stereotipi del femminile, mostrandola, questa donna, sola in cucina mentre 'effettivamente' prepara una ricetta, nello specifico un “tiramisù”. Ma proprio dalla reiterazione e dalla ripetibilità continua di quei gesti si determina ma mano uno 'stacco', una frattura della crosta sociale che può mostrare il suo magma ribollente ma gelido. Quei gesti ad un certo punto lo dicono, il magma, come parole senza suono che esprimono meglio di altri pensieri che la protagonista, e noi con lei, credeva dimenticati. Una coreografia che è una sorta di salto dimensionale che va oltre la semplice psicologia. Inconsueto, come detto, nel suo piegare la danza a drammaturgia. Assai apprezzato.
SPLENDORE / Spazio Continuum
di e con Kea Tonetti musica dal vivo di Tivitavi. Al Teatro degli Atti di Rimini. Durata 25 minuti.
Foto Dino Morri
La vita è un incantesimo che nasconde la nostra vera realtà, la nostra essenza che però continua, come una luce sfumata, a splendere dietro lo shopenhaueriano “Velo di Maya” del Mondo e della Storia. Qui il 'Cigno' muore danzando, senza Prìncipi e senza neri avversari, ma per rinascere continuamente, sacrificio comune, sorta di capro espiatorio speculare per mostrarci o anche solo per indicarci una 'vera' realtà, magari fatta solo di sincerità. È, quello dispiegato in questa coreografia, un Butoh assai particolare, trafigurato e spesso incistato, come la stessa vita artistica della coreografa, di altre suggestioni, di altre movenze fisiche e musicali, di altre e più tradizionali corrispondenze che danno diverso dinamismo al transito scenico. Ciò conferisce allo spettacolo una forza inaspettata ed una felicità, in forma di speranza, forse anch'essa inaspettata e da attingere, basta solo allungare la nostra mano. La Tonetti è danzatrice intensa e coinvolgente anche in quella sua mimica, quasi naturalistica, che sa andare oltre la talora fredda simbologia rituale del Butoh, che con lei sembra trasformarsi da danza introflessa a danza estroflessa, in cui il dentro non è punto di arrivo ma di ripartenza. Bello e giustamente applaudito.
Tre spettacoli dunque diversi ma che mostrano, a mio avviso, un punto comune, la finalità cioè di andare attraverso il movimento oltre le apparenze, o le maschere o come altro vogliamo chiamarle, per avventurarsi nella ricerca di una autenticità di cui, per fortuna e nonostante tutti gli sforzi dell'odierno pensiero unico, continuiamo a sentire la mancanza.
Maria Dolores Pesce
Beppe Menegatti, predatore
d’Amore e libera Creatività
di Mario Mattia Giorgetti
Beppe Menegatti merita un applauso per il suo percorso lungo 95 anni dedicato a sentimenti d’amore, di bellezza e di creatività, ora che ci hai lasciato per eterna dimora a cui nessuno può scappare.
“Ti voglio bene”, concludeva le sue telefonate con me e con tantissimi altri che ha conosciuto in privato e nella sua professione di “animatore di vita”, di creatore di eventi a largo raggio: dalla prosa, alla danza, a dar vita ai grandi personaggi del passato facendoli rivivere in palcoscenico, grazie alla presenza di Carla Fracci, compagna di vita e di arte, come Jean Cocteau, Vaslav Nijinsky, Marina Cvetaeva, Giacomo Puccini, Isadora Duncan, Marie Taglioni e così per altri.
In quel suo “Ti voglio bene, Beppe si aspettava dall’interlocutore un “Contraccambio”; e io, ironicamente, gli rispondevo, “Più di te”.
Beppe era ossessionato dalla bellezza, e ciò la trovavi nelle diverse abitazioni in cui ha abitato: pareti affollate da dipinti magnifici, punti luci con abat-jour in ogni angolo, oggetti artistici da fare invidia a chi li vedeva; e a cena tavole imbandite di candelabri accesi, attento che ogni singolo elemento fosse in armonia con l’altro. E se un cucchiaio era fuori posto, lui si alzava per metterlo nel giusto verso.
