"Colui che prende la parola"
con Elia Schilton
al violoncello Irina Solinas
danzatori: Sebastien Halnaut, Gianmaria Girotto, Alessandra Cozzi
regia: Federica Santambrogio
coreografia: Emanuela Tagliavia
musiche originali: Irina Solinas
luci: Francesco Vitali
costumi: Micaela Sollecito
produzione Teatro Franco Parenti
si ringraziano: Ilaria Saruggia e Laura Leardini
nell'ultima versione di Guido Ceronetti, terminata nel 2001
Teatro Franco Parenti, Milano, 13 febbraio 2019
"Fumo dei fumi, tutto non è che fumo". Il rotolo di "Qohélet", accompagna lo spettatore alla scoperta dell'imprescindibile testo da ascoltare o da leggere almeno una volta nella vita, forgiata sull'esperienza di una comprensione e di un dissotterramento introspettivo. Un confronto instancabile per cui il "libro assoluto", come lo definisce Guido Ceronetti diventa "un tumulto verbale di disperata lucidità". Lo spettacolo prodotto dal Franco Parenti di Milano dona la possibilità di conoscere e spingere alla lettura, o alla rilettura, di questo fondamentale scritto per scappare dall'abbattimento in cerca di un sentimento di pace, narrando la miseria umana senza mortificarla e smuovendo le coscienze dell'uomo contemporaneo. La regia di Federica Santambrogio si accosta con estrema delicatezza al contenuto, quasi con timore reverenziale ponendo in luce la disperazione, l'inutilità, il procedere a tentoni dell'uomo, e grazie alla parola, alla musica e alla danza riesce ad aprire attimi vigorosi di respiro collettivo... un respiro che diventa empaticamente tutt'uno tra i cinque artisti in scena. Lo spettacolo si ammira senza riserve, gode di quel potere nell'imporsi all'attenzione percependo uno scossone morale. Elia Schilton concentra la lettura del Qohélet, pagina dopo pagina, infondendo voce ed emozione per mezzo di un'intensità acuminata ed illuminante - di rara bellezza attoriale - sul senso delle cose terrene, nell'alleviare la moltitudine di risposte che l'uomo si pone infruttuosamente. La coreografia di Emanuela Tagliavia, rispettosa nel non travalicare l'oratoria, spoglia la vita (e la scena) di tutto quanto è vana illusione dando fondamentale importanza al gesto ma ancor più allo sguardo, riuscendo così a cogliere i simbolismi di un'estetica accennata, una danza che diventa messaggio di preghiera e spontaneità. Alla base permane il cerchio che è la cifra stilistica della creazione coreografica in quanto riporta l'atmosfera intima alla formazione tradizionale per eccellenza: sinonimo di uguaglianza fra i danzatori, ognuno ben diverso dall'altro per cogliere il tessuto dell'umanità. I ballerini Sebastien Halnaut, Gianmaria Girotto e Alessandra Cozzi si tengono per mano, consentono uno spostamento laterale incrociando i passi, cambiano peso da un piede all'altro e danno vita ad un successivo incrocio di uno davanti all'altro con ampie concatenazioni, passi tipici studiati in sequenze dove si trovano giri e contro giri, salti, cenni composti per esprimere la sostanza del testo nella circonferenza dello spazio. A stretto contatto con il pubblico i danzatori sradicano tutto ciò che non è cosa fatua, delineando un sentimento di verità e lucidità. Il battersi le mani al petto fornisce la chiave di lettura del "Qohélet" visto dalla non parola ma dal movimento, uno dei gesti penitenziali più classici, un gesto popolare, un'espressività che costituisce un richiamo all'attenzione degli spettatori nel manifestare il dolore destando in ognuno il proprio singolo mondo interiore. Emanuela Tagliavia è riuscita ad abbracciare le forme tradizionali ispirandosi alla ritualità e alla meditazione, tracciando forme geometriche nello spazio, pur ristretto, collegando gli artisti alle forze della vita producendo in essi un sentore di espansione fisica ma anche spirituale, permettendo alla mente di allinearsi all'equilibrio dell'universo stesso. Gli evocativi cerchi disegnati in scena con la terra accolgono l'uomo e lo proteggono, custodendo e rappresentando così l'elemento principale di "contatto" tra il vivo e il morto. Le musiche originali di Irina Solinas, eseguite dal suo delicatissimo tocco al violoncello, inducono alla ponderazione traducendo il suono in immagini, e richiamando alla mente verità che implorano. Un emblematico silenzio religioso, rotto solo nel finale da convinti applausi, ha accompagnato la "riflessione teatrale" che lascia in eredità due interrogativi, a cosa serva fare il bene e a cosa serva fare il male.
Michele Olivieri