L'ambiente corpo per una realtà Ipernatural
Pensare un'altra natura è possibile a Centrale Fies
di Nicola Arrigoni
Ogni scelta presuppone una perdita. Nel raccontare e 'vivere' la trentanovesima edizione di Drodesera ci siamo concessi questo lusso, ovvero di abbandonare i lidi sicuri – o presunti tali, a Centrale Fies non bisogna dare nulla di scontato – dei codici dello spettacolo dal vivo, per aprirci all'altra anima della kermesse, quella più squisitamente performativa e installativa. Da qualche anno il festival – ideato da Dino Sommadossi e Barbara Boninsegna– si articola in due parti. La prima, Live Works si focalizza su pratiche contemporanee live che contribuiscono all'approfondimento e all'ampliamento della nozione di performance, seguendo l'attuale spostamento del performativo e delle sue cifre. La seconda parte del festival è invece più legata al teatro e alla danza nelle loro accezioni più contemporanee. Quest'anno nella sezione più 'tradizionale' è stato possibile apprezzare Augusto di Alessandro Sciarroni, un lavoro sulla risata e i suoi meccanismi ipernaturali, piuttosto che Crowd di Gisèle Vienne, la disanima terrigna delle inquietudini e del vuoto di una civiltà stordita e disperata, in un rave al rallenty. Rimane forte il rammarico di non aver potuto assistere al secondo fine settimana di Drodesera, quest'anno particolarmente ricco, ma ogni scelta presuppone sempre una perdita. Il palio in gioco era alto: non vedere alcuni artisti importanti delle scena italiana e internazionale, per assecondare la curiosità e l'urgenza di documentare l'altro lato di Dro. Anche per questo motivo si è voluto lavorare concentrati in Live Works, cercando di coglierne gli umori, il pensiero, le azioni.
Il perché di una scelta - Nel pensiero che da qualche anno muove il festival e l'attività produttiva e formativa di Centrale Fies la realtà di Live Works è parsa non solo degna di attenzione, ma forse si caratterizza come lo spazio in cui andare in cerca del significato tematico dell'edizione 2019: Ipernatural. Cosa si intende per sopra la natura, al di là delle regole naturali, è noto ma il significato di yper è anche: troppo, molto. Paradossalmente ipernaturale parla di un superamento della natura con le sue regole, ma al tempo stesso anche di un troppo, un molto, come dire la condanna a estremizzare le potenzialità date dalla naturalità. Tutto questo portato di pensiero – si è supposto – potesse trovare una sua sede di elezione in Live Works, piattaforma di ricerca sulla performance, a cura di Barbara Boninsegna e Simone Frangi con la collaborazione con Daniel Blanga Gubbay, co-direttore artistico del Kunstenfestivaldesarts di Bruxelles.
Cos'è Live Works - «Ogni anno il gruppo di lavoro di Live Works si struttura grazie al lancio di un bando internazionale aperto ad azioni performative emergenti di diversa natura: performance, sound and new media art, lecture performance, multimedia story telling, pratiche coreografiche, pratiche relazionali e altri progetti che mettono in discussione l'idea di performance al di là del corpo - spiegano i curatori - Tra le oltre 300 candidature pervenute da tutto il mondo sono stati selezionati nove progetti, le cui ricerche disegnano i contorni del performativo contemporaneo e della varietà dei suoi formati. Giunto alla sua settima edizione, Live Works si è aperto a nuove latitudini e ha ampliato le proprie geografie di riferimento, ospitando quest'anno artisti provenienti da Europa, Africa, Medioriente, America Latina e Australia». Tutto ciò si traduce in opportunità reali di lavoro e di incontro, come spiega Virginia Sommadossi, responsabile dell'aspetto comunicativo del circuito: «Ad ogni artista sono stati offerti due periodi di residenza creativa a Centrale Fies, il primo nel mese di luglio, che ha visto l'intreccio di diverse tipologie di curatela, dallo sviluppo tecnico all'accompagnamento teorico, attraverso una "Free School of Performance" composta da studio visit, critical session e reading group; il successivo, a scelta dell'artista, si terrà nel corso dell'anno».
I protagonisti - Le prime edizioni di Live Works si connaturavano come l'esito e la restituzione pubblica di un selezione/premio/concorso, ma da qualche anno Live Works ha cambiato la propria filosofia, concependo tutti i finalisti come vincitori e immettendoli in un processo di sostegno alla ricerca a lungo termine, che si prolunga ben oltre la produzione e lo svolgimento del festival. I nove artisti selezionati Nana Biluš Abaffy e Parvin Saljoughi, Katerina Andreou, Rehema Chachag, Ndayè Kouagou, Dina Mimi Magdalena Mitterhofer e Astrit Ismaili, Ceylan Öztrük, Charlie Trier, e Cristina Kristal Rizzo, Kat Válastur hanno sviluppato le loro creazioni nella settimana prima del festival. Ad accompagnare gli artisti durante le tre giornate, accanto al board curatoriale, c'era anche un board internazionale formato da operatrici e operatori culturali attivi nell'ambito della ricerca sulla performance, invitati a Live Works con l'obiettivo di costruire un network utile alla diffusione e alla promozione dei nove lavori selezionati. Ai lavori dei giovani performer sono state affiancate installazioni e performance di artisti ospiti come Juli Apponen con Life is hard and then you die. Part 3, Marie-Caroline Hominal & François Chaignaud con Duchesses o ancora The Otolith Group con The third part of the third measure, Sofia Jernberg con One pitch: birds for distortion and mouth synthesizers e Invernomuto con Black Med.
