libretto e musica: Leos Janacek
direttore: Lothar Koenigs
regia e scene: Stéphane Braunschweig, costumi: Thibault Vancraenenbroeck
con Mette Ejsing, Miro Dvorsky, Ian Storey, Anja Silja, Emily Magee, Gabor Bretz, Gleb Nikolsky, Marion Ammann, Annely Peebo, Alisa Zinovjeva, Sae Kyung Rim, Ye Won Joo, Francesca Garbi, Mila Vilotijevic - Giorgio Valerio.
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Milano, Teatro alla Scala, dal 29 aprile al 15 maggio 2007
Dopo La piccola volpe astuta e Kat’a Kabanova arriva alla Scala anche Jenufa, lavoro di Janacek del 1904 quasi contemporaneo a Adriana Lecouvreur (1902), Pélleas ed Mélisande (1902), Madama Butterfly (1904) e Salome (1905). Questo per un inquadramento utile a chi legge.
Lavoro tormentatissimo fu Jenufa, durato più di dieci anni tra varianti, pentimenti e ripensamenti. Janacek, vissuto in un ambiente più propenso alla musica occidentale (Smetana e Dvorák erano musicisti cechi quotati in patria e all’estero) veniva considerato uno strambo con teorie sul linguaggio ridicole e regionali. Le sue opere precedenti non avevano convinto per il loro “folclorismo” e per la manifesta volontà di allontanarsi da ogni modello tardo romantico. Il dramma è di una certa Gabriela Preissova (1862-1946) ed è ambientato fra contadini. C’è Jenufa, figliastra della sagrestana del paese, che attende un figlio da Steva. Regolarmente abbandonata pertorisce un bimbo che viene ucciso dalla matrigna per salvare l’onore. Dopo varie vicissitudini Jenufa sposa Laca, fratellastro di Steva, e tutto finisce bene.
Non c’è da aspettarsi una musica come la concepiamo noi. Leggiamo sul programma di sala (a cura di Franco Pulcini, probabilmente uno dei sette o otto italiani che conoscono la lingua ceca) come psicologia, folclore, acustica, fonetica ed estetica abbiano dotato lo spirito del musicista. Oltre al basilare, ossessivo desiderio di aderire il più possibile alla lingua parlata.
Su questa base per noi, che non siamo nati a Brno, tutto si svolge in una fastidiosa incomprensione. Una musica che, per qualche breve momento, promette buoni spunti, mostra senza dubbio l’abilità tecnica dello strumentatore, ma non possedendo sviluppi perché vuole sottolineare ogni parola si ferma, appunto, a ogni parola. Si intuisce il grande musicista, la funzionalità del dramma, l’efficacia dei dialoghi, si apprezzano moderatamente scene e costumi nonché la professionalità dei cantanti.
Ma mai, come con quest’opera, abbiamo rimpianto le belle traduzioni ritmiche di una volta (che pure ci sono state in passato anche per Jenufa) anche se tradivano la fonetica originale e anche se talvolta parte del carattere musicale. Ma tradurre sarebbe come tradire le belle teorie di Janacek che voleva un totale ripensamento della musica operistica. Pulcini ci fa sapere che le poche concessioni alla moda corrente straussiano-wagneriana sono, appunto, concessioni. Cosa rimane? Un’opera che si intuisce importante ma fortemente localizzata. Viene in mente Puccini che in una lettera affermava “io scrivo anche per i negri”.
Nessuna comprensibilità viene dalla messa in scena scaligera (proveniente da altri teatri) dove assistiamo alle solite scene astratte con i soliti costumi senza tempo che abbiamo descritto in altre recensioni. Molto bravi i cantanti che attraverso i gesti, previa nostra lettura del soggetto in italiano, ci hanno dato qualche cenno e qualche idea di quanto avveniva.
Applausi, comunque, alla fatica degli interpreti compreso il direttore Koenigs.
Mariella Busnelli
Ottimo allestimento per uno Janacek di splendida sonorità
Janacek porta fortuna alla Scala. Se l'anno scorso Katja Kabanova era stato il miglior spettacolo della stagione, quest'anno il cartellone segna con Jenufa (1904) un'altra magnifica riuscita. E' buona la regia di Stéphane Braunschweig, con i costumi di Thibault Vancraenenbroeck: anche se non esente da tentazioni simboliste, le quattro pareti di legno, il lettino bianco del bimbo, la stilizzata cappella e, soprattutto, la recitazione, intensa e vera dei personaggi, colgono con buona esattezza l'ambiente realistico del villaggio moravo in cui si consuma il dramma di Jenufa, ragazza madre cui la sagrestana Buryja, che l'aveva adottata, uccide di nascosto il bimbo per preservare l'onore della famiglia. Ma la ragazza, abbandonata dal padre del bambino, trova conforto nel di lui fratellastro Laca che, pur avendola sfregiata per gelosia, riesce a conquistarla con la perseveranza del suo amore.