E poi era un instancabile pescatore nella sua memoria, odiava sentire gli altri commensali parlare di luoghi comune di vita quotidiana.
E io, che conoscevo la sua sensibilità variegata in tante direzioni, lo provocavo con domande su personaggi che lui ha conosciuto bene: “Parlami della Callas, di Visconti, di Eduardo, di quel compositore e altri ?”. E lui iniziava il suo monologare, ricco di parentesi personali, di variazioni, di divagazioni varie, che io in silenzio ascoltavo, mentre a lato gli altri chiacchieravano del più e del meno.
Amava operare anche con le proprie mani, nel mettere in scena uno spettacolo multidisciplinare dove mescolava prosa, danza, musica, colori, luci, e se qualcosa degli elementi scenografici non gli “sconfifferava” con pennello e colori
interveniva a suo piacimento, come ha fatto al Teatro Olimpico di Vicenza, dove lo avevo scritturato per mettere in scena “La Scuola di Ballo” di Carlo Goldoni, dove Menegatti aveva combinato un cast unico: Carla Fracci, come attrice, insieme all’étoile Gheorghe Iancu, si confrontavano con attori della portata di Claudia Lawrence e Mario Scaccia e altri di chiara fama. In quella occasione, nel cortile del teatro, lo sorpresi a correggere con tanto di pennello in mano le scene di Anna Anni, scenografa qualificata, importantissima.
Il gusto della bellezza, dell’estetica raffinata, la vedevi anche sulla sua persona: dalle camicie, ai pullover, dalle giacche ai pantaloni, meno per le scarpe: sempre le stesse, dal copricapo confezionato a maglia dalle mani di Gillian Whittingham, che Beppe considerava di sua “legittima proprietà”: da Maitre di Ballet a fianco di Carla Fracci ad autista, ad assistente artistica , ad redattrice di adattamenti teatrali, responsabile di pubbliche relazioni; infatti, quando lo scritturai, non conferivo con lui, ma con lei; e come Dante ci racconta nella sua Divina Commedia l’amore galeotto, complice il libro, tra Paolo e Francesca così il dialogo lo fu tra me e Gillian.
Come dimenticare, le telefonate quotidiane, di affetto, tra una pausa prove e l’altra, al figlio Francesco?; come dimenticare la sua curiosità telefonica che mi faceva: “Come va?”
E amo ricordare Beppe anche come impresario: aveva costituito la Compagnia Italiana di Balletto per portare le sue creazioni in decentramento nei luoghi più disparati, sempre con la presenza di Carla Fracci: dal teatro tenda, alla piccola provincia. Beppe è stato un vero innovatore, scopritore di talenti. E ora non c’è più nessuno come lui.
Beppe ora che sei nel mondo dell’oblio, ritroverai la tua Carla: baciala, abbracciala perché voi due resterete vivi nella memoria mia e di moltissimi altri.
La ventottesima edizione del festival “L’Arlecchino Errante”, un progetto della Scuola Sperimentale dell’Attore, si è tenuta a Pordenone dal 3 al 10 settembre. Ne abbiamo parlato con il direttore artistico Ferruccio Merisi.
“L’ “Arlecchino Errante” ha come sottotitolo “festa internazionale dei teatri instabili”; cosa sono per te i “teatri instabili”?
E’ una locuzione da cui spero traspaia un po’ di ironia. Sono instabili perché non sono Stabili. Intesi questi ultimi come quei macchinoni tanto benemeriti quanto ormai costituzionalmente impossibilitati a produrre un teatro veramente vivo. Il paradosso è che tra i punti deboli degli Stabili c’è il fatto che oggi raramente esprimono compagnie stabili; mentre tra i punti forti degli instabili c’è senz’altro quello di fare riferimento spessissimo a nuclei artistici oltremodo stabili...
