dramma lirico in tre atti e cinque quadri
libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
musica di Giacomo Puccini
Direttore d'Orchestra, Giuseppe Acquaviva/ Alvise Casellati (20-21)
Allestimento Fondazione Teatro Carlo Felice
Regia, Giuliano Montaldo
ripresa da Fausto Cosentino
Scene, Luciano Ricceri
Costumi, Elisabetta Montaldo Bocciardo
Luci, Luciano Novelli
Orchestra, Coro e Coro di Voci Bianche del Teatro Carlo Felice
Maestro del Coro, Franco Sebastiani
Maestro del Coro di Voci Bianche, Gino Tanasini
Personaggi e interpreti:
Turandot, Norma Fantini – Giovanna Casolla
Calaf, Rudy Park – Mario Malagnini
Liù, Serena Gamberoni – Maria Teresa Leva
Timur, Mihailo Šljivić
Mandarino, Alessio Cacciamani
Ping, Vincenzo Taormina
Pang, Blagoj Nacoski
Pong, Marcello Nardis
Altoum, Max Renè Cosotti
Il Principe di Persia, Alberto Angeleri – Giampiero De Paoli – Antonio Mannarino
2 Ancelle, Alla Gorobchenko – Annarita Cecchini – Simona Marcello
Mimi DEOS: Luca Alberti, Luisa Baldinetti, Filippo Bandiera, Emanuela Bonora, Fabio Caputo, Barbara Innocenti, Vanessa Locandro, Francesco Mascellani, Davide Riminucci
Genova, Teatro Carlo Felice dal 16 al 21 giugno 2017
Il primo atto di Turandot è uno dei capolavori di Giacomo Puccini: l'intero atto possiede una tensione drammatica che tiene col fiato sospeso. Il difficile è saperla cogliere, sia da parte dei protagonisti che da parte del regista.
Al teatro Carlo Felice di Genova, alla prémiere del 16 giugno 2017, il primo atto di Turandot non ha offerto le emozioni lunari, di un Oriente all'inizio anche quasi macabro, né il debito movimento delle masse, protagoniste insieme ai protagonisti, nella produzione ormai storica per la regia di Giuliano Montaldo, ripresa da Fausto Cosentino. Tutto molto statico, tutto inquadrato e squadrato, nelle scene opulente di Luciano Ricceri, in una geometria che invece è in contrasto con il colorismo acceso, le sfaccettature tutte da evidenziare e gli accenti variegati che costellano il capolavoro del genio lucchese a partirte dal suddetto atto memorabile, proseguendo poi per l'intero spettacolo. Gradevole, infatti, ma troppo fermo il Coro, diretto da Franco Sebastiani; di contro, troppo insistenti le movenze mimiche di Pu Tin Pao e dei suoi accoliti, con tanto di roteare fin troppo ripetitivo di scimitarra.
Quanto agli interpreti, la Turandot di Norma Fantini, al debutto nel ruolo, è apparsa un po' sottotono e poco "primadonna" nel porgersi e nell'apparire. La parte è molto pesante, si sa e ci sono vette sonore che la Fantini riesce solo a toccare. Forse è stata anche dominata da un'emozione, all'inizio soprattutto, che ne ha compromesso l'intonazione negli acuti più impervi del primo, difficilissimo brano che Puccini ha destinato alla principessa al suo apparire in scena: "In questa reggia".
Ma il risultato complessivo dell'effetto "decentramento" vocale e scenico della protagonista non è dipeso solo dall'interprete, ma anche dalla regia: complessivamente, la principessa non ha goduto sul palcoscenico del debito risalto.
Turandot sembrava quasi confusa con le masse o, magari, posta così in alto che pure i suoni ne venivano penalizzati. Era vestita, oltretutto, con un costume dal colore spento, firmato con gli altri costumi, altrettanto severi, da Elisabetta Montaldo Bocciardo, che non la faceva spiccare. Dov'era poi, al finale, la Turandot "tutta bianca" nel suo "manto d'argento" (ci si chiede spesso se i costumisti leggano il libretto)? Ugualmente spenti e oscuri, nonostante i tentativi aurei, erano i colori dell'intera produzione, illuminata da Luciano Novelli.
