di Annibale Ruccello,
regia di Arturo Cirillo
con Arturo Cirillo e Monica Piseddu
produzione Nuovo Teatro Nuovo di Napoli in collaborazione con Amat
Teatro Comunale di Casalmaggiore (Cr), gennaio 2008
MESSINA (gi.gi.).- Le cinque rose di Jennifer è il primo lavoro di Annibale Ruccello. Quando lo scrisse nel 1980, in italiano e napoletano, calandosi nel ruolo del titolo, Ruccello ha 24 anni e sei anni dopo, prima d’andarsi a schiantare contro un’altra macchina rimanendo ucciso, lo riprenderà con una scenografia più elegante, meno kitsch dell’esordio. Arturo Cirillo, napoletano verace, da tre anni ne ha fatto un cavallo di battaglia, approdando adesso con successo nella Sala Laudamo dove resterà in scena sino a domani pomeriggio, vestendo i panni del protagonista e curandone la regia. E’ uno spettacolo duro, umido, sulfureo, come possono essere i Quartieri spagnoli e Scampia, che si tinge di giallo per via d’un killer che ammazza in quel ghetto travestiti e femminielli lasciando sopra i loro corpi stecchiti cinque rose rosse. La notizia data dalla radio Cuore libero, che trasmette canzonette e messaggi di giovani innamorati, non preoccupa più di tanto Jennifer, anche se al suo primo apparire in abiti femminili e lunga parrucca nera nel suo monolocale tappezzato tutto a fiorellini diversi, dalle pareti al paravento al letto al resto degli arredi, reca in mano quegli stessi fiori del comunicato radio. Jennifer ha altro per la testa. Pensa al suo Franco, un ingegniere di Genova che dovrebbe telefonargli, dargli attimi di gioia e allontanarlo per un po’ dalla solitudine e dalla depressione. Il “Telefono” che squilla a più riprese per le chiamate di gente che sbaglia numero e la “Radio” con le canzoni di Mina e Patty Pravo in particolare, ma anche L’appuntamento della Vanoni, Quattro vestiti di Milva, Addò sta Zazà di Gabriella Ferri, secondo un elenco in appendice del testo rigorosamente rispettato da Cirillo, costituiscono gli oggetti cui s’aggrappa lo sventurato protagonista, allo stesso modo quasi del personaggio femminile di La voce umana di Cocteau che aggrappata al telefono non vuole staccarsene per non vedere sparire per sempre l’uomo amato. Anche la presenza di tale Anna di Monica Piseddu ( e poco importa se è una vera donna e non un travestito come nell’originale), che ad un tratto s’affaccerà nella sua stanza, sembra essere solo un doppio di Jennifer, un fantasma cui aggrapparsi prima della sua tragica fine.
Gigi Giacobbe
Alla fine de Le cinque rose di Jennifer di Annibale Ruccello nella messinscena firmata e interpretata da Arturo Cirillo l’applauso arriva caloroso, intenso, e a tratti liberatorio. Fuori dai denti le prove d’attore di Arturo Cirillo e Monica Piseddu sono sublimi e mostrano quanto vero e sconvolgente sappia essere il teatro quando è ‘fatto’ con intelligenza e cuore.
Il testo di Annibale Ruccello che rivelò l’autore napoletano alla scena nazionale racconta di Jennifer, della sua fame di amore, della sua solitudine che non ha via di scampo se non nella morte. Le cinque rose del titolo sono il segno che un serial killer lascia sulla scena dei suoi delitti, compiuti nell’ambiente della prostituzione e che stanno terrorizzando l’improbabile quartiere ghetto di femminielli nella vecchia Napoli.
Il sipario si apre sulla stanza in cui vive Jennifer, travestito napoletano. La sua camera, dai toni floreali in stile inizio anni Ottanta, a metà fra casa e alcova, si perde nel buio del boccascena, un punto di luce in un’oscurità che opprime la vita piccola piccola del travestito.
Non ci vuole molto per capire che ciò che accade in scena non è reale, bensì è la proiezione della tristezza e angoscia esistenziale di Jennifer. La vita di Jennifer è scandita dalle notizie che arrivano dalla radio sui delitti del serial killer e dalle canzoni di Mina, Patty Pravo, Milva. Jennifer attende la telefonata del suo Franco, un ingegnere di Genova conosciuto in discoteca. Nella casa alcova di Jennifer irrompe Anna, un altro travestito, ma non si fatica a capire che anche questo personaggio finisce con l’essere il doppio di Jennifer.
Arturo Cirillo, nel doppio ruolo di regista e attore, tiene le fila del racconto con una precisione assoluta, riesce a dare corpo al testo di Ruccello esaltando il sospetto che quanto accade non sia reale, ma la creazione della mente di Jennifer.
Si assiste allo spettacolo con una partecipazione assoluta, pian piano lo spettatore entra nella vicenda, si affeziona alla straziante tristezza di Jennifer, soffre con lei. In platea la tensione è ai massimi quando un’ombra dietro la porta d’ingresso della casa del travestito fa saltare più di uno spettatore sulla poltrona.
Arturo Cirillo è perfetto, è vero in ogni gesto, nel suo essere prigioniero. Lo spettatore lo spia con compassione, ossia soffre con Jennifer, soffre nel suo cambiarsi d’abito per attendere il suo Franco, soffre quando la cornice della foto dell’uomo si svela vuota, quando apprende che l’attesa della telefonata dura da tre mesi. Monica Piseddu è protagonista a suo modo insieme a Cirillo, regala l’immagine speculare di quella solitudine che non ha via di scampo se non nella morte ed è intensissima nel disegnare una femminilità sofferta, rincorsa e desiderata.
Nicola Arrigoni