Si tratta, come si vede, di un dramma non lontano dalle predilezioni veriste dell'opera italiana di fine Ottocento, ma trattato da Janacek in modo del tutto diverso, a cominciare dal canto. "Quando componevo Jenufa - scrisse Janacek - bevevo letteralmente la melodie delle parole": perché le parole, di cui ci serviamo in ogni lingua, hanno un suono, un ritmo, un'intonazione, una melodia di altezze. Quelle del linguaggio cèco, intonate da Janacek, non generano quindi un canto a gola spiegata, come quello italiano, ma un andamento frantumato, sciolto, libero da simmetrie, una prosa musicale che toglie ogni retorica all'espressione della voce. Il che si traduce nei gesti: e bastava vedere quelli che Braunschweig ha ottenuto dai cantanti per capire come tutto, nel canto di Janacek, nasca dall'interiorità del sentimento, ossia dalla naturalezza della sua espressione linguistica. Ma ci vogliono interpreti di prim'ordine, che capiscano il valore poetico e la capacità introspettiva di questa spoliazione: obbligo cui la Scala ha puntualmente ottemperato.
Anja Silja, carica di anni e di esperienza, ha dato della vecchia Sagrestana un'interpretazione che è apparsa tanto più tragica in quanto misurata eppure tesissima; Emily Magee è stata una Jenufa piena di commozione e dotata di voce limpida e pura; Miro Dvorsky, nella parte di Laca, ha sfoggiato un timbro limpido, squillante e un canto molto nobile. Ma anche i comprimari hanno dato ai loro personaggi quel tono di intima e scavata sofferenza che la musica di Janacek riveste di struggente pieta.
Merito, naturalmente, del direttore Lothar Koenigs, capace di far sentire bene i due strati che si sovrappongono nell'orchestra di Jenufa, mirabolante per varietà di colori: da un lato una serie di motivi che scoprono emozioni, tensioni, conflitti psicologici e sentimentali; dall'altro un tessuto pre-linguistico di ritmi e disegni iterati, pulsazioni, ticchettii, oscillazioni, battiti onnipresenti e misteriosi: flusso del tempo che scorre? voci onnipresenti della natura? fatale susseguirsi di eventi indifferenti al sentire umano? In questo senso di ambiguità e di sospensione, in cui si svolge il dramma dell'uomo, sta la potenza teatrale di Jenufa e la forza della sua modernit: cosa che l'esecuzione scaligera ha messo molto bene in rilievo, strappando al pubblico foltissimo un grande successo. Uno spettacolo da non perdere.
Paolo Gallarati
Dolorosa catarsi per il pubblico scaligero di fronte alla tragica opera lirica di Janacek diretta da Koenigs
Potrebbe sembrare dissacrante dirlo così, ma la Jenufa di Leos Janacek che l'altra sera alla Scala (repliche sino al 15 maggio) ha raccolto dieci minuti di applausi, sembra uno di quei servizi di cronaca che programmi tv tipo La vita in diretta ci propongono quotidianamente. Cronaca nera che più nera non si può dato che si parte da uno sfregio al viso di una donna e si arriva a un infanticidio. Un lungo reportage da un villaggio della Moravia, scritto da Janacek agli inizi del Novecento, ma che ancora oggi - proprio perché la cronaca non ci risparmia violenze su donne e bambini - mette i brividi, tanto che nel secondo atto, quando si consuma l'infanticidio, l'istinto più forte di fronte a un così crudo dolore è di alzarsi e uscire dalla sala. La violenza della storia, anche se raccontata con un'assoluta stilizzazione dal regista Stephane Braunschweig, e il crudo realismo della musica, diretta con puntualità da Lothar Koenigs, colpiscono nel segno. Due ore di musica per un viaggio negli abissi di una mente malata, quella della sacrestana Buryia che nasconde la gravidanza della figliastra Jenufa e uccide il bambino nel momento in cui il padre rifiuta il matrimonio riparatore.
Un viaggio sul quale si allunga una speranza, quella del perdono che Jenufa concede alla matrigna. Braunschweig, che firma anche le scene, mette sul palco solo alcune pareti di legno, delle panche e una ruota di mulino e chiede ai cantanti una recitazione asciutta che non disturba mai la straordinaria partitura di Janacek ben resa dagli interpreti, primo fra tutti il coro preparato magnificamente da Bruno Casoni. Jenufa è una dolente Emily Magee, Laca, che prima sfregia e poi sposa la ragazza, un ottimo Miro Dvorsky. E poi gli incisivi Ian Storey, Gabor Bretz e Mette Ejsing. Anja Silja, dall'alto dei suoi 67 anni, affronta con grinta e voce che non fa una grinza l'impervia parte della sacrestana restituendo un personaggio tormentato e inquietante di fronte al quale la rabbia lascia il posto alla pietà.
