adattamento e regia di Maria Grazia Cipriani
scene e costumi di Graziano Gregori, suoni di Hubert Westkemper, luci di Angelo Linzalata e Fabio Giommarelli
con Elsa Bossi, Nicolò Belliti, Giacomo Vezzani, Andrea Jonathan Bertolai
voce recitante Dario Cantarelli, produzione Teatro del Carretto
Teatro Giglio di Lucca, dal 9 al 11 dicembre 2011
visto al Comunale di Casalmaggiore, 6 dicembre 2012
Forse è sbagliato andare a teatro con troppe aspettative, forse è sbagliato affezionarsi alle compagnie e alle estetiche. Questo non mette al sicuro dalle delusioni e forse preclude la possibilità di sorprendersi. Questa la riflessione all'uscita di Giovanna al rogo del Teatro del Carretto. Il Teatro del Carretto è gruppo dalla solida continuità estetica, Maria Grazia Cipriani e Graziano Gregori vanno in cerca del'indicibile, del rimosso, del nascosto e lo fanno frequentando la crudeltà – laddove questa è portare fino in fondo gesti e parole come voleva Artaud -, l'offesa del corpo e la vessazione dell'anima, quasi a ribadire ogni volta la fragilità umana ma anche la sua infinita preziosità. Questo l'orizzonte di un agire poetico e scenico mai banale, mai improvvisato e lo si dice a parziale giustificazione di questa Giovanna al rogo che non convince, che non va oltre la giustapposizione – più o meno pretestuosa – di una storicità evocata e un'attualità suggerita. Graziano Gregari costruisce una prigione/sala di tortura in cui Giovanna d'Arco (Elsa Bossi) attende la sua condanna. In quello spazio Giovanna D'Arco difende la sua missione politica e religiosa, lo fa sotto i colpi della tortura infