In Santo Spirito
di Paola Coppini
Avvolta dalle colonne della navata centrale della chiesa di Santo Spirito, sentii il bisogno di ringraziare. Ma chi? Dio che nella mia vita aveva un posto di rispetto, ma non certo di fede? Ma comunque sentivo e capivo, seduta su di una panca in fondo alla chiesa, come la fede potesse alleggerire la vita di molti. Le mani giunte di un uomo in ginocchio, erano il segno, la fotografia di quella fede, che comunque ognuno gestiva in modo proprio. Segni di credenza e fede erano entrati anche nelle famiglie laiche come la sua. Ma la “ fede” di suo padre sindacalista, sempre difensore e sostenitore degli ultimi, non era forse la fede e l’azione di chi si inginocchiava a pregare in chiesa?
Avevo sempre pensato che la fede, l’etica, la morale, il dovere, facessero parte di un crogiuolo di cose, che appartenevano a chi nonostante laicità o religiosità, decideva di stare al mondo senza ingannare, prevaricare, sfruttare, sviluppando una sorta di empatia nella vita famigliare e sociale. Insomma era quello che suo padre aveva semplicemente classificato come “la gente per bene”.
Dopo queste riflessioni, guardando l’altare maggiore, mi chiesi ancora chi stessi ringraziando seduta su quella panca. Gesù incontrato nella prima comunione tanti anni fa? La mia famiglia, che mi aveva cresciuta con insegnamenti sempre intrisi di altruismo esagerato?
O semplicemente ringraziavo la vita e i suoi percorsi? Non sapevo bene, ma occorreva ringraziare, per il fatto di saper allontanare malinconia e flessioni con una passeggiata nel mio vecchio quartiere, con la capacità di sentire il passo leggero mentre, attraversando piazza del Carmine, mi ero accorta di dire a voce alta “Che bello!” Così fui contenta di aver realizzato quei pensieri e soprattutto averli scritti. Ero convinta che se la testa e la penna lavoravano insieme, facevo un buon servizio al mio stare al mondo, arginando la paura della vecchiaia. Così lasciai la chiesa e mi tuffai nel piacevole mercatino appena fuori dal portone. Le tante trattorie intorno alla piazza parevano quasi occasionali, con sedie e tavoli diversi, dai colori sbiaditi che rimandavano immagini parigine, del piacevole sedersi, per stare, mangiare, pensare. L’aria di quella mattina di settembre condiva tutto di una piacevolezza incredibile.
Sentii la fortuna di essere nata a Firenze. Riconobbi ancora ai banchi della frutta figure di quartiere. Ai tavoli dei bar sedevano stranieri che sembravano essersi adattati al tempo di quel quartiere fiorentino. Al forno si vendeva il pane, si mangiava pizza e schiacciata, tutto senza frenesia. Lo scambio di parole sembrava aver vinto sui rumori che di solito riempiono la città.
Le mie riflessioni continuavano come in un’amarcord, registravo con gli occhi quello che di solito si fa con il telefonino: botteghe, edicola, vetrine di artigiani, insegne che raccontavano il cambio di destinazione di botteghe che ricordavo bambina. I fichi esposti dall’ortolano: irresistibili, me li immaginai contornati da fette di salame, bianchi e neri, eccoli nel cartoccio. L’ortolano anche se giovane era il “vecchio” bottegaio, voce e modi raccontavano il quartiere popolare che sembrava voler resistere nonostante i tanti turisti.
Riattraversai Piazza del Carmine e mi lasciai portare dai pensieri, mentre camminavo in via dell’Orto per raggiungere il parcheggio. I fichi per il pranzo del giorno dopo, i profumi del cibo che ancora ricordavo di quando bambina me ne stavo in casa dei nonni, e poi un portone a sinistra che s’apriva su di una ripida scala. All’ultimo piano la casa dove era nato il babbo, con tutti i suoi fratelli e sorelle. Più avanti Via Dell’Orto si incrociava a Via San Giovanni dove al numero 25 ero nata io, in casa dei nonni materni.
Un incrocio di ricordi ed emozioni, un susseguirsi di volti e di voci che mi avevano accompagnata in quella passeggiata da San Frediano a Santo Spirito un sabato di settembre.