Che cosa è accaduto – Date le premesse ora spetta capire la tipologia di incontri offerta da Live Works e come si è declinato quell'eccesso di natura o il suo eventuale superamento. Punto focale e materico è il corpo, la fisicità, l'identità di genere, la consapevolezza che la carne e il respiro dell'anima sono materia di indagine, sono ciò che ci rimane, cadute le certezze della comunità, liquefatte le tradizioni, cancellati i confini della politica e dell'appartenenza. Il Supercontinent in cui viviamo, la pangea mediatica del nostro contemporaneo ha prodotto un tutt'uno indistinto, una coesistenza di differenze che si annullano pur palesandosi, cancellate o poste ai margini sotto i colpi del mainstream. In questo senso il rito tanzaniano: Scents of identity di Rehema Chachage sa di recupero di un mondo, di un tempo definitivamente scomparso, sa di reinvenzione di un'appartenenza che se va bene può essere nostalgia, può essere un coccio rotto, un mix di chiodi di garofano destinati a costruire una geografia dell'appartenenza che si sfuma e sbiadisce. La rievocazione di riti premoderni sa di fabula e immancabilmente si fa performance, dimostrazione esotica, e assume un'altra fruizione: lo spettacolo, lo specchio di un lontano mondo, proprio come le pale d'altare nelle chiese dopo la morte di Dio. Nella pangea del presente perenne, dell'intreccio di linguaggi, anche Cicciolina può diventare un mito moderno, un'icona della trasversalità dell'essere e della voglia di imporre l'autentico sui riti stanchi della politica e del consorzio sociale. Così Astrit Ismaili e Magdalena Mitterhofer hanno costruito Pink Muscle mettendo in scena – attraverso una serie di songs – l'attivismo sessuale e politico di Ilona Staller. Il tutto si è tradotto in un lavoro a due, in cui corpi e identità sessuali si mischiano, in cui una certa esposizione del corpo nella sua bellezza e fragilità racconta di uno stare indifeso, ma potente. E allora la pornostar con l'aspetto di fatina diventa un pretesto per fare della debolezza e della fragilità le armi di una presenza un po' alienata, ma che vuole incidere nel presente. In che modo? Arrivando in Parlamento. L'azione di Cicciolina ha inciso realmente? Ai posteri l'ardua sentenza, ma certo ha lasciato di sé il racconto.
La storia di Naima Aghdam, artista, youtuber iraniana e attivista dei diritti degli animali, che l'anno scorso si è tolta la vita dopo aver commesso un atto di violenza al quartier generale di YouTube negli Stati Uniti, accusando di censura il canale video è stata al centro della performance di Nana Biluš Abaffy e Parvin Saljoughi, Green Nasim. Il lavoro fra video e performance coreografica in realtà è sembrato confuso e poco incisivo, ma si crede abbia costituito un esempio della voglia di una generazione di artisti di interrogarsi sul legame – spesso stridente e violento – fra individuo e collettività, fra impegno civile e il muro di gomma del pensiero univoco. Si tratta di un segno che mostra come il sé diventi testimonianza di possibilità e della voglia di cambiare, di pro-vocare, pur col rischio di sembrare un singolo che urla nel deserto. Ma forse non è così se la protesta di Naima Aghdam ha sollecitato il lavoro Green Nasim, offerto al pubblico di Live Works come testimonianza di un agire possibile e condivisibile. Potente e a tratti fastidioso per l'impatto emotivo è stato Life is hard and then you die. Part 3 di Juli Apponen. Apponen, una delle artiste ospiti, è la protagonista della conferenza/testimonianza delle operazioni che ha dovuto subire per cambiare sesso: da uomo a donna. Nel racconto medico e crudo del cambiamento di sesso c'è la testimonianza drammatica di un non riuscire a stare nel proprio corpo e l'urgenza di violare e violentare ciò che siamo per diventare autenticamente ciò che sentiamo di essere. Dolore e carne, sessualità e funzionalità degli organi sono i protagonisti di un raccontare freddo, analitico, che non risparmia nulla e che nel porsi algido di Julie Apponen ci interroga, interroga le potenzialità della tecnica sulla natura, interroga l'essere nel suo realizzarsi, al di là delle condizioni date, ponendosi sopra la natura.
Duchesses_ vehicle of the Universe/costant minimal hooping ha visto il duo Marie-Caroline Hominal & François Chaignaud impegnato su cubi illuminati dal basso in una performance coreografica di hula hoop. I due corpi statuari e nudi erano in sinuoso e continuo movimento, erano macchine di equilibrio, muscoli che si tendono, corpi che sudano, membra che hanno un loro suono, erano leggerezza e sforzo al tempo stesso, statue in movimento che ci interrogano. L'azione è apparsa ipnotica, stordente, crudele e radiosa e l'impressione è stata che quelle due figure fossero due nuovi Adamo ed Eva, immagine di una humanitas che nel suo roteare sembra intercettare il movimento ellittico delle orbite celesti. E allora viene da pensare che in quel guardare dal basso all'alto i corpi deiformi dei due performer ci sia bisogno di una nuova fabula, di una nuova armonia che ci faccia entrare in flusso e racconti di una connessione reale anche se invisibile fra il nostro essere e lo stare nel mondo, noi parte della natura e demiurghi della realtà.
Per chiudere – Live Works negli incontri in Centrale di Fies ha mostrato come arti performative e performance siano oggi un tutt'uno - non una novità -, ha forse dimostrato come – in assenza di grandi racconti – il narrare stia nel nostro corpo, nell'individuo che solitario e solipsistico cerca con fatica e dolore di amplificare il suo stare a volte in un narcisistico autoriflettersi, altre volte facendosi emblema, carne da macello, simbolo che riunisce l'inquietudine di uno stare nel mondo che apparentemente ci vede dominati e dominatori di una natura trascesa, violentata, oltraggiata, ma che non per questo non è più natura, lo è anche nelle sue reazioni violente e indifferenti.