Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave,
dal dramma Le Pasteur, ou l’Évangile et le Foyer di Émile Souvestre ed Émile Bourgeois
Musica di Giuseppe Verdi
Direttore Leonardo Sini
Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Regia e luci Guy Montavon
Assistente alla regia Cristiano Fioravanti
Scene e costumi Francesco Calcagnini
Orchestra, Coro e Tecnici Fondazione Arena di Verona
allestimento del Teatro Regio di Parma in coproduzione con Opéra de Monte-Carlo
Personaggi e Interpreti
Stiffelio Stefano Secco
Lina Daniela Schillaci
Stankar Vladimir Stoyanov
Raffaele Carlo Raffaelli
Jorg Gabriele Sagona
Federico Francesco Pittari
Dorotea Sara Rossini
Verona, Teatro Filarmonico, 3 novembre 2024
Successo pieno e condiviso da parte del pubblico, al Teatro Filarmonico di Verona, non al pieno della sua possibilità, per questa riproposta dello Stiffelio di G. Verdi presentato nell'allestimento rassicurante del regista Guy de Montavon: risale infatti al 2012, in coproduzione con Parma e Montecarlo e approdato nel 2017 anche all'opera di Bilbao, per quella sua collocazione nel tempo e in uno spazio essenziale. Del resto la storia famigliare per pastore protestante Rodolfo Müller alias Stiffelio ci rapporta alla austerità degli ambienti ecclesiastici di fede luterana dove nulla è concesso all'orpello iconografico e dove il concetto di perdono non è mediato e non spetta all'umano sia esso sacerdote della comunità ma solo a Dio con le sue parole derivate dalla Bibbia. Piccoli elementi ma sostanziali che servono per orientarsi in una vicenda che rasenta il delitto d'onore con l'anziano padre, militare di carriera, della protagonista adultera Lina, che uccide l'amante per tutelare l'onore della figlia, a cui si affianca, come riparazione dall'adulterio, il divorzio, e il perdono, che non è una assoluzione, affidato alle parole della parabola dell'adultera del Vangelo. L'opera fu stata presentata la prima volta nel 1850 a Trieste, pochi mesi anteriore alla rappresentazione del Rigoletto avvenuta a Venezia nel marzo del 1851. La trama, tratta da un dramma francese Le Pasteur, ou L'évangile et le foyer di Émile Souvestre ed Eugène Bourgeois, apparve sulle scene nel 1848: una storia di una relazione extraconiugale con tutte le conseguenze del caso che coinvolge una comunità protestante di inizio '800 in una recondita valle della Germania. Ancor più sorprendente che nel 1849 era già stata pubblicata in Italia nella traduzione di Gaetano Vestri e fu presumibilmente in questa forma che Piave ne venne a conoscenza. Si trattò del soggetto più moderno e audace che Verdi abbia mai messo in musica. "Stiffelio è buono ed interessante", scrisse a Piave dopo averne ricevuto il riassunto, e l'accettò senza ulteriori discussioni. Ma già prima della rappresentazione a Trieste nel novembre 1850 per Verdì e Piave iniziarono i problemi con la censura triestina che pretese drastiche correzioni alle varie scene ambientate in chiesa. Successivamente alla prima al Teatro Grande, Stiffelio assunse le identità di Guglielmo Wellingrode e quella definitiva di Aroldo e, come tale con una ricollocazione temporale medievale, circuitata con l'autorizzazione di Verdi stesso. Della partitura e del libretto originari si decise di farne carta straccia e così sparì dai teatri: riemerse solo nel 1968 a Parma. L'opera segna la maturità compositiva che Verdi raggiunse a conclusione degli anni della sua "galera". Momenti essenziali sono i concertati negli atti primo e secondo, come il preludio dell'atto secondo segna un nuovo progresso nel chiaroscuro d'ambiente, aprendo la strada alla scena del campo del patibolo nel Ballo in maschera. Tanto viene rielaborato dalla Luisa Miller, di poco precedente, come gli inserti a cappella, le scene drammaturgicamente costruite sui duetti dei protagonisti e con inserimenti degli altri attori in modo diretto senza alcuna sospensione della azione musicale e scenica. Cambia anche la rappresentazione della voce: il protagonista