Poi comunque “instabili”, nel nostro sottotitolo, contiene anche la trasformazione realistica del termine “inquieti”, che un sondaggio ci ha notificato come poco gradito al pubblico; e del termine “irrequieti”, più accettato ma che non suona bene con la parola Teatro. Tutti epiteti però che suonano bene invece vicino al nome di Arlecchino, l’eterno ragazzaccio Errante che abbiamo scelto come simbolo di una ricerca testarda e sempre affamata.
La “re-invenzione dell’Umano”, tema di questa edizione, a teatro passa anche per le nuove tecnologie? O quali sono, secondo te, in sintesi, le vie per questa re-invenzione?
Con “Reinventando l’Umano” non abbiamo voluto indicare un’urgenza né tantomeno rivendicare una prospettiva sociale o etica. Semplicemente abbiamo trovato questo comune denominatore negli spettacoli che ci hanno affascinato, al punto di invitarli per il pubblico e per la gente con cui vorremmo convivere sempre meglio. Tutti questi spettacoli sfondano, allargano o cambiano il concetto di umano a loro precedente. E occorre dire che questo benedetto “concetto di umano” non è un assioma articolato di cui qualche fede religiosa o qualche parte politica possa appropriarsi. E’ semplicemente il punto di vista che osserva la realtà (o, secondo Einstein, la crea). Alcuni artisti sono all’opera per reinventare il punto di vista. Credo che queste azioni producano sorprese e nuove visioni, nuove solidarietà, nuovi aspetti della realtà che viene osservata, o creata. Ogni strada è utile e affascinante. E quelle che abbiamo presentato noi non sono le uniche.
Quanto alle nuove tecnologie, certamente il teatro può interagire con esse, purché sulla base di una necessità teatrale, con tutto ciò che questo significa, e non di un banale e generico aggiornamento.
Teatro La Ribalta. Foito Franco Moret.
Come reagiscono gli spettatori di oggi, abituati come sono alla connessione pressoché continua alla rete con i propri dispositivi, alla pacifica invasione del teatro nelle vie e nelle piazze della propria città? Cosa si coglie di peculiare nelle loro reazioni?
Viviamo oggi quasi in uno strano rovesciamento. Percorriamo spesso le strade e le piazze nell’intervallo tra le azioni di connessione nel virtuale, o addirittura durante queste azioni. Così è lo spazio urbano a diventare pressoché virtuale, mentre i dispositivi di connessione offrono una realtà aumentata e moltiplicata.
Con il teatro abbiamo offerto, con riscontri di gioioso gradimento, dei momenti di riconquista del senso di realtà a favore dello spazio urbano: condividere esperienze dal vivo, sentire le azioni dell’abitare come solide e fisiche, riassaporare la forza di gravità e la visione delle prospettive profonde, riconquistare il tempo della materia, diverso per ogni evento ...
Se devo azzardare una peculiarità, direi che, dopo i primi momenti dedicati al rito turistico-fotografico di consegnare frettolosamente la meraviglia di cui erano testimoni ad una improbabile memoria - o alla roulette della condivisione virtuale immediata- , mi è proprio sembrato che tutti gli spettatori si siano presto dimenticati del cellulare...
