Roma, Teatro Sistina, dal 10 al 15 aprile 2007
Vederli danzare è una gioia per gli occhi: i ballerini della Limòn Dance Company animano il palcoscenico (a Roma, al Sistina) come scie di luce, un fuoco d'artificio di salti, un trionfo di grazia e limpidezza di forme. Ma non c'è niente di formale nelle coreografie di Limòn, scomparso nel 1972, nessun movimento artificioso e nemmeno astrattezza concettuale: tutto, nei suoi lavori, riconduce ai sentimenti umani, a una spontaneità del vivere ancora attuale a decine di anni dalla loro creazione (La Pavana del Moro, il suo capolavoro, risale al 1949). Sono danze, come diceva lui stesso, che intendevano «cambiare il mondo». È il principio etico che ha regolato l'arte di Limòn, il desiderio di riscatto dalla povertà, dalla guerra, dalle discriminazioni di emigrato che prende origine dalla vita stessa del coreografo e che ben descrive una pagina recente di storia americana. José Limòn era nato in Messico, nel 1908, in una famiglia di dignitosa povertà (il padre era un musicista) e cresciuto in mezzo alla rivoluzione. Nel 1913 la città dove abitavano, Cananea, fu messa a ferro e fuoco dai federalisti e per tre giorni José e i suoi familiari si rifugiarono in cantina, dopo che uno zio era stato ucciso da una pallottola. Sono ricordi che affioreranno di continuo nella produzione coreografica di Limon - nella Mexican Suite, per esempio, dedicata ai rivoluzionari, ma anche nelle ricorrenti figure di eroi che lottano contro il destino avverso come in Psalm, maestosa opera del 1967 in cui si racconta la storia di un Giusto, uno dei 36 uomini che secondo la tradizione ebraica porterebbero nel cuore la sofferenza del mondo, o The Unsung, dedicata a sei capi indiani.
Limòn visse in prima persona anche i disagi dell'immigrazione, nonostante all'epoca l'America fosse molto più permeabile di oggi. La famiglia entrò legalmente in Arizona, ma soprattutto la madre (un'india mezzosangue) non si adattò mai del tutto al nuovo mondo, imparò solo una manciata di parole inglesi e per il resto dipendeva dai figli come è successo a molte successive generazioni di immigrati. José, che veniva preso in giro a scuola per il suo accento, ne fece un punto d'onore d'imparare la nuova lingua meglio degli stessi nativi. La Pavana del Moro, che attinge all'Otello di Shakespeare, è il sigillo definitivo alla sua adesione alla cultura occidentale, l'opera perfetta, sintesi di equilibri dinamici e raffinatezza culturale. Senza che per questo il coreografo messicano dimenticasse le sue origini (vedi lavori come La Malinche, dedicata alla principessa india che aiutò il conquistatore Cortez, le frequenti tournée della sua compagnia in Messico, le borse di studio a giovani talenti sudamericani). Una parabola morale che Limòn sigillò con la devozione alla sua maestra e decana della modern dance, Doris Humphrey, a cui affidò - caso più unico che raro - la direzione artistica della compagnia da lui fondata nel 1946. Che ancora oggi è diretta sempre da una donna, Carla Maxwell, che di Limòn è stata magnifica interprete e assieme ad altre sue soliste (Nina Watt, Alice Condodina, Betty Jones) fedele custode delle sue opere. I risultati si leggono negli arabeschi lirici che gli attuali protagonisti - tra cui le splendide Roxane D'Orleans Juste e Kathryn Alter - disegnano in scena, dalla Suite from a Choreografic Offering dedicata a Humphrey, alle Dances for Isadora (omaggio alla Duncan). Serate da non perdere quelle al Sistina (fino a domenica) dove vengono celebrati i sessant'anni di una compagnia dal cuore «meticcio», espressione della migliore America multietnica.
Rossella Battisti