Concetto e direzione di Wayne McGregor
Coreografia di Wayne McGregor in collaborazione con i danzatori
Musica: Jlin
Scene e proiezioni: Ben Cullen Williams
Luci: Lucy Carter
Costumi: Altor Throup
Drammaturgia: Uzma Hameed
Algoritmo di "Autobiography" Nick Rothwell
"Company Wayne McGregor"
Danzatori: Rebecca Bassett-Graham, Jordan James Bridge,
Travis Clausen-Knight, Louis McMiller, Daniela Neugebauer,
Jacob O'Connell, James Pett, Fukiko Takase, Po-Lin Tung, Jessica Wright
Musica in partnership: Unsound
CREMONA, Teatro Ponchielli, sabato 13 aprile 2019
Il titolo, già rimanda al fulcro della serata, è una rievocazione sulle fasi della vita del coreografo inglese per lui particolarmente importanti, le quali hanno creato una coreografia sulla coscienza del sé mediante il ricordo. Non sono presenti tutti i fatti della sua vita, ma semplicemente quelli che lui ha desiderato far prevalere, con meno inserzioni dialogiche a favore di numerose riflessioni personali. Philippe Lejeune ha avuto modo di definire il genere autobiografico "un racconto retrospettivo che un individuo reale fa della propria esistenza, quando mette l'accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla storia della propria personalità" ed aggiungo io, personalità artistica di assoluto valore per innovazione e profonda sperimentazione. Una introspezione che scava a fondo nei rapporti tra danza e ricerca, frutto di una collaborazione – ben appunto – tra l'acclamato coreografo Wayne McGregor e l'algoritmo di Nick Rothwell e di autorevoli partner scientifici.
L'idea è quella di trasformare il palcoscenico ridisegnando lo spazio e animandolo da una sorta di visuale collettiva sul genoma dell'autore per risvegliare lo sguardo e farlo giungere al di là del visibile, il tutto aiutato dal sapiente uso della luce di Lucy Carter, in una sorta di altalena tra pubblico e privato. Guardando il balletto si percepisce una netta lucidità, l'insieme è appassionato e la coreografia che fa del contemporaneo una cifra non solo estetica, ma anche di pensiero, è foriera di una serie di passaggi che tra estrema pulizia e voglia di eccellere intessono un'idea costruita sull'esperienza fra il mondo della coreografia e il DNA, il cui risultato non è mai uguale. Ogni serata gode di un algoritmo il quale decide cosa far vedere agli spettatori, i danzatori eseguono le varie composizioni con un ordine differente, partendo da una multi disciplinarietà formata da appunti, ricordi, frammenti artistici, per costruire un catalogo di movimenti frammentati e condensati nel processo coreografico.
Durante la serata presso lo storico Teatro Ponchielli di Cremona si è assistito a quindici "capitoli della vita" in ordine sparso (Avatar, Instinct, Remember, World, Traces, Not I, Knowing, Three Scenes, (Dis)-equilibrium, Nature, Ageing, Lucent, Sleep, Nurture, Choosing) sequenziati tra i ventitré che corrispondono all'esatto numero dei cromosomi componenti il genoma umano, riprodotto suggestivamente in scena da Ben Cullen Williams.
Wayne McGregor indaga il movimento nello spazio e nel tempo, proponendo un nuovo modo di intendere il rapporto tra la danza, la musica e l'arte figurativa. In "Autobiography" il ballo non è narrativo, l'astrattismo parla di sé stesso e degli elementi che lo compongono: tempo, spazio e velocità, in cui il coreografo inglese li affronta eliminando ogni tipo di gerarchia. Il suo è un approccio scientifico al fine di teorizzare, e praticare, una indipendenza musicale e coreutica, che rimette i due linguaggi espressivi sullo stesso piano; ogni fronte e ogni direzione vengono sperimentate senza preconcetti nel plasmare (o meglio nel temprare) un movimento coordinato alla ricerca della pura gestualità.
La contemporaneità di McGregor è rivisitata, risperimentata, rimessa in gioco con continue contaminazioni, il suo stile forma inedite correnti e tutto ciò porta al progresso e all'evoluzione di una matrice ben distinta. Il mondo digitale di McGregor è composto da corpi veloci e lievi, di contaminazioni emotive e mai diffuse, sicuramente intime per la tersa capacità di "parlare" agli spettatori, entrando così nell'infinitamente complicato con una chiave semplice.
I dieci danzatori della "Company Wayne McGregor" hanno saputo trasformare gli elementi della vita del coreografo in un flusso rispecchiando la precisione e la casualità della vita stessa: basata su molte certezze ma altresì completamente imprevedibile. Rebecca Bassett-Graham, Jordan James Bridge, Travis Clausen-Knight, Louis McMiller, Daniela Neugebauer, Jacob O'Connell, James Pett, Fukiko Takase, Po-Lin Tung, Jessica Wright rendono fruibile una pratica coreografica che appare del tutto naturale; l'equilibrio, la caduta, la velocità d'esecuzione, il ritmo supportato da energiche sciabolate formano elementi intangibili, resi puro segno di ragionamento. I danzatori sopracitati incontrano il gusto del pubblico, appagano l'occhio per prestanza e fisicità, catturano per l'assoluta precisione e per il nitore di un gesto volto ad esaltare le loro peculiarità tecniche intensamente cariche di connessioni, innesti e fusioni. Danzano splendidamente con rigore, come se avessero trovato dentro di sé l'eterno io danzante del coreografo, sulle suggestive e variegate musiche di Jlin negli essenziali costumi firmati da Altor Throup.
Ci si cala poco per volta nei vari quadri ma ci si lascia trascinare dalla visione totale restandone conquistati come in un naturale respiro. Spirituale il momento legato all'invecchiamento, dove l'astrattismo si trasforma in poesia con la capacità di esternare palpabili sentimenti nel produrre associazioni di immagini, innalzandole su evocative condotte.
Un pensiero dello scrittore statunitense, innovatore del genere fantascientifico Ray Bradbury ben si adatta all'essenza di Autobiography: "La scienza non è che la spiegazione di un miracolo che non riusciamo mai a spiegare e l'arte è un'interpretazione di quel miracolo".
Michele Olivieri