Franco Acquaviva
Tour nell’Italia delle lingue con Bernard Marie Koltès
B-Motion 2024 e le mille facce dei linguaggi performativi
Nicola Arrigoni
In tempi di Ius Scholae, ovvero il diritto di acquisire la cittadinanza italiana in base al percorso formativo e linguistico, il progetto Koltès, voluto e ideato da Michele Mele, direttore artistico di B-Motion di Bassano del Grappa, entra nel cuore dell’attualità, dimostrando come le arti performative possano offrire occasioni di riflessione e pensiero. Tutto ciò si colloca nel focus dedicato alla drammaturgia contemporanea che ha per tema lo Straniero, ma ciò che interessa, in questa sede, è l’atto della traduzione, ovvero passare attraverso, da una lingua all’altra, dal francese di Bernard-Marie Koltès de La nuit juste avant les forêts, al veneto di Babilonia Teatri con Foresto, al napoletano di Domenico Ingenito con Nuttata e al siciliano di Dario Mangiaracina, Giuseppe Massa con Canzuna segreta. Mele ha chiesto agli artisti di tradurre il testo di Koltès in cui un misterioso straniero abborda un uomo e lo inonda di parole, un monologo verboso a tratti, ma che nella lingua materna dei dialetti trova una sua corporeità ed efficacia sorprendente che non ha nella traduzione italiana. È interessante soffermarsi su questo aspetto della traduzione che permette di passare attraverso una lingua per rendere nostro ciò che non ci appartiene. E’ questo che accade nella traduzione di un testo nella lingua che ci è familiare e ci apre mondi sconosciuti, culture ignote.
Babilonia Teatri - Foresto. Foto Giancarlo Ceccon.
In Foresto di Babilonia Teatri Daniel Bongioani è lo straniero, sordo dalla nascita, traduce il testo di Koltès nella lingua dei segni, testo a sua volta tradotto in veneto da Enrico Castellani e Valeria Raimondi. Enrico Castellani al microfono rappa e incalza il performer Bongioani e dà corpo letteralmente al ritmo della lingua, al ritmo del racconto in un gioco speculare con quello straniero che usa le mani per parlare. E se Foresto ha la generosità dello spettacolo compiuto, Nuttata di Domenico Ingenito ha la forza del work in progress che trasforma il testo di Koltès in corpo che si muove, in lingua che si fa carne, quello straniero è un ragazzo di vita, Ingenito porta lo spettatore nei bassi napoletani, ma fa di più: mostra il lato notturno di una lingua che suda e che è un tutt’uno con il movimento basculante, col sudore del volto, il tutto con suggestioni che richiamano il miglior Enzo Moscato. Così come per Castellani anche per Ingenito è la ritmica della lingua che attraversa il corpo e si fa voce a dare carne al racconto. In Canzuna Segreta è il siciliano di Scaldati che Giuseppe Massa fa dialogare con la chitarra di Dario Mangiaracina dei Rappresentanti di lista, un mix che chiude la trilogia dello straniero, che con grande acume di-mostra come la lingua sia e debba essere veicolo d’incontro e di inclusione, perché la lingua è da sempre la casa dell’essere.
Domenico Ingenito Nuttata. Foto Giancarlo Ceccon.
Dalla lingua che traduce e include si passa – senza soluzione di continuità – alla lingua che cura e che costruisce comunità. È quanto accade con i dancer di Dance Well, pratica per persone con Parkinson, ma aperta alla comunità. Nella sala di palazzo Bonaguro il movimento si fa occasione di incontro, si fa controllo di un corpo che a tratti non appartiene più a sé stesso, si fa linguaggio armonico che attutisce una disarmonia che si coglie in un tremore, in un piede che non ne vuol saper di star fermo. Capelli grigi, occhiali, signore i cui corpi non nascondono l’età e l’estraneità alla fisicità della danza, eppure il loro muoversi all’unisono vive di una leggerezza e di una serenità che commuovono. In CrePa di Sara Sguotti (interprete e coreografa) e Arianna Ulian (dancer e poetessa) portano in scena quella crepa sottile che è fa da discrimine, che ferisce il corpo, «che ha disassato gli arti / aumentano le dosi/ ha un codice esenzione/ la spingono a piegare/ deve essere idiopatico/ chi se ne prende cura/ le porgono una sedia/ maledice ogni vivente / se fa discinesia/ il blocco delle braccia/ maledicono il dosaggio/ si muove lentamente/ non vedo alternativa/ perdendo automatismi/ se ipersessualizza/ procede discinetica/ la degenerazione/ fa parte della vita», scrive Ulian. I corpi delle due performer si cercano, s’intrecciano e mostrano crepe che spezzano l’unitarietà, ma aprono pure ad altra luce, ad altra possibilità. Parola e musica danzano insieme a Sguotti e Ulian per di-mostrare come quella crepa nel corpo e nell’anima non sia solo una ferita, ma possa essere il punto che non teine da cui ricominciare, da cui ricostruire una vita dolorosa certo, ma possibile.