Di fronte a quanto sopra, ho riflettuto su come non avessi mai visto prima una Turandot in cui la primadonna non fosse l'eponima, ma Liù; e la Liù guidata da Montaldo, a Genova, era Serena Gamberoni, anch'ella al debutto nel ruolo.
Vista e recensita recentemente a Palermo nel Werther (dall'ottima, coniugale interpretazione nel ruolo del titolo) in una Sophie non proprio azzeccata quanto a canto secondo la "Tradition Française", la Gamberoni, in Puccini, la voce l'ha dispiegata tutta nel canto italiano e si è dimostrata decisamente più a proprio agio. Ma una Liù che "s'allarga" troppo sia vocalmente che scenicamente non è più Liù. La fanciulla, infatti, dovrebbe essere evanescente, quasi come un lieve corpo dalla lieve anima che poi vola via. E come se ne sente la presenza, occorre che se ne senta poi l'assenza.
Tutto questo a Genova non si è né visto né sentito, in una interpretazione stentorea, quasi guerresca della Gamberoni, molto attenta ad evitare le tanto vituperate sdolcinature, ma appariscente all'eccesso.
Registicamente delicatissimo, il ruolo di questo personaggio non è musicalmente particolarmente difficile, ma di grande intensità e un regista cinematografico, oltretutto della portata di Montaldo, deve sapere che gli spettatori a teatro hanno una visione complessiva e da lontano e che non si dispone di una macchina da presa capace di inquadrare Liù in primo piano al momento della tortura, visto che il regista l'ha posta completamente nascosta da un drappello di "giannizzeri" cinesi che l'hanno coperta del tutto, per poi farla svincolare ed apparire a centro scena da piena protagonista al momento del suicidio.
Perché la regia ha esasperato in tal modo un'azione scenica che va trattata con le molle? Me lo sono chiesto, poiché la Liù dell'immaginario collettivo e, forse, anche quella voluta da Puccini non solo è una Liù libera di fare della propria vita un dono pur se schiava, dolce ma non melensa, guerriera ma non aggressiva, coraggiosa ma anche remissiva, ma soprattutto "decentrata" (lei sì, non Turandot!), nascosta, celata, quasi, tra le pieghe dei mantelli altrui. Liù non deve apparire, c'è e basta: non occorre farne la primadonna euripidea tragica a centro scena per sottolinearne la presenza. Dunque, renderla così appariscente così come è avvenuto a Genova, è snaturarla e sovraccaricare una figura che di suo è già perfetta. Il personaggio, porto così registicamente sopra le righe e reso anche vocalmente sopra le righe, da protagonista in pectore è diventata protagonista ingombrante.
Insomma, debutto conclamato della Gamberoni a parte, chapeau alla carriera di Giuliano Montaldo, ma non è detto che la produzione storica di un grande regista cinematografico debba essere per forza una produzione ideale dal punto di vista della regia teatrale.
Riguardo a Calaf, il tenore coreano Rudy Park, la voce, purtroppo è decisamente poco potente, incerta nella zona media, spinta e forzata allo spasimo negli acuti. Ciononostante, il suo Calaf ha goduto di una certa autorevolezza scenica tutta orientale che gli ha giovato. Ma, nonostante la correttezza e la massima buona volontà dell'interprete, la proiezione lasciava a desiderare.
Dal Timur di Mihailo Šljivić ci si sarebbe aspettata maggiore autorevolezza vocale.
Corretti ma non particolarmente coinvolgenti l'Altoum di Max René Cosotti e i Ping Pang e Pong di Vincenzo Taormina, Blagoj Nacoski e Marcello Nardis, che non hanno espresso adeguatamente la perfetta coesione e quella garbata, elegante caratterizzazione che dovrebbe accompagnare il loro agire e le loro movenze.
Su tutti, anzi, sotto tutti, per supportarli al meglio, il M° Giuseppe Acquaviva, alla guida dell'ottima orchestra del Carlo Felice, ha diretto un Puccini scorrevole ma povero di slancio emotivo, in una Turandot genovese che anche musicalmente non ha emozionato a sufficienza ed alla quale è mancato pure un dato fondamentale: l'alchimia degli interpreti fra loro e, di rimando, quella con il pubblico, sia pure plaudente al celeberrimo capolavoro pucciniano.
Natalia Di Bartolo