di August Strindberg
traduzione: Chiara De Marchi
regia: Gabriele Lavia
scene: Alessandro Camera
costumi: Andrea Viotti
con Gabriele Lavia, Monica Guerritore, Mario Pietramala e Giulia Galiani
Roma, Teatro Argentina, dal 8 al 30 aprile 2010
Per l' attesissimo (come recita la locandina) Danza di morte di Strindberg, che riuniva in teatro i da molti anni separati Gabriele Lavia e Monica Guerritore, non c' era in verità una platea sfarzosa e sovraffollata. L' Argentina tardava a riempirsi, ma già si intravedeva la scena di Alessandro Camera che poi, a sipario alzato, si sarebbe rivelata una cartina di tornasole dello spettacolo. Era, quella scena, una tipica immagine «laviesca», da horror vacui. Se si pensa alle didascalie di Strindberg e a ciò che si vede, subito s' intende la distanza che separa il testo dalla sua interpretazione. Nel testo, siamo dentro la (naturalistica) «torre rotonda di una fortezza in pietra grigia». Nello spettacolo, siamo in un super-simbolismo: i due coniugi, di cui sarà rappresentato il venticinquesimo anniversario di matrimonio, non solo sono su un' isola, ma in quell' isola hanno fatto naufragio, e spiaggia e casa si confondono l' una con l' altra. Su una distesa di sabbia sono sprofondati il divano collocato al centro della scena e il pianoforte. A destra c' è l' angolo di Edgar, pieno più dello stesso teatro in cui tutto accade: ci sono un barometro, un pallottoliere, un mappamondo, un cavalluccio, un cannocchiale, una palla rossa e (segnalato anche da Strindberg) un attaccapanni, con tanto di cappotto militare e spadone, da Lavia-Edgar più volte impugnato. A sinistra c' è il ricordo dell' Alice che fu: un' attrice, e dunque un baule da giramondo, uno specchio, una sedia. Non mancano la porta, un po' inclinata; e la finestra che s' affaccia sul mare e sul mondo ai due reclusi negato. Di là proviene una musichetta, di là si sente fuggire la vita che nella torre (o sulla spiaggia) s' è fermata. In che senso questa scena è eloquente? A Roma in questi stessi giorni c' è all' India un altro Strindberg, Pasqua, con la regia di Monica Conti. Come Danza di morte, Pasqua fu scritta nel 1900. Tutti e due i testi, forse come fioretto per il nuovo secolo, sono sorprendentemente buoni. La bontà di Pasqua è implicita in un titolo che non trova nel testo nulla di ironico o antifrastico. Antifrastico, rispetto al titolo, è invece Danza di morte. I due sposi, Edgar e Alice, sono insopportabili a sé e all' altro, eppure stanno insieme da venticinque anni e insieme restano. Se si fa attenzione, si coglie nell' autore un fondo di tolleranza, o di speranza. Alla fin fine ci si può amare anche così. Ma mentre Monica Conti resta fedele alla tradizione dello Strindberg nero, il suo terribilismo concitato è una ghiotta occasione per Lavia di sembrare un naufrago e non esserlo affatto. Allo scenografo è lasciato il peso del naufragio, a lui e alla sua compagna ciò che ne resta di vitale, o vitalistico. Insomma, rispetto al testo l' interpretazione si mantiene oscillante. Se nella Conti c' era una precisa (e discutibile) scelta di campo, qui c' è un pizzico di furbizia in più. Sì, in Strindberg torna il sentimento della fine, atroce ma concupita: ed ecco la spiaggia, la sabbia, i divani sprofondati; ma c' è anche l' uomo di spettacolo: ed ecco il divertimento, gli scoppi di ilarità o ironia, i gestacci, le battute d' improvviso volte in (affettuoso) sarcasmo. Lavia affonda a piene mani, ciò in cui eccelle, in una specie di demenzialità. La Guerritore, cioè Alice, a parte gli sfoghi con il cugino Kurt, le rabbie impetuose, bamboleggia, cammina trasognata, avanza quasi fosse l' attrice che non è stata, morbida come una donna felice. Quando i due separati si riuniscono alla finestra per salutare il mondo, il mondo (la platea) applaude e saluta la loro riconciliazione.
Franco Cordelli