CrePa di Sara Sguotti. Foto Giancarlo Ceccon.
In fondo è quanto chiede agli spettatori Baptist Cazaux in Gimme a Break!!! in cui il performer chiede a sé stesso di quietarsi, di avere una pausa nello scorrere frenetico della vita quotidiana. Cazaux entra in scena, fissa negli occhi gli spettatori e modifica la posizione degli amplificatori nello spazio. È come se cercasse l’armonia adatta, il suono giusto, lo spazio sonoro in cui agire il suo rito, in cui placare la sua frenesia, in cui cercare uno stordimento possibile che possa condurre all’oblio di sé e del mondo. L’artista non smette di gettare gli occhi sul pubblico riunito nella chiesa di San Giovanni. Lo sguardo è di sfida ma a tratti sembra pure chiedere aiuto, i movimenti sono veloci e nervosi, la camminata decisa, l’atmosfera da rave, ossessivo è l’headbanging (i violenti movimenti della testa a tempo di musica), tutto porta a una sfinitezza che accomuna l’artista e chi assiste al suo lavoro. Alla fine ciò che rimane è il sudore, la fatica, lo sguardo perso di Baptiste Cazaux, giovane performer che offre tutto sè stesso, in cerca di una pausa possibile che lo riappacifichi col mondo o lo allontani momentaneamente dalla realtà per smettere di soffrire.
Healing Together di Daniele Ninnarello. Foto Giancarlo Ceccon.
Healing Together di Daniele Ninnarello propone una faticosa e respingente riflessione sul tempo della performance, sul linguaggio del corpo per conseguire l’obiettivo di guarire insieme. Ma da cosa? Viene spontaneo chiedersi. Dalla ritualità del consumo degli oggetti d’arte, dalla codifica del movimento e di quel linguaggio della danza che ci porta ad approcciare qualsiasi performance con la sicurezza di categorie precostituite e indiscutibili. L’effetto è raggiunto. Infastidiscono l’attesa che quei corpi facciano qualcosa, la stasi che impone di ascoltare il silenzio, lo scartare una caramella, lo sconcerto del pubblico in sala, i corpi che sembrano vagare senza un senso nello spazio e che nulla concedono a qualcosa che sembra concepito nei canoni. Tutto ciò accade, compreso la voglia dei performer di uscir fuori dal teatro, in un atto liberatorio, ma al tempo stesso artificioso e non nuovo. All’atto del fare Healing Together lascia perplessi, fa incazzare, poi, pian piano, il pensiero fa breccia sull’approccio emotivo. Quel guarire insieme vuol dire liberarsi dall’ottica di un consumo di svago dell’atto creativo e al tempo stesso operare all’unisono perché la convocazione dello spettacolo dal vivo – teatro o danza che sia – possa essere motivo di trasformazione, sia consapevole della propria unicità e non si conceda all’ottica del puro consumo, della tranquillizzante funzionalità. E viene da pensare: a questo servono i festival, a cercare di stimolare visioni alternative, costruire feste di senso che ci affranchino dall’effimero.
