"Il mio cinema aspira ad un dialogo fatto d'immagini, come per la pittura" (K.K. Duk)
Nel suo stupido, atroce determinismo biologico, il Covid 19 si porta via anche Kim-Ki-Duck, regista sud coreano nato nel 1960 e indubbiamente il più famoso (meritatamente) rappresentante del cinema orientale del terzo millennio. E’ morto pochi giorni fa mentre soggiornava per lavoro in Lapponia ed essere stato per almeno vent’anni uno dei nomi più lodati dai cinefili.
“Address Unknown” (2001) e “The Coast Guard” (2002) sono le prime opere che lo consegnano al ristretto alveo del ‘cinema d’autore’, mediante il capillare, imperturbabile racconto di due vite diametralmente ove la fragile condizione della Corea geopolitica ha un ruolo determinante, “spingendo l'autore a relazionarsi con la durezza di una realtà pungente e dolorosa”. Segue, nel 2001, “Bad Guynel” ove quel “che fu e quel che adesso è” si fondono confondono in modo da disorientare e stordire le coordinate di tempo e Storia, resi relativi nei meandri dell’ipotetico, del visionario.
Il 2003 è (unanimemente) riconosciuto l'anno della affermazione definitiva: che trova forma ed espressione in “Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera”, film che prende le distanze dalla asprezza tematica-espressiva delle opere precedenti, mediante una ciclicità, stoicismo, serenità narrativi che rendono limpido, possente, “confuciano” l’equilibrio espressivo-figurativo della rappresentazione: allegoria delle “cadenze umane” in relazione alle ritrosie del suo ambiente.
L'anno successivo Kim realizza “La Samaritana”, film che notomizza come una sorta di ascesi martirologica l’aspra, lacerante “necessità” di prostituzione, in ogni società in cui “prima di ogni preambolo, l’amore ha un suo prezzo, diretto o indiretto”- e che vale l'Orso d'argento a Berlino per la regia.
Autore eclettico e “vorace” di immagini, metodico e imprevedibile nei suoi progetti di lavoro, Kim-Ki- Duk dirige, lo steso anno de “La Samaritana”, “Ferro 3-La casa vuota”, vigorosamente connesso alle tematiche dell’emarginazione giovanile (protratta sino alle estreme conseguenze, “estrapolate” dalla lezione americana) – da molti considerato, plausibilmente, la “summa” personale di quel modo spietato ed estatico di concepire rapporti interpersonali, saldati dallo sconforto e da una silente violenza psicofisica, che è sfogo irrazionale di uno “patologico” malessere che ambirebbe riscattarsi in un amore- di cui si è, chi più chi meno, “analfabeti”coatti e violentati. Da rivalità, consumismo (insostenibile), miserie disperse nel buco nero della metropoli.
Il film riceverà il Leone d'argento alla Mostra di Venezia nel 2004.
Nei due anni l’autore successivi realizza “L'arco” (2005) e “Time” (2006), film-forti che in misura discontinua analizzano la profondità della passione, “scandagliandone i suoi fondali più cupi e maniacali” : a iniziare dalla pedofilia in famiglia. Negli anni successivi si susseguono, struggenti e poderosi, “Soffio” (2007), “Dream” (2008) e “Amen” (2011).
Dopo un periodo di silenzio e sofferenza mentale, Kim Ki-Duk torna alla Mostra di Venezia per proporre in concorso, il dibattuto, controverso “Pietà” (2012). Inediti o di fugace apparizione restano “One on One” (2014), “Il prigioniero coreano” (2016), “Time and Human” (2018). Tutte lacune che servirà colmare.