Pierachille Dolfini
una Sacrestana Anti-Classica
Ottimi gli interpreti ed efficace l' allestimento scenico
Nel giro di pochi giorni nomino per la seconda volta Magda Olivero: per rivolgerle ancora un saluto devoto e affettuoso. Questa volta l' occasione è una «che solum è sua»: il nuovo allestimento alla Scala della Jenufa (I rappresentazione: 1904) di Leos Janacec, il compositore che portò la lingua ceca dall' oscurita servile a un rango nel mondo musicale. Quest' Opera venne dal teatro rappresentata nel 1974 e il ruolo cosiddetto «della Sacrestana» venne impersonato da uno dei più grandi soprani del Novecento, la signora Magda. Aveva un' età che consiglia da tempo il ritiro e fa apparire, appunto, sconsigliato, il restare sulle scene o anche solo dare concerti. Ma la signora Magda, oltre alle sue doti eccezionali di natura, ha una tecnica e un' igiene vocale con pochi confronti: sicché il suo essere la protagonista dell' Opera, non lo fosse il personaggio interpretato, appariva naturale: e io ricordo una critica apparsa sull' «Espresso» da parte di uno dei più importanti nostri studiosi di Janacec, Fedele D' Amico, che le rendeva un onore straordinario. Ora, nella nuova Jenufa di trentatré anni dopo, che nel frattempo può giovarsi dell' Edizione Critica, tale questa volta davvero, di Charles Mackerras, accade per lo stesso ruolo un miracolo analogo a quello ora narrato. Giova prima sintetizzare la vicenda drammatica che si deve allo stesso compositore. Una giovane d' un villaggio moravo, Jenufa, è promessa del ricco proprietario d' un mulino, Steva, e segretamente ne è incinta. Questi entra in scena del tutto ubriaco, secondo sua abitudine: il pretesto, stavolta, è l' esser egli sfuggito al servizio militare. Mentre Jenufa rifiata, ché altrimenti Steva non potrebbe sposarla, la Sacrestana, che le è madre adottiva, s' interpone: tanto severo è il suo giudizio sull' ubriacone figlio e tale è l' affetto nutrito per la ragazza che ordina di posporre le nozze di un anno, nell' irrealistico desiderio che Steva si allontani dalla bottiglia. Intanto il fratellastro di costui, Laca, che di Jenufa è profondamente innamorato, vistosi respinto, la sfregia col coltello. Steva ha il pretesto per non sposarla più. II atto. Jenufa viene nascosta in casa dalla Sacrestana e partorisce. Ma per l' anziana donna il pallido esserino biondastro è solo un ostacolo alla felicità della giovane, al da lei desiderato matrimonio con Laca. Così, narcotizzata Jenufa, giunge alla terribile decisione: ucciderà l' infante di pochi giorni, l' esistenza del quale è a tutti sconosciuta, gettandolo nel fiume. E tanto fa, essendo subito dopo perseguitata dal rimorso e da incubi. Il III atto si apre sulle celebrande nozze di Jenufa e Laca. Al culmine della festa la catastrofe: una valanga fa riemergere dal ghiaccio il cadaverino. La vecchia, più che non si accusi per proteggere Jenufa, si denuncia per bisogno d' espiazione; e Jenufa, comprendendo quanto il delitto della vecchia sia un atto d' amore verso di lei, sublimemente dice: «Non condannatela! Datele il tempo per espiare! Anche a lei il Salvatore volge lo sguardo!». Come redenta, ella può ora di libera volontà sposare Laca. La Sacrestana, sebbene chieda assai al canto, vuole innanzitutto una vera personalità interpretativa. Dopo trentatré anni dove era la signora Magda c' è Ania Silja: anch' essa un pezzo di storia del teatro lirico, maliosa Salome, illustre wagneriana, tra le regine della Bayreuth di Wieland Wagner negli anni Sessanta. Di luminosa tenuta vocale, bellissima nel volto e nella figura diritta e nobile, di nuovo rimuove con la sua interpretazione ogni dubbio sull' essere la Sacrestana la protagonista dell' Opera. È naturalmente la più applaudita d' un allestimento applauditissimo per legittimi meriti. Già si disse come Janacec si credesse, in quanto compositore, un positivista e un «socialista scientifico» e come opinasse aver egli con indubbia profondità sviluppato studi che mettono capo alla melodia della lingua ceca. In fatto, il suo stile è radicalmente anti-classico nel rinunciare a ogni principio costruttivo formale e nel risultare dal faticoso giustapporsi di piccole tessere, giusta tecnica musiva. Ma o il gesto drammatico è interiettivo o l' orchestra acquista predominio coll' insistere in pedali, spesso bicordi, o in intere frasi-pedale che assumono ai nostri occhi l' implacabilità onde la vicenda è trascinata. Atteso il genio di orchestratore di Janacec e la lancinante portata lirica della sua partitura orchestrale, ben può essa chiamarsi la voce del Destino ed egli la manifestazione d' una sorta di realismo magico. Sul podio alla Scala, con ammirevole dominio della partitura e del di lei rapporto con la scena, Lothar Koenigs, che ottiene un risultato da grande orchestra sinfonica: nel Concerto per violino ricavabile passim dall' Opera squisito solista Francesco Manara. L' allestimento di Sthéphane Braunschweig è della più efficace delle essenzialità espressioniste nei bozzetti, di grandissima cura nella recitazione. Emily Magee, Jenufa, è un soprano lirico dal quale, alla stregua di ciò che qui fa, ci attendiamo in futuro molto.