Se il movimento diventa pensiero
Biennale Danza di Mc Gregor mette alla prova corpo e coreografia
Nicola Arrigoni
«Per migliaia di anni, Noi Umani abbiamo comunicato muovendo i nostri corpi a ritmo, insieme. Abbiamo implorato gli dei perché ci dessero il sole e la pioggia, abbiamo mostrato la forza bruta in temibili unisoni, abbiamo ostentato il nostro amore, stuzzicato la fertilità, celebrato le gioie e i dolori condivisi su questa terra e ci siamo lanciati verso l’estasi, liberandoci dal dolore della morte. Tuttavia, oggi non c’è più bisogno che lo facciamo: disponiamo di molti modi, artificiali e digitali, per comunicare i nostri desideri, le nostre riflessioni, le nostre emozioni e le nostre intenzioni. Eppure persistiamo. Perché la danza è sempre dentro di noi. Infatti, quando non ci sono parole – ovvero quando i nostri sentimenti sono troppo forti, troppo complicati, troppo pesanti da sopportare – troviamo il sollievo e la consolazione attraverso il corpo: sia nel tocco curativo degli altri, sia attraverso il nostro movimento mentre corriamo, ci agitiamo, ci allunghiamo, respiriamo, danziamo. Noi Umani siamo movimento» Piace partire dall’intervento di Wayne McGregor per cercare di leggere il perché il movimento sia danza, anche quando non sia codificato da un linguaggio coreutico e perché il danzare, il muoversi in un contesto extra-quotidiano come quello del rito o della performance sia umano, troppo umano. .We Humans: questo è stato il tema della Biennale Danza 2024, diretta da Wayne McGregor, coreografo britannico riconfermato alla guida del festival ancora per due anni. Al centro è il linguaggio della danza come espressione non solo del corpo, ma anche della nostra consapevolezza di esseri umani, del movimento nelle sue più diverse accezioni.
Deadlock di Cristina Caprioli
Di questo si è andati in cerca nell’articolato programma della Biennale Danza, si è voluto esperire il linguaggio coreutico scevro da qualsiasi tentazione di armonioso movimento coreografico, ma pure sempre movimento. Il Leone d’Oro a Cristina Caprioli, danzatrice, coreografa, teorica sperimentale, accademica e curatrice, ben esprime il pensiero trasversale che attraversa l’intero programma messo in atto da McGregor. In questo senso si può leggere Silver, un’installazione in cui il movimento è affidato a una serie di tute argentate mosse dal vento, un lavoro pieno di fascino. Il pubblico assiste, ma può anche partecipare alla performance /installazione in cui Caprioli con Samuel Draper, Hana Erdman, Iréne Hultman, Annika Hyvärinen, Oskar Landström, Adam Schütt, Kristiina Viialain Deadlock posiziona decine di tute argentate intrecciandole ai rami degli alberi e invitando gli spettatori ora a indossarle ora a condividere l’azione performativa. Decine di capi argentei invadono lo spazio - sul pavimento, lungo le pareti, appesi al muro, alcuni per essere ‘abitati’ da corpi in movimento. Silver mostra come «la coreografia possa nascondersi anche dove non ce l’aspettiamo. Al contempo ordinaria e astratta, ovvia e intrinsecamente ripiegata su sé stessa, Silver è un invito a tornare a una ri-flessione visiva», scrive Caprioli.
Flat Haze di Cristina Caprioli
Se in Silver il movimento è gestito dagli accidenti della realtà, in Deadlock il corpo di Louise Dahl dialoga con la sua proiezione digitale, abitando lo spazio sinuoso e riempiendolo con il suo movimento: in questo caso è la consapevolezza dell’artista in movimento a definire lo spazio. Lo spettatore è chiamato a seguire la danzatrice ma anche ad assistere alla moltiplicazione visiva del suo corpo che svapora nelle quinte ellittiche che fungono da schermo e sono, alla fin fine, corpo esse stesse. In Flat Haze il disegno coreografico nasce e si compie giorno dopo giorno in uno spazio attraversato da una serie di fili di nylon che impone una visione spezzata e bipartita dei corpi in movimento. Lo sguardo è invitato a cercarne l’unità, franta da quella cesura spaziale, creata dalla tensione di quei fili che non solo tagliano lo spazio, ma riflettono la luce e sfumano in segni bidimensionali i corpi dei danzatori. Tutto ciò accade in un continuum creativo che permette di entrare nel mondo coreutico di Caprioli in cui movimento, parola e musica costituiscono i tasselli di un percorso che porta lo spettatore a sovrapporre il tempo quotidiano con quello della performance.
