di Antonio Calabrò
Regia, drammaturgia, interpretazione di Fausto Russo Alesi
Al pianoforte: Giovanni Vitaletti
Assistente alla regia: Maria Pilar Perez Aspa
Roma, Teatro Piccolo Eliseo "Patroni Griffi" dal 23 aprile al 5 maggio 2013
Palermo o cara, parafrasando Abasino e la 'sua' Parigi del tempo mai più ritrovato. Non avrebbe infatti senso parlare di uno spettacolo come "Cuore di cactus", sofferto, vigoroso monologo di Fausto Russo Alesi, su pagine di Antonio Calabrò, prescindendo dal suo specifico, 'ristretto' contesto socio-ambientale. Che non è(o non è solo), come si potrebbe (sbrigativamente) immaginare, la Sicilia del malaffare, dei racket, della criminalità organizzata; e degli investigatori (magistrati, commissari, giornalisti d'inchiesta) che, sulle tracce di crimini e criminali, hanno perso (o riannodato pure troppo) il bandolo della matassa, della speranza, del supporto statuale, senza di cui 'si resta soli e si muore'.
Morendo, così e talvolta, anche la forza dei palermitani onesti di dare una sterzata alla empietà degli eventi. Si diceva: Palermo. Non esiste 'milieiu', scenario, humus equivalente per il 'diario in pubblico' con cui Antonio Calabrò attraversa quarat'anni di storia infamante. Fossimo a Napoli, dovremmo chiedere lumi al grande Jo Marrazzo o al 'giovane' Saviano; a Catania, l'unico interlocutore immaginabile continuerebbe a chiamarsi Pippo Fava (ed il suo soffocato "Giornale del sud").
Palermo, dunque: animale mitologico e dormiente (sempre in grado di destarsi dal torpore ed esibire le sue 'storie scellerate') nutre infatti una maggiore sventagliata di testimonianze, idealismi, personali scommesse enucleate per oltre trent'anni nella determinazione, nello stare in bilico, nel vivaio giovanile e malpagato del quotidiano "L'Ora": palestra (sotto la direzione di Nisticò) del miglior giornalismo d'indagine coltivato ai tempi in cui questo sventurato paese immaginava che democrazia e articolo21 (della Costituzione) fossero per sempre inattaccabili.
"Cuore di cactus", nel perentorio, accaldato eloquio di Russo Alesi (attore nato con Stein e Ronconi, capace di coniugare Brecht e Stanislawkij nello stesso istante, con prodigioso baluginare di espressività e tonalità vocale) si interroga, al dunque, sul 'perché' di una stagione abortita, anzi 'debellata' dalle mafie; , sulle ragioni (comunque estreme, irreversibili) di abbandonare Palermo per cercare altrove una nuova consistenza di lavoro e di vita. Riflessioni definitive ed amare, attraversate dal tentativo di fare i conti con il proprio tempo, con l'impegno professionale e culturale, con il dramma di chi va via senza rinnegare le proprie radici. Anzi, andandone dolorosamente fiero ed esponendo le stimmate di una 'bruciata' giovinezza.
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Teatro civile nella sua più estensiva accezione, "Cuore di cactus" narra dunque( in misura asciutta, frugale, priva di rimembranze nostalgiche) la storia di un lungo, stoico esilio fortificato da un meccanismo teatrale tanto solido quanto delicato: scabro nella sua scansione lessicale e di grande compostezza espressiva per quanto concerne l'impaginazione scenica. Che, proponendosi in commistione fra 'libro bianco' (raccontato agli astanti) e 'abbecedario teatrale' (da sfruttare al massimo delle sue potenzialità didattiche), si inerpica sul 'dialogo' di note e parole che interviene tra Russo Alesi e il pianista Giovanni Vitaletti. Tutto funziona come a ritroso. Le immagini dei ricordi di Palermo planano per semplice evocazione: la grande torre normanna, il mare ludico, il paesaggio solare e ingannevole, il barocco che cade a pezzi, la Ucciria sempre la stessa. Raffigurati senza disegni o diapositive, con la sola forza (e suggestione) di affabulazione e musica. Mentre le vecchie copie (anastatiche) del quotidiano che non c'è più 'servono' solo da velo pietoso per coprire carogne e cadaveri, come se la storia-patria stentasse a distinguere i giusti dagli infami.
Poi la luce 'vira' di giallo quando si racconta della Sicilia classica e ammaliante, quella che ha 'fatturato' scrittori e poeti del grad-tour: verso una dimensione onirica che è, adesempio, la Sicilia di Goethe ("chiave di ogni cosa"). Poi esaltata dalla Palermo che (negli anni sessanta e settanta) fu accogliente anfitrione di avanguardie artistiche, fermenti intellettuale, musicisti jazz e frenesie del Living. Espressione di un teatro che faceva a pezzi anche le 'anticonvenzioni' di padre-Pirandello. Nemmeno il tempo di gioirne, ed ecco riaffiorare il lungo, luttuoso elenco dello scorno, della collettiva sconfitta: Cassarà, Mattarella, Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino. Caduti per una terra bella e scontrosa, arcigna e incantevole, dannata e accogliente.
Come una maga Circe che si protrae nei millenni, capovolgendosi da mito a dannazione.
Angelo Pizzuto