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La forza di un lavoro teatrale si misura, soprattutto, sulla base di una componente: la capacità di poter tradurre un testo drammaturgico in azione scenica, di trasmutare quelle parole affinché suscitino riflessioni nel pubblico. Non esistono ricette, né metodi. Ognuno può perfezionarne uno proprio, che di volta in volta muterà in base alle esigenze che il lavoro richiede. Essenziale, come sosteneva Arbasino nel suo ormai introvabile La maleducazione teatrale, è trarre dal lavoro dell’autore le ispirazioni migliori senza la sciocca pretesa di sostituirvene altre e, per giunta, esterne. Operazione facile se si inscena un’opera che non è la propria. Ma quando avviene l’inverso, come nel caso di Fuori di Nella Tirante, tutto si complica. Perché viene difficile rinunziare alle parole create per l’occasione.
Il tema di questa pièce è quello di una donna, artista compagna e madre di famiglia, che vive in istato di alienazione all’indomani del primo lockdown del 2020 per la pandemia da Sars-CoV-2. Di questo stato d’animo, la protagonista non nasconde nulla. E come in una sorta di rediviva Signorina Else – mutatis mutandis – eccola confidarsi in tutte le sue titubanze, idiosincrasie, sintonie (pochissime quest’ultime) rispetto al quotidiano ed alle sue aspirazioni da artista. Al netto di considerazioni in difesa dell’arte, scagliandosi contro la ingiustificatamente prolungata chiusura dei luoghi di cultura par excellence (teatri, cinema, musei), Fuori è un invito al raggiungimento della consapevolezza, ad esprimersi per ciò che si è e non in base a quello che altri impongono di mostrare.
Lavoro interessante sul piano della tematica, ma che la Tirante non ha rappresentato con lo stesso mordente del quale ha provvisto la sua scrittura. L’impressione è stata quella d’una regia e d’un’interpretazione sussidiarie al testo e prive di prospettiva.
Sotto il profilo attoriale, Nella Tirante è espressiva. Occhi e viso comunicano molto, mimicamente riempie il palco senza lasciare spazi vuoti (capacità comune a pochi). Ma sul piano della battuta: ecco, qui vien fuori l’eccesso di riguardo verso la parola scritta. E la recitazione si è tramutata in una lettura condotta senza il testo innanzi, ma comunque lì presente.
Per trasformare una battuta scritta in azione scenica è necessario un suo stravolgimento senza, però, tradirne il contenuto. Operare tagli, voltare un discorso in sguardi e gesti, lavorare sulle pause (come ricordava Stanislavskij). Così facendo, è vero, ci si allontana dal dettato scritto, ma si acquista in efficacia. In parole più semplici: si scrive lo spettacolo partendo dal lavoro drammaturgico.
Occorre coraggio, per un autore, nel vedere le proprie parole assumere forme diverse rispetto a ciò che immaginava. Ma questa è la forza dello spettacolo. Una forza che, purtroppo, è mancata alla regia e di conseguenza all’interpretazione di Nella Tirante.
Fuori, per l’appunto. Un invito alla consapevolezza, anche dal punto di vista teatrale per repliche future.

Pierluigi Pietricola