di Yannis Ritsos. Regia di Pierpaolo Sepe. Drammaturgia di Francesca Manieri. Costumi di Annapaola Brancia D'Apricena. Disegno luci di Cesare Accetta
Con: Cristina Donadio, Arianna D'Angiò, Luca Trezza.- Prod.: Fondazione Campania dei Festival- Napoli Teatro Festival Italia in Coproduzione con Fondazione Salerno Contemporanea, Teatro Stabile D'Innovazione
Parco Archeologico di Pausilypon-Teatro grande 8-9 giugno 2012
Usciti dalla Grotta di Siano si arriva facilmente attraverso una stradina alla villa di Pausilypon, (che vuol dire "Riposo dagli affanni", mai nome fu più azzeccato) quasi a strapiombo sul mare in quella parte del promontorio di Posillipo formato da rupi di tufo giallo ricoperti di artemisia, ginestra, violaciocca e lentisco, con in faccia agli occhi l'isolotto di Nisida. Proprietario della villa era Publio Vedio Pollione, un cavaliere romano, pure controverso personaggio politico del periodo augusteo (nessun riferimento a personaggi odierni) che alla sua morte (15 a.C.) la lasciò allo stesso Augusto che la ingrandì occupando uno spazio che va da Marechiaro alla cala di Trentaremi. La villa era dotata d'una sorta di agorà e d'un teatrino romano di foggia greca, che gli amministratori partenopei hanno pensato bene di restaurare per renderlo fruibile per la 5ª edizione del Napoli Teatro Festival. In questa rinata location, che molti napoletani sconoscono, Pierpaolo Sepe ha messo in scena in forma quasi oratoriale un testo "funambolico" di Yannis Ritsos, uno dei maggiori poeti greci del '900 e cantore d'un mondo mitologico che rivive perennemente nei suoi lavori. Testimoniato da questa lunga poesia La casa morta, pregna di atmosfere classiche, interpretata da una carismatica Cristina Donadio in stato di grazia, quasi un'Elettra dei nostri giorni, ammantata da un drappo rosso magenta, che tra squilli di telefonini, suoni di campane, assordanti rumori di segherie, cantieri edili e traffico cittadino, testimonia il dramma di chi amando il padre (Agamennone) trama col fratello (Oreste) per far fuori la madre (Clitennestra) e il suo amante (Egisto). Certo sono molto più soffuse queste aure di morte e di sangue, seguono un ritmo più intimista, labirintico e si dileguano in un luogo-non-luogo che non è più una reggia ma una casa spoglia, nuda e inquietante abitata da un'altra sorella, la brava Arianna D'angiò ( non si capisce se nei panni di Crisotemi o Ifigenia) che non profferisce mai verbo, ma che attraverso i suoi movimenti astratti o di danza spasmodica, esprime un dolore e una sofferenza immanente, un pathos che si perpetuerà per millenni. C'è un terzo personaggio in questo poetico spettacolo ed è quello del messaggero in giacca e cravatta (Luca Trezza) che porta notizie, forse quelle di Menelao, le cui parole volano nel vento andando ad infrangersi su quella lapide spoglia di Ritsos, nel cimitero di di Monemvasia, scarmigliato dal vento perenne e dagli sbuffi salmastri.
Gigi Giacobbe