testo e regia di Emma Dante
Con Carmine Maringola
Produzione: Sud Costa Occidentale-Palermo
Noto, Teatro Vittorio Emanuele, 5 maggio 2010
La Vicaria, Palermo 2 ottobre 2011
Un uomo stregato del mare, con il mare negli occhi e nell'anima, nelle labbra, nel corpo, nelle braccia. La sua vita è ormeggiata ad ancore pesanti, fili da marionetta che lo fanno muovere come un pulcinella, un burattino da guarattella. La storia è quella di un uomo, O'Spicchiato, mozzo dall'età di quindici anni, con la vita dedicata al mare e al lavoro di marinaio che per lui è l'unica esistenza possibile. Il mare è il suo orizzonte, la sua famiglia, padre e madre insieme. Tutto ama del mare, per lui è come una donna che lo ha legato ad un incanto, che gli fa perdere anche i confini di se stesso. Così per questa purezza, per questa ingenuità, finisce per apparire troppo debole, uno squilibrato che crea problemi, un pazzo che dice che il mare è la sua ragazza. È veramente troppo per una nave su cui vige la legge del più forte, dove non c'è comprensione, ma solo derisione, dove non c'è spazio per l'amore, ma solo per una sessualità sfrenata e brutale. Così deve subire le vessazioni dei compagni, le violenze fisiche e psichiche di uomini grossolani che impongono dinamiche dure e spietate.
Lo spettacolo è anche un gioco con il tempo e contro il tempo, questo ripercorre con la memoria i fatti e le situazioni di quando lui stava sulla nave, e con essa faceva tutt'uno come la polena di un antico galeone.
Ecco che così con un tempismo inaspettato, assoluto, perfetto, il suo tempo sulla nave sembra scadere, allo squillo dei timer posti sulla sua testa come attimi della memoria che riportano ad un inesorabile presente, accade la fine, l'abbandono: O'Spicchiato viene lasciato sulla terraferma dai compagni, incredulo, disperato. Sono passati "esattamente due anni, quattro mesi, tre settimane e cinque giorni", ma è un tempo che si è fermato lì, che si riavvolge su se stesso, come un orologio impazzito. In questi ricordi si consuma un'esistenza sconsolata, solitaria.
Un paradosso della vita e del destino, un cannocchiale rovesciato, la terra è solo un'illusione, forse non esiste, lui vede sol quel che vuole, lo sguardo è qualcosa di più complesso, e gli occhiali sono un modo per ribadire come la realtà interiore può essere più vera della realtà.
Così gli occhiali, filo conduttore del trittico sulle marginalità, di cui lo spettacolo fa parte, diventano un paravento che da simbolo di inferiorità, di isolamento, si può tramutare in possibile via di fuga, da una realtà troppo malvagia, in una in cui si rivendica il valore dell'interiorità, di una realtà parallela che è capace di guardare molto lontano, all'infinito.
Bravissimo Carmine Miringola, solo sulla scena, ma capace di dare vita a personaggi diversi: il capitano, compunto e grottesco con il suo sedere all'in fuori; il compagno di lavoro, volgare e sguaiato con le sue gambe aperte a squadra. Si ha la sensazione di stare su una nave, il movimento incessante che la regia della Dante imprime ai personaggi è frenetico, senza pause, probabilmente tende a distrarre dalla liricità commossa di questa storia, consente però di apprezzare la qualità artistica dell'attore.
Filippa Ilardo
NOTO (gi.gi.).- Per questa Acquasanta, prima parte della "Trilogia degli occhiali", dove le figure che vi compaiono oltre che scimunite sono anche mezze cecate, Emma Dante ha costruito una sorta di Macchina celibe, forse nel segno di Duchamp o di Picabia. Ben visibile sin dall'inizio quando il pubblico prende posto in sala e nei vari ordini di palchi del Teatro Vittorio Emanuele e individua sulla scena un personaggio sulla prua d'una barca, somigliante ad una polena degli antichi galeoni. L'uomo gesticola, si esprime in dialetto napoletano, la lingua ormai adottata dalla Dante ( "Perchè è a Napoli – dice in un incontro pomeridiano - che mi offrono il lavoro) e scopriremo che trattasi d'un mezzo mozzo, allontanato dalla ciurma e dal capitano per il suo strano modo di essere. Per alcuni versi somiglia a quel Pianista sull'oceano di Tornatore ricavato dal Novecento di Baricco, perché dopo aver scoperto attraverso quelle acque salate e benedette l'infinito e le stelle, lui non sarebbe mai sceso a terra dalla nave. Adesso, quasi per una sorta di coazione a ripetere, s'è inventato quel giocattolo e sulla sua testa pende una sorta di lampadario formato da una trentina di timer luccicanti, pezzi di memoria disposti come uccellini a varie altezze, legati tutt'intorno ad una ruota di bicicletta duchampiana. Poi per simulare procelle e tempeste si è stretto le caviglie e i fianchi con tre corde legate in alto ad una trave, scorrevoli su e giù tramite carrucole, avendo alle estremità come contrappeso tre piccole ancore metalliche che assecondano i movimenti di Carmine Maringola che con grande dispendio energetico dà vita per 45 minuti a questo folle e poetico personaggio da sembrare un'autonoma marionetta. Ispira un po' di pena il personaggio quando finge di navigare in mare girando fra le mani un timone di legno o quando grida che senza di lui la nave colerebbe a picco o quando ancora indossa un berretto bianco da mozzo o quello da comandante simulandone le voci, somigliando infine ad un Cristo in croce fra le corde mentre si diffondono le note della canzone Indifferentemente cantata da Mario Abate. Lo spettacolo della Dante, in fase di studio, è fulminante, denso d'ironia in chiusura con quel cartello sbandierato da Maringola in cui c'è scritto "La mia storia d'amore- pena- cosa da soldi" e con alcuni spettatori che lasciano un obolo in un cassetta di legno e salutato alla fine dal pubblico straripante con un mare di applausi.
Gigi Giacobbe