Tangent di Shiro Takatani
L’idea che percorre il cartellone di Biennale Danza è quella che la danza sia movimento e non necessariamente di un corpo in carne e ossa e che anzi la fisicità possa farsi immagine, oggetto, suono. È a questa finalità che, si crede, rispondano alcuni dei lavori proposti con grande coraggio da McGregor che non teme di mettere in discussione la danza come movimento di corpi nello spazio. E chi ha detto che quei corpi debbano essere per forza umani? Un esempio di sublime e spiazzante costruzione narrativa per immagini e musica è il lavoro Tangent di Shiro Takatani, lavoro con cui esplora l’evoluzione del linguaggio tra arte, scienza e tecnologia. Un tavolo, una performer e la costruzione della parabola di un mondo al collasso e destinato a riaprirsi e a rigenerarsi dalle sue ceneri sono gli ingredienti di uno spettacolo che lascia senza fiato. Si assiste stupiti e meravigliati – lo stupore sta all’origine del pensiero dell’uomo sul mondo – a un lavoro che sintetizza l’evoluzione dell’universo, racconta di un divenire senza soluzione di continuità in cui ordinario e straordinario si intrecciano. La drammaturgia visiva e musicale – affidata a una performer che officia un rito – ammutolisce e si costruisce pian piano, in un costante trasumanar oggetti e prospettive, spazio e colori che intessono con stupore il nascere e morire di un universo all’interno del quale siamo ininfluenti presenze. Eppure alla fine, la nuova alba di un mondo che verrà trova il suo narrato nella discesa alla Kubrick di tre monoliti sui quali la performer inizia a scrivere e la storia può ricominciare il suo corso. Sembra di poter intuire.
Antechamber del duo francese Stereoptik
È la leggerezza del racconto per immagini di Antechamber del duo francese Stereoptik che conquista e coniuga il piacere della narrazione col processo della creazione. «Durante un’estate passata a lavorare al computer, un uomo si imbatte in una foto dimenticata negli appunti: lui bambino con in mano una farfalla. Ed è grazie a questa foto che ritrova intuito e potere d’osservazione. E l’amore», scrivono Romain Bermond e Jean Baptiste Mailletin. In Antechamber visione e suoni danno vita a un corto che racconta di un amore e di una solitudine e disvela i movimenti segreti dell’atto creativo. Si assiste in presa diretta alla costruzione di un racconto fatto attraverso il disegno su sabbia, l’utilizzo delle ombre e tutto quel linguaggio che va sotto la categoria di teatro di figura in cui a muoversi sono le immagini, gli oggetti, le prospettive, sostenuti della musica e dal movimento. I due artisti francesi invitano lo spettatore all’interno del loro processo creativo e alla fine chiudono il cerchio con la proiezione del corto, frutto di tutto quel lavoro a tavolino. E la danza? Sta nel movimento degli oggetti e delle parole, sta nelle sagome dei corpi, nelle mani che si muovono, nella presenza dei due performer/autori che ci raccontano l’intimità di essere umani. Una Biennale che ha dato di che pensare e che invita a riconsiderare la settorialità dei linguaggi, le categorie estetiche in un tempo in cui l’interconnessione e le reti espressive cambiano il nostro modo di essere nel mondo, amplificano le nostre possibilità percettive e di narrazione.
SIPARIO SULL’ARTISTA
Cosa muove la tua ricerca e cosa fai per mantenere viva l’ispirazione?
Io cerco sempre di unire le persone, trovare un nesso che è comune a tutti. Quindi parlo della vita, parlo dell’amore e anche della morte. Parlo della grandezza umana. Qui per esempio rappresentata, tra queste grandi anime famose che hanno resa famosa Venezia nel mondo.
C’è stata una esperienza o momento che ha dato una direzione importante nel tuo percorso artistico? se si, quale?
