scene dal romanzo di Han Kang
Regia Daria Deflorian, adattatrice del testo con Francesca Marciano
Co-creazione con Daria Deflorian, Paolo Musio, Monica Piseddu, Gabriele Portoghese
Aiuto regia: Andrea Pizzalis. Scene: Daniele Spanò. Luci: Giulia Pastore
Suono: Emanuele Pontecorvo. Costumi: Metella Raboni
Consulenza artistica nella realizzazione delle scene: Lisetta Buccellato
Collaborazione al progetto: Attilio Scarpellini
Direzione tecnica: Lorenzo Martinelli con Micol Giovanelli
Stagista assistente: Blu Silla per INDEX Valentina Bertolino, Elena de Pascale, Francesco Di Stefano, Silvia Parlani. Comunicazione Francesco Di Stefano
Produzione: INDEX in coproduzione con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale; La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello in corealizzazione con Romaeuropa Festival, TPE – Teatro Piemonte Europa, Triennale Milano Teatro, Odéon-Théâtre de l’Europe, Festival d’Automne à Paris, Théâtre Garonne, Scène Européenne – Toulouse con la collaborazione di ATCL / Spazio Rossellini, Istituto Culturale Coreano in Italia con il supporto di MiC Ministero della Cultura
Le fotografie sono di Andrea Pizzalis
Prima assoluta dal 25 al 27 ottobre 2024 all’Arena del Sole di Bologna
E se invece di sognare sangue e scene truculente rifiutando Yeong-hye nei giorni successivi ogni tipo di carne, diventando di fatto vegetariana, al punto d’avere forti contrasti col marito, compresi sorella e cognato, avesse invece sognato d’aver avuto un rapporto sessuale gratificante col suo migliore amico o con un tizio qualunque, cosa avrebbe fatto il giorno dopo? Avrebbe lasciato il marito per cominciare una nuova storia d’amore o sarebbe rimasta in casa a fare la brava mogliettina? Ecco perché credo che la storia raccontata da Hang Kang, (vincitrice del Premio Nobel per la letteratura 2024) nel suo romanzo La vegetariana, adattato e messo in scena da Daria Deflorian, riservando per sé il ruolo della sorella, risulti troppo semplice, un surrogato quasi delle teorie di Sigmund Freud raccolte nella sua opera forse più famosa, che s’intitola L’interpretazione dei sogni, dove in sostanza il padre della psicanalisi teorizza che tutti i sogni sono desideri. In entrambi i casi, credo, che non si prenda una decisione così drastica da sconvolgere la propria vita e di coloro che ti sono vicini. Ed è per questo motivo che mi piace inquadrare il romanzo e la raffinata messinscena della Deflorian come una storia surreale alla maniera di tanti film di Luis Buñuel, dove accanto ai fatti narrati appaiono allucinazioni, sogni e fantasmi che rendono oltremodo verosimile e intrigante lo spettacolo visto in prima assoluta in un’Arena del Sole sold out e molto plaudente alla fine. La scena di Daniele Spanò, interamente vuota, illuminata solo da un neon e dipinta con colori tenui che vanno dal grigio all’azzurro con una lieve campitura verde pisello, sarebbe piaciuta a Rothko e pure ad un artista zen, raffigura un ampio salone con due usci uno dei quali immette nel bagno. Solo la vegetariana ha un nome, appunto Yeong-hye, cui dà vita una dolente e quasi anoressica Monica Piseddu, mentre gli altri tre personaggi vengono indicati dal grado di parentela: Gabriele Portoghese è un marito sconcertato per ciò che sta vivendo la moglie; Paolo Musio è un cognato esaltato per ciò che può ricavare artisticamente dalla storia del parentado acquisito, mentre la stessa Deflorian è una sorella addolorata, dispiaciuta per la drastica decisione presa da Yeong-hye. All’inizio il marito è incredulo per ciò che sta vivendo, nel vedere dopo quasi cinque anni la sua compagna che mai era andata fuori di testa, svuotare adesso, dopo quel sogno, il frigo d’ogni tipo di carne, gettata qua e là sul pavimento, fregarsene del marito se mangia o no, rifiutare di fare l’amore con lui, accettando tuttavia d’essere quasi stuprata una volta su tre quando lui le salta addosso sopra un materasso adagiato in verticale sul muto di fondo e mimare un frettoloso amplesso cui fa seguito un sonno non certo gratificante. Ormai in quella casa in disordine si mangia solo lattuga, spaghetti di soia e zuppa di alghe e si tengono in frigo cereali, peperoncini e agli. Via pure le uova e il latte per una vita che non è vita, diventando un sacco di patate un cibo prelibato per essere cucinato al vapore. “Noi siamo quello che mangiamo”, sosteneva Feuerbach, nel senso che è il cibo a darci l’energia per non morire. Ma la protagonista pare che non voglia morire, vuole solo mangiare come non mangiano gli altri, iniziando una metamorfosi che non piace a chi le sta accanto, in particolare al marito che si separerà da lei. La drammaturgia della Deflorian va di pari passo col romanzo di Hang Kang, suddividendo lo spettacolo d’un solo tempo in tre momenti contigui, di quasi due ore, riguardanti il marito, il cognato e la sorella, inquadrati nei loro appartamenti in diversi momento del giorno e della notte e in più la regista utilizza ciò che ormai è divenuto un vezzo - dopo la messinscena di Quer pasticciaccio brutto di Via Merulana di Gadda ad opera di Luca Ronconi di quasi trent’anni fa al Teatro Argentina di Roma - ovvero quello di far recitare agli attori pure le didascalie dell’opera. Mi piace ancora dire che Monica Piseddu è entrata perfettamente nel personaggio alienato e alienante, quasi che voglia togliersi di torno quando si taglia le vene con un coltello, ma anche tanto viva nelle sue continue nudità, non solo nella vasca da bagno, ma anche quando posa per il cognato film-maker col fantasma del marito accanto, che la dipinge di azzurro e di rosso, con i colori che lui spalma su una lavagna luminosa e che si riflettono sul suo corpo, diradandosi e sbavando sul muro intorno a lei, facendola somigliare ad un fiore esotico per niente peccaminoso. Certo ci sono dei momenti in cui il cognato, anche lui colto surrealisticamente vestito nella vasca da bagno, è tentato di saltarle addosso, ma sono solo alcuni istanti, perché poi il plot, forse solo sognato, volge al termine comparendo i quattro protagonisti sulla scena, ognuno con una vera piantina in mano che deporranno sul proscenio, subissati poi da infiniti applausi molto calorosi. Gigi Giacobbe