Festival Opera Prima,
Edizione XIV – Generazioni
Rovigo, varie sedi, 13-16 settembre 2018
Progetto e Direzione: Associazione Festival Opera Prima E.T.S
Coordinamento artistico: Massimo Munaro
Organizzazione e logistica: Katia Raguso
Organizzazione e ufficio stampa: Diana Ferrantini
Sito web: Alessia Papa e Massimo Marchetto
Grafica e comunicazione: Marina Carluccio
Staff tecnico: Alessio Papa, Chiara Elisa Rossini, Silvia Massicci, Roberto Lunari, Matteo Faggi, Paolo Rando, Carlo Sarti.
Segreteria: Maura Cominato, Elena Fioretti
Visitato il 16 settembre 2018
"Bisognerebbe conoscere Rovigo (ma quante Rovigo ci sono in Italia?) per comprendere quanto sia stato e ancor più quanto sarà difficile realizzare un Festival dedicato alle arti contemporanee in un territorio marginale e ancora culturalmente arretrato come questo". Già, quante Rovigo ci sono? Forse tante quanti sono i comuni italiani, tolte le metropoli. Una certa inerzia culturale infatti è comune a molta provincia italiana. Tuttavia il lavoro che chi ha esteso queste righe – crediamo Massimo Munaro, regista del Teatro del Lemming che organizza il festival – ha compiuto con il suo gruppo in lunghi anni di presenza assidua e visionaria rende conto di una ferma e sempre nuova volontà di cambiamento, di aggiornamento. D'altronde è curioso che proprio "Rovigo" sia il titolo di un libro e di una poesia del grande poeta polacco Zbigniew Herbert, dove egli fantastica su quella città che ha sempre visto solo dal treno: un luogo di passaggio dove pure "qualcuno ieri è morto, qualcuno è impazzito/ qualcuno disperatamente per tutta la notte ha tossito". Ci piace pensare che il Lemming, con il suo lavoro tenace sulla città, abbia potuto dare voce anche a quel "qualcuno" evocato dai versi di Herbert. Opera Prima è stato uno dei festival italiani più importanti degli anni '90. Ha dato visibilità a una generazione di artisti che fino a quel momento era stata esclusa dalla scena teatrale italiana, e dalla quale sono emersi i Celestini, i Latini, i Motus ecc. Poi, per quasi 10 anni, il festival è rimasto fermo a causa del venir meno dei finanziamenti. Il Teatro del Lemming, nel frattempo, ha proseguito la sua originale strada sperimentale, mettendo a punto un linguaggio teatrale nel quale lo spettatore diviene il centro vivo, sensoriale, intorno a cui l'attore tesse una trama di stimoli visivi e tattili, in un'immersione totale dei sensi nel materiale drammaturgico, spesso tratto dalla tragedia e dai miti greci. "Odisseo", "Edipo", ecc., sono lavori nei quali lo spettatore, in piccolo gruppo con altri o addirittura da solo, attraversava un'esperienza onirica, a tratti sconvolgente, sempre toccante. Li vediamo impegnati tutti, il vecchio nucleo e i nuovi attori, in questo tour de force che in 4 giorni regala alla città più di venti fra spettacoli, performance e incontri. Il gruppo rodigino non presenta un proprio lavoro, ma ne vediamo all'opera due attrici storiche (Fiorella Tomassini e Antonia Bertagnon, insieme a Silvia Cova), in "La stanza della memoria", frammento di un progetto complesso che vuole fare del territorio e delle sue voci materia per una narrazione della città dal punto di vista dei suoi abitanti e della loro memoria. Così il collettivo "MOMEC. Memoria in movimento" inventa un dispositivo teatrale che agisce prima, nei mesi di preparazione, durante e dopo il festival. Esso prende la forma di una bicicletta-cargo con la quale il gruppo gira per la città a raccogliere oggetti e frammenti di memoria, chiedendo alle persone di scrivere su una cartolina qualche riga su un luogo cittadino cui sia legato un bel ricordo. Il serbatoio di frasi diventa poi lo spunto per una installazione e per una sognante performance. I luoghi del festival sono già un'ipotesi di drammaturgia, se pensiamo che si svaria dalla sala tradizionale del Teatro Sociale a quella sperimentale del Teatro Studio; dalle vetrine dei negozi alle case private; e poi hall di alberghi, chiese, chiostri, bus o luoghi di rilievo storico finora mai aperti al pubblico, come i sotterranei delle due torri medievali che sorgono in pieno centro. Anche qui a Opera Prima insomma, come a "Periferico" di Modena, è in azione la spinta a fare drammaturgia dei luoghi in quanto "fortissimi nuclei di relazione tra creatore e fruitore". Anche la scelta di aprire ad artisti del territorio aggiunge un tassello a quell'afflato trasversale che pare percorrere il festival e che emerge anche dalla diversità delle proposte che presenta. "Ka-f-ka", del danzatore iraniano Mehdi Farajpour della Oriantheatre Dance Company, prende come punto di partenza la "Metamorfosi" di Kafka. E il corpo scultoreo del danzatore, fasciato solo di uno stretto perizoma, diventa da subito il corpo di un'impossibilità piuttosto che quello di un atletico periodare coreografico. Egli accenna passi e figure che sfumano subito nell'inciampo, nell'errore, e si ripetono in partiture che sovente s'interrompono. A questo elemento si affiancano videoproiezioni che dall'alto disegnano sul palco varie figurazioni e oggetti. Il danzatore vi interagisce in diversi modi mentre sul finale vediamo la sua stessa effigie esalare dal corpo e riempire di propri replicanti tutta la scena; una estrazione/moltiplicazione di anime che prelude all'immagine dello scarafaggio che chiude lo spettacolo.
Alessandro Berti estrae dal suo cantiere di lavoro "Bugie bianche, secondo studio": una conferenza-spettacolo che è una "interpretazione critica dello sguardo del maschio bianco sul corpo del maschio nero". Con un tavolino ingombro di libri e una posa disinvolta da conferenziere Berti affronta la quasi ora di parlato presentando minuziosamente documenti di varie epoche che inquadrano il tema da diverse prospettive; così egli può raccontare l'origine di quel sentimento ambivalente e ostile verso il nero, nel suo essere percepito anche come minaccia sessuale per la donna bianca. Molto efficace la presentazione e il racconto dei dati, cui segue, sul finale, l'unico pezzo teatrale in senso stretto, quando Berti, in un breve monologo reso in piedi al proscenio, abbandona il tono da conferenziere e assume una più graffiante postura.
Franco Acquaviva