No, tutti i giorni sono importanti, tutti tutti i giorni della nostra vita sono importantissimi. Bisogna vivere come se fosse l’ultimo giorno, sempre.
Come hai fatto ad emergere e cosa consiglieresti ad un giovane artista?
Eh.. Tanto lavoro, tanta pazienza e credere in se stessi. Bisogna credere in sé stessi e andare avanti. Io sono trentacinque anni che ci lavoro e che continuo a lavorarci e continuerò a lavorare fino alla morte. Non si arriva mai.
Quali sono i tuoi artisti contemporanei preferiti o ispirazioni?
Io mi ispiro ai grandi artisti del passato. Con un grande senso, un grande coraggio, grande maestria, un grande conoscimento. Trasmettevano bellezza, armonia. Michelangelo, Bernini, Carpò, anche Rodin. Ora credo che la gente, gli artisti si ispirino più in cercare di provocare. Mi dispiace perché’ manca la ricerca della bellezza .. invece credo che l’arte sia anche quello: sia armonia, bellezza. Per me è importante.
Quindi non c’è nessun artista contemporaneo che ti piace seguire? O di cui ti interessa vedere il suo percorso?
Ma, ce ne sono. Alcuni anche meno conosciuti. Ce ne sono, si.
SIPARIO SUL PROGETTO ARTISTICO
Qual è il ruolo che credi debba avere l'arte nell'affrontare questioni sociali, politiche ed esistenziali?
Io ho fatto spesso opere di un peso sociale importante. Partendo dalla scultura ‘ Support’ qui a Venezia, che parlava proprio del cambio climatico. E questa mostra anche ha uno sfondo sullo stesso cambio climatico. L’ultimo messaggio del Gondoliere è proprio quello: che se proteggiamo Venezia, proteggiamo il mondo.
Pensi che l’arte abbia il potere di influenzare un reale cambiamento?
Io spero, che lo abbia.
Come lo sguardo di chi osserva influisce in fase creativa e sulla ricezione del tuo messaggio?
No io non creo tanto pensando a quello penserà la gente. Creo le cose che io voglio comunicare. Comunico con delle immagini, con delle opere fisiche. Questa è la prima volta che faccio anche il digitale. Quindi vediamo, sono qui che aspetto il risultato.
SIPARIO SULL’ARTE
Cos’è l’Arte per te?
L’Arte è vita, l’Arte è armonia, l’Arte è emozione.
Chi decide oggi che cos’è arte?
Eh, eh! Chi decide.. non saprei rispondere. Sembra che qualsiasi cosa possa essere arte.
Cosa ne pensi dell'interazione tra arte tradizionale e nuovi media/nuove tecnologie? Che tipo di sfide/opportunità/criticità prevedi?
Credo sia un momento molto interessante nella storia dell’arte. Dove sono tante opportunita per provare cose nuove. Ma non siamo i primi. Leonardo stesso era un grande creatore e inventore, e continuiamo nella sua strada.
Una tua idea sull’intelligenza artificiale?
Se si usa come appoggio può essere molto interessante. Se si usa per sostituire la creatività è molto pericolosa.
Dal 19 aprile al 15 settembre 2024 è in mostra a Ca’ Rezzonico, Venezia, un'opera di Lorenzo Quinn costituita da 15 statue in rete metallica, animate grazie alla tecnologia e alla realtà aumentata, raffiguranti alcuni dei protagonisti dell'arte, della storia e della cultura – le anime – della Serenissima.
PER VEDERE L'INTERVISTA CLICCA QUI --> https://youtu.be/6bMVg7v4YlM
"Tre Sipari sull'Arte” è una nuova rubrica della rivista Sipario in cui l'artista Elena Tagliapietra incontra importanti artisti di arte pubblica e performativa ‘aprendo’ 3 sipari: sull’artista, sul progetto artistico e sull’arte contemporanea, scoprendo cosi i retroscena della loro arte, le ispirazioni e le visioni che alimentano le loro opere.