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Gli "Eremiti del Teatro" di Benedetta Buti

Moni Ovadia - Gli "Eremiti del Teatro" Moni Ovadia - Gli "Eremiti del Teatro"

Il 9 maggio 2014 ha avuto luogo a San Miniato un evento unico: la prima conferenza-spettacolo degli "Eremiti del teatro" organizzata dalla Fondazione Dramma Popolare. Sotto la guida di Masolino D'Amico, cinque grandi performer teatrali si sono incontrati, raccontati, hanno condiviso, differentemente per ognuno di loro, le motivazioni, i trascorsi, i casi della vita, che li hanno resi ciò che sono oggi. Moni Ovadia, Lella Costa, Laura Curino, Saverio La Ruina e Bruno Gambarotta sono i "monologanti", gli "eremiti della scena", alcuni degli esponenti, non gli unici, di un fenomeno quasi unicamente italiano come il "teatro di narrazione", realtà del nuovo teatro degli anni '80/'90. Allo stesso tempo attori-autori del proprio lavoro, scrivono il proprio testo, arrivano dalla pagina alla scena saltando tutti gli intermediari, ponendosi di fronte al pubblico come registi di se stessi, raccontando storie senza interpretarle, svincolandosi dallo schermo del personaggio, in diretto contatto con lo spettatore.
Laura Curino racconta dell'universo poetico da cui attinge, delle storie di lavoro che è portata a narrare in quanto figlia del Po, di Torino, della FIAT; parla del suo primo spettacolo di narrazione, "Passione", il cui testo scenico presenta vari io narranti che passano attraverso il corpo della stessa attrice - proprio perché "la bellezza risiede in quel momento magico in cui l'attore, da solo sul palco, cambia".
Saverio La Ruina racconta storie che affondano le loro radici nella realtà di un vissuto, per il quale le origini calabresi sono la chiave di volta per la comprensione della sua opera. È il caso di "Dissonorata", di cui La Ruina recita un frammento di monologo, rigorosamente in dialetto in quanto l'importanza delle parole e della loro musicalità è imprescindibile. Storia di una donna, Pasqualina, di un delitto d'onore nella Calabria degli anni '60/'70, vicenda drammatica dai risvolti ironici che l'attore rappresenta non volendo scimmiottare ma "evocare" una donna, come se essendo l'uomo-carnefice a dare voce alla donna, in questo modo si operasse una denuncia verso se stesso e verso una più estesa società patriarcale.
Lella Costa rivela quanto le sia sempre poco interessato di proporsi come interprete, quanto piuttosto di vivere il teatro raccontando le parole della vita sul palcoscenico, mediandole per un pubblico ricco, migliore e più complesso di quello che in realtà si pensa, stabilendo un rapporto di reciprocità con esso ed arrivando quindi a dover necessariamente trasmettere contenuti sempre migliori, facendo coincidere forma e sostanza. La carriera dell'attrice si inserisce nello scenario della comicità femminile, questione tutt'ora aperta, portata avanti dall'intento di rendere la cultura più confidenziale e proponendosi di rinnovare le grandi storie classiche (shakespeariane) cambiandone il punto di vista, creando per il teatro popolare non qualcosa di "nuovo", semmai di "sorprendente" che abbia luogo nell'unicità del momento teatrale, nella commistione tra pubblico ed attore.
Bruno Gambarotta riporta di come la sua tardiva attività attoriale si sia basata sulla sua esperienza lavorativa in RAI, avendo interamente creato il suo repertorio sulla base di aneddoti di quel periodo: come la questione della mensa della RAI e della sostituzione del primo con un contorno, di cui ci regala un frammento, oppure di quando affiancò Adriano Celentano nel gioco televisivo "Fantastico", momento grazie al quale ebbe inizio il successo verso il grande pubblico.
In conclusione, Moni Ovadia racconta delle sue origini, della sua famiglia di ascendenza ebraica sefardita impiantata da anni in ambiente di cultura yiddish e mitteleuropea, di quanto egli si sia dedicato al recupero delle tradizioni ed abbia "rubato" tutto ciò che fa ed ha fatto: dal momento in cui ha scoperto una piccola sinagoga yiddish allestita in un appartamento di Milano, ha iniziato a registrare tutto ciò che i vecchi ebrei facevano e raccontavano, catturandone storie, gesti, atteggiamenti. Ovadia ci parla di come la pietas narrativa agisca come "Scudo di Pericle" proteggendoci dagli orrori della vita, di quanto la narrazione sia parte integrante dell'ebraismo e di come l'umorismo ne sia chiave ermeneutica avendo la capacità di attivare meccanismi che devono fare appello all'intelligenza; racconta di come il suo "teatro musicale" necessitasse della musica in quanto la narrazione stessa era costruita anche attraverso la messa in scena del corpo dei musicisti. Ma come fare a fornire alla narrazione un tratto organolettico che trasporti il pubblico nel mondo yiddish? Per far ciò la lingua yiddish stessa diventa faccenda imprescindibile e non separabile dal cammino dell'uomo che attraverso il teatro vuole affrontare anche le verità più forti, persuaso che la pietas della finzione permetta che esse non diventino distruttive.

Ultima modifica il Martedì, 13 Maggio 2014 11:01

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