rappresenta un tipo di primo tenore del tutto nuovo per il canone verdiano, un uomo non più giovane, capace di ferreo controllo, eppure soggetto al esplosioni passionali; un baritono, Stankar, nel quale troviamo tutta l'ambivalenza che Verdi associava a quel tipo di vocalità: in apparenza uomo di pace e modello; ma divorato dalla sete di vendetta. La voce femminile scritta per Marietta Gazzaniga, prima interprete anche della Luisa Miller, richiede da parte del soprano un estesissimo registro alto, passi d'agilità, tanto da giustificare in pieno la tradizionale etichetta di soprano drammatico d'agilità, ma povera di vocalizzi e di fioriti, con una vocalità più concitata che virtuosistica. L'ambientazione si associa bene al clima di quest'opera il cui svolgimento scorre come un dramma tipico di stampo borghese dell'area culturale tedesca a cui Verdi attingeva in quegli anni. L'allestimento essenziale raffinato, algido nei toni del grigio e dell'azzurro (scene e costumi di Francesco Calcagnini), permette anche dei forti giochi di luce chiaroscurali, opera dello stesso regista che ci restituiscono tagli stile della scuola olandese e che privilegiano l'intimità e l'austerità delle relazioni umane tra i personaggi principali e ci riporta anche ad un ceto rigore interpretativo e gestione molto lineare nella condotta del complesso artistico. La direzione orchestrale era affidata a Leonardo Simi che ottiene dal complesso orchestrale della Fondazione Arena una lettura rigorosa di questa partitura rappresenti, una sorta di catalogo di quanto Verdi abbia poi nel tempo riutilizzato e perfezionato con la ampie scene d'assieme, qui il coro diretto da Roberto Gabbiani, che preludono al sacro alle arie che emergono d'improvviso nel dialogo tra le parti come monologhi teatrali. Interessante la lettura della Sinfonia, che sembra in qualche modo riscritta su uno stile mediato da melodie belliniane, ampie e legate. A Verona si sono scambiati due cast nelle prime parti. La data ha portato all'ascolto di Stefano Secco come ruolo del titolo, il tenore ha ben definito un personaggio essenziale nei i propri sentimenti e doveri tramite il giusto tono negli accenti lirici, un una scrittura che non propone grandi escursioni vocali, e questo lo avvantaggia in quanto si percepisce un limite alla sua estensione vocale, ma offrendo dimostrazione di aver definito i giusti accenti lirici alla parte. Interessante l'interpretazione di Lina da parte del soprano Daniela Schillaci. Essendo un ruolo vocale di evoluzione tra la coloritura da soprano drammatico ma con prolusione di accenti lirici ha dimostrato una buona estensione di mezzi vocali che con la sua pregevole voce ha saputo spaziare dai toni gravi, drammatici e profondi, agli acuti brillanti e coloristiche restituendo una Lina che presenta alcune ambiguità nel porsi davanti all'accusa di tradimento tra rimorso e dal senso di colpa. La sua aria cimiteriale nell'Atto II e i suoi magnifici duetti, con il padre nell'Atto I o, quello ancora più vibrante, della contrizione con Stiffelio nell'Atto III, sono stati ben risolti collocandoci in una altra dimensione dello stile del canto che Verdi sta definendo. Su tutti il baritono Vladimir Stoyanov, nel ruolo di Stankar, personaggio austero nella sua memoria di ufficiale e nel contempo ossessionato di ripulire l'onta del disonore della figlia Lina nei confronti l'amante Raffaele, che riesce a definire la dura sofferenza del disonore paterno. Ruoli minori, ben definiti nei caratteri l’altero Raffaele di Carlo Raffaelli, l'anziano Jorg portavoce della comunità di Gabriele Sagona, Federico e Dorotea interpretati rispettivamente da Francesco Pittari e Sara Rossini. In una rappresentazione pomeridiana festiva di un’opera ancora di raro ascolto si poteva prospettare un tutto esaurito, ma forse l'accumulo di eventi lirici in queste settimane di fine autunno nei teatri di pianura non fanno che disperdere il già scarso pubblico di melomani girovaghi. Federica Fanizza