di Pirandello
Adattamento e regia di Carlo Cecchi
Con: Carlo Cecchi, Angelica Ippolito, Chiara Mancuso,
Remo Stella, Roberto Trifirò, Gigio Morra, Federico Brugnone,
Matteo Lai, Dario Iubatti, Davide Giordano. Scene: Sergio Tramonti
Costumi: Nanà Cecchi
Luci: Camilla Piccioni
Produzione: Marche Teatro
al Vittorio Emanuele di Messina dal 19 al 21 gennaio 2018.
I lavori di Carlo Cecchi non passano inosservati. Ne potrei citare a decine. Di autori classici e contemporanei. Tutti intrisi d'ironia mista a sarcasmo, d'improvvisazione e di genialità. Adesso, da quando nel 2004 è scomparso il suo amico Cesare Garboli, Cecchi deve fare tutto da solo, anche di riscrivere e adattare testi tosti come l'Enrico IV di Pirandello, oltre, chiaramente, che curarne regia e vestirne panni tragicomici. E' la terza volta che Cecchi s'imbatte in un'opera pirandelliana. Era successo con L'uomo la bestia e la virtù i cui personaggi indossavano maschere al volto, poi è arrivato I sei personaggi... con la bambina-bambola e Cecchi con bombetta in testa alla Totò e adesso Enrico IV. Che per Cecchi è una maschera un po' bizantina un po' napoletana con cui giocare sin da quando appare in scena circondato dai sui finti consiglieri (Federico Brugnone, Matteo Lai, Dario Iubatti, Davide Giordano) che finalmente saltano tutti quei pistolotti iniziali stranianti e distraenti interminabili. All'inizio il quartetto è dietro le quinte nere d'un fantomatico teatro (le scene sono di Sergio Tramonti mentre i costumi color oro antico sono di Nanà Cecchi), un amarcord forse con Rumori fuori scena dell'inglese Michael Frayn, poi le due strutture girevoli vengono chiuse da una superficie specchiante sul fondo e voilà la stanza del trono con le statue di Enrico IV e di Matilde di Canossa ai lati. Il protagonista non ha nome. Si sa solo che è caduto da cavallo durante una mascherata storica nella quale impersonava Enrico IV di Germania, non quello di Francia, perdendo la ragione. Gli amici lo assecondano e lo sistemano in un castello accudito dai quattro finti consiglieri ai quali rivela, solo a loro, di non avere perso il senno. Secondo Cecchi la caduta da cavallo non gli ha provocato una commozione cerebrale, ma è stato lui che liberamente ha scelto di fingersi pazzo, perché ha capito in che razza di mondo sconclusionato è costretto a vivere e perché ha capito che a disarcionarlo dodici anni prima è stato il suo rivale in amore, il barone Tito Belcredi (Roberto Trifirò) anche lui innamorato della marchesa Matilde Spina (Angelica Ippolito). E per convalidare le sue certezze gioca come il gatto col topo, come colui che socraticamente sapendo finge di non sapere. Diventa una sorta di Amleto che per individuare l'assassino del padre chiama a corte degli attori che recitino un lavoro che sveli i colpevoli. Qui gli attori sono i suoi amici che vengono a fargli visita alla sua corte e con Belcredi e Matilde c'è pure Frida, sua figlia (Chiara Mancuso) con il fidanzato, il marchesino Carlo di Nolli (Remo Stella), accompagnati da uno medico psichiatra (Gigio Morra) per studiare più approfonditamente il caso. E qui Enrico IV nei panni di regista muove le sue pedine come meglio crede, sfoderando Cecchi il suo patrimonio attoriale, innestando musichette ballabili del tipo Noi siamo come le lucciole o ritornelli napoletani, forse improvvisati, ripresi dalla canzone Funiculì funiculà, apparendo ad un tratto, seduto sul suo scranno, come l'immagine alla specchio di papa Innocenzo X dipinto da Francis Bacon. Un modo per trasformare una tragedia in farsa, giocare col teatro nel teatro del teatro, da vero innovatore della scena non solo italiana, tagliando, alleggerendo, modernizzando un testo di tre atti in uno solo di 90 minuti, scritto nel 1921 per Ruggiero Ruggeri che lo portò al successo. Uno spettacolo collettivo, molto applaudito al Vittorio Emanuele di Messina, in cui emerge il talento di Angelica Ippolito e dei suoi comprimari Morra e Trifirò, quest'ultimo infilzato a morte con una coltellata vibratagli da Cecchi, quando cercherà d'accarezzare il viso di Frida, identico dopo vent'anni a quello della madre, e che dopo qualche secondo dirà all'ucciso: «alzati che domani dobbiamo fare un'altra replica».
Gigi Giacobbe