Paolo Isotta
da Milano
Che botta di desolazione, Jenufa. Pecca con un cretino bello ed ubriacone, aspetta un bimbo, il fratellastro buono del futuro padre l'ama anche lui ma la sfregia per errore, l'ubriacone non la vuole più. La madre, che teme lo scandalo, la nasconde, poi nasconde il bambino, poi lo butta nel ghiaccio: ne ritrovano il cadavere mentre lei sta per sposare lo sfregiatore: stanno per lapidarla, quando la terribile madre dice che è stata lei, allora i promessi sposi restano soli e si promettono pallida felicità.
Doppia botta alla Scala. Regìa con muri scuri grigiastri, e pochi oggetti, del genere in cui per Guglielmo Tell basterebbe una mela. Recitazione operistica tradizionale, nei costumi non interessanti di Thibault Vancraenenbroeck, con enfasi ed impacci: strano, la firma è Stéphane Braunschweig, il teatro produttore è lo Châtelet di Parigi, nomi cruscanti. Successo vivo. Ci son tre ragioni. Prima, che l'opera è bellissima. Tutta diversa da quello che potremmo immaginare dal soggetto, un drammone strappaviscere, e dalle stesse date in cui fu composta, cioè dal 1894 al 1903, il tempo in cui cuore, polmoni e declamazione dominavano la scena di mezz'Europa. Ma Leos Janácek era di tutt'altra pasta. A lui interessava auscultare la lingua della sua terra ceca e scoprire le emozioni che muovevan la pronuncia stessa delle parole, le melodie incompiute che suggerivano, le cautele e gli slanci che animavano, ed il ritmo che le sosteneva. Fra il dramma da spettacolo ed il puro dolore, poi, questa volta, lui che aveva appena perduto due bambini, si raccoglieva nel mistero del dolore. Forse incapace della tragedia del male, forse troppo immerso in una specie di religione della natura, non gli importava di allineare crudeltà e ignoranza, cercava barlumi di vero nella bellezza. La seconda è che un autore così si applaude sempre, da noi, soprattutto dopo una serata penitenziale. Ci si premia di aver fatto cultura. Non vien voglia, magari, di tornare, il sacrificio è consumato. Se il clima della recita ha una sua autenticità, come in questo caso anche se il direttore Lothar Koenig non è andato oltre l'accompagnamento, e un certo pathos cresce, tanto da dare magari disagio ma non noia, ci si sente in vacanza dal repertorio, benignamente ospiti e onestamente partecipi.La terza è che i cantanti in questo genere d'opera passano indenni. La tessitura è ardua: senza perdere la continuità della conversazione, bisogna portarsi per vie anche tortuose nelle zone alte della voce e starci su senza compiacimenti. Se qualche cantante grida e talora ha dei cali d'intonazione, si capisce che è inferiore agli altri. Ma se lo fanno tutti, e tutti con voci non troppo suadenti, si finisce per pensare che sia uno stile e ci si adegua. Ed era un po’ così, alla Scala: efficienti ma un po’ grezzi Jan Storei e Miro Dvorski (il bello che beve e il buono che sfregia e sposa), generosa e tenerona Emily Mager, Jenufa, tutti i personaggi principali s'arrampicavano un po’ faticosamente sul pentagramma. Nella parte della vecchia terribile, Anja Silia, gloriosa interprete di ieri, ha gridato tanto.
Lorenzo Arruga