ideato e diretto da Emma Dante
con Elena Borgogni, Sandro Maria Campagna, Viola Carinci, Italia Carroccio,
Davide Celona, Sabino Civilleri, Alessandra Fazzino, Roberto Galbo,
Carmine Maringola, Ivano Picciallo, Leonarda Saffi, Daniele Savarino,
Stephanie Taillandier, Emilia Verginelli, Daniela Macaluso, Gabriele Gugliara
elementi scenici e costumi Emma Dante
luci Cristian Zucaro
direttore di palcoscenico Gabriele Gugliara
assistente di produzione Daniela Gusmano
coordinamento Aldo Miguel Grompone, Roma
coproduzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d'Europa, Atto Unico / Compagnia Sud Costa Occidentale, Teatro Biondo di Palermo, Festival d'Avignon
13 – 22 ottobre Roma, Teatro Argentina 27 ottobre – 5 novembre 2017 Palermo, Teatro Biondo
Altre tappe: 7 – 11 novembre 2017 Catania, Teatro Stabile 12 novembre 2017
Reggio Emilia, Teatro Ariosto 18 – 19 gennaio 2018
Marsiglia, Théâtre Joliette-Minoterie 3 – 4 Febbraio 2018
Bari, Teatro Petruzzelli 6 – 25 Febbraio 2018
Parigi, Rond Point 28 marzo 2018 Trento, Teatro Sociale
Bestie di scena è uno spettacolo breve (50 minuti), conciso, chiaro, profondo, come un apologo di Leonardo Sciascia. Forse il più tosto e personale di Emma Dante, regista ormai che splende di luce propria nel panorama teatrale internazionale. Quando gli spettatori entrano al Verga di Catania, i 12 attori, 6 uomini, 6 donne ( non più 14 per gli infortuni di Emilia Verginelli e Sabino Civilleri) sono già sul palco a fare esercizi di Fitness. Per un po' hanno l'aspetto di persone normali. Poi gradualmente cominciano a spogliarsi. Prima, sui corpi sudati, si tolgono le magliette, poi i calzoni, quindi le scarpe e le calze, infine le mutande e i reggiseni per le donne. Sono tutti nudi adesso e si coprono i sessi con le mani. Sembra un'immagine moltiplicata di Adamo ed Eva di Dürer scacciati dal Paradiso. Ma l'esempio sarebbe troppo semplice perché gradualmente i 12 assumono l'aspetto di bestie, ricoperti della loro sola pelle, la cui spontanea equazione potrebbe essere, prendendo ad esempio un cane ma potrebbe essere qualunque altro animale, che il cane sta al padrone come l'attore sta al regista (cane:attore = attore:regista). Iniziano i lanci di oggetti sul palco e nessuno emette verbo se non solo guaiti o suoni di parole senza senso. Prima arriva un bidone d'acqua per potersi tutti dissetare e sbuffare in alto il liquido tenuto in bocca che le luci di Cristian Zucaro mettono più a fuoco, poi una lunga pezza di stoffa gialla viene utilizzata come coltre per nascondersi di sotto, mentre lo scoppiettio di numerose bombette-di-capodanno li fanno saltellare come canguri per non essere colpiti o bruciacchiati. Giungono adesso tre palloni, tutti giocano, qualcuna imita i movimenti meccanici d'una bambola parlante, qualche altra esegue un'infinità di piroette e altri ancora fissano sul proscenio degli assi di legno forniti d'una serie di piccoli carillon che puoi trovare nei bugigattoli parigini di Montmartre. E cosa succede se qualcuno volteggia in aria una spada? Certamente vorrà ferire qualcuno, però senza mai riuscirci. Rieccoli adesso tutti a ri-bagnare i propri corpi e scivolare stesi di spalle sullo spazio scenico come dei bob umani. Ogni cosa gettata sul palco serve a creare movimento, dinamismo, velocità, anche se certamente una bestia non potrà mai strizzare uno straccio bagnato e depositare l'acqua residua in un secchio. La voce dei Platters con la loro sempre soft Only you crea un momento di quiete e di serenità. Tutti danzano ma subito dopo giocano a lanciarsi a vicenda straccetti colorati. Adesso piovono dall'alto un'infinità di noccioline americane ed ovvio che ad alcuni viene voglia d'imitare le scimmiette nei loro tipici gesti e nell'atto di mangiarne ad libitum, cui segue una calata di scope che li obbliga a scopare e pulire. Lo spettacolo volge al termine con un lancio di abiti utili a farli rivestire e farli apparire come persone normali. Certamente è grande il potere d'un regista. A volte può plagiare i suoi attori. Penso a Ryszard Cieslak (attore polacco scomparso nel 1990 all'età di 53 anni) esempio vivente delle teorie ipotizzate da Grotowski nel suo Per un Teatro povero che fuori dalla scena -quando lo vidi a Venezia in una Biennale del 1975 interprete di Apocalypsis cum figuris- fumava 80 sigarette al giorno ed era un ammasso di tic e di insicurezze esistenziali, Penso anche al Teatro della Crudeltà di Artaud e a quello dell'immedesimazione di Stanislavskij e al suo epigono statunitense Lee Strasberg le cui teorie hanno fatto andare via di testa alcuni attori rimasti chiusi nei loro personaggi. Credo non sia il caso di Emma Dante e delle sue Bestie di scena. Gigi Giacobbe L'ESISTENZA CORPOREA E IL SUO DISAGIO Larve, bacilli, vuoti a rendere, carcasse 'animate'? Come considerare questa vice-umanità sussidiaria che si avvicenda, perseguita, strattona, solidarizza in "Bestie di scena"? In cui la cifra stilistica di Emma Dante (pur tentata dall'autocitazione, dalla reiterazione stilistica che rischia di farsi 'maniera') sembra ispirarsi, per attrazione degli opposti poetici, alle "raffinate, straziate, pezzenti" reverie della "morte borghese" (immaginata quasi per animate fototessere dal genio di Pina Bausch). E non più al 'degrado' umanitario, circondariale, ridotto alla grottesca maschera delle tipologie del sopravvivere Mpaliermu: preferibilmente relegate ai lastimi, mottetti, languide oscenità di un'indeterminazione sessuale che (memorabile il coro della sua "Medea") si rannicchia in posture bistrate e bistrattate di femmenielli, promiscue vittime di Edipo e maschi evirati di "fallo e di pensiero". Per antropiche sequenze di aggregazione, ripulsa, flussi e deflussi "armonizzati nel disordine" rimandano – così a noi pare - a un'ancestrale, misterica allegoria di solitudini contigue alle "monadi" – tuttavia interdipendenti nel dare e/o ricevere primario conforto e incattivita cattiveria. Angelo Pizzuto
L'immanenza terrena è affannata, irredimibile, lontana da inesistenti paradisi. Lo dimostrano i corpi di Emma Dante, esposti con allegorica suggestione in "Bestie di scena", spettacolo inaugurale della stagione al Teatro Argentina di Roma.
Secondo un preciso rituale di "teatro da attivare, da scaldare, da mettere in moto", prima che la 'quarta parete' riconsegni alla messinscena il suo convenzionale argine di 'quarta parete', mentre il pubblico entra in sala, gli interpreti, già disparsi nello 'spazio' di esibizione, si concentrano, si coordinano, alternano ritmi di mimica a plastiche sospensioni quasi statuarie, disponendosi lungo assi e coordinate cartesiane di "geometrica imperfezione". A platea ormai colma, ciascun attore provvede all'auto vestizione e rivolgere indarni sguardi agli astanti, come avvolti da una luce cromaticamente accesa ma neutra e gelida. Ammesso (e non concesso) che esista -per loro- un "donde", un "altrove", una "dimensione" di provenienza (sia essa banalmente amniotica o metafisica), verso cosa si addentrerà questa "nuova colonia" (e cito volutamente un titolo pirandelliano) di creature spaurite, smarrite ma non rassegnate all'immoto, al catatonico, alla paura paralizzante cui si sta rassegnando gran parte del nostro occidente?
Forse (ipotizziamo, tentando di non intellettualizzare troppo) verso quella vita -nuda, vita- cronica (irriducibile, in-arginabile, in-debellabile) come ebbe a definirla Eugenio Barba (e prima di lui Giorgio Agamben, come giustamente annota l'eccellente collega Giulia Muroni) in una sua sortita di pochi anni fa al Teatro Vascello di Roma. Intendendo con ciò quell'indefinibile ed ambiguo stato di natura (e vulnerabilità) che precede – di tanti milioni d'anni - l'altrettanta sfuggente, ambivalente condizione della comunità civilizzata, per mezzi di cultura, politica, patti sociali (sempre in bilico, in spasimo di rivolta - come insegna Camus). I quali, con altre modalità di persuasività ricattatoria e pervasività dell'emulazione, restituiranno la condizione umana - come perfetto testa coda di allettamenti ed 'espulsioni' - ad una nudità indifesa e violentabile, ormai segreta, inconfessabile e camuffabile dalle (corrive, indispensabili) relazioni sociali.
Azionata da un invisibile ma ben percepibile "demiurgo" (che non è il destino, ma la 'scalogna' dell'essere nati, espulsi da un primario nucleo di equa appartenenza - come teorizzava Gorgia da Lentini) la promiscuità dei corpi ("senza storie da raccontare") si catapulta in ricorse, giri in tondo, stremati cammini, mentre i respiri che sgozzano se stessi e, in assenza di orizzonte, gli occhi "che hanno visto l'orrore" vagano come a intravedere di un senso ultimo da dare a quel lungo peregrinare, dopo l'ostracismo da un Giardino dell'Eden mai esistito oppure esistito solo ai fini del campo di sterminio.
Ciascuno dei partecipanti a questa stilizzata, disperata allegoria verso la nullificazione di se stesso riesce poi, come per un residuale sentimento del 'gioco opposto al giogo', a catturare almeno una peculiarità drammaturgica, un tratto distintivo, un friabile (ma non etereo) "volo" di ballerina, spadaccino, scimmietta ammaestrata, pupazzetto da carillon. Avendo per sottofondo o tappeto musicale (e nell'assenza di dialoghi) la "fenditura sonora" dei Platters che – per paradosso e 'memento' dalla condizione umana - gorgheggiano l'ineffabile, epocale Only you.
D'ogni altra salvezza non v'è briciolo di certezza. Come già avvertivano gli automi di Lang in Metropolis, alla vigilia del nazifascismo: vistosa metafora di tutto il 'sonno della ragione' che, per ordine sparso, avrebbe poi reso una perenne, potenziale deportazione (espopriazione dell' essere -morale e materiale) la condizione di chi continuava a scommettere, oltre logiche del profittevole, sulle risorse dell'umanesimo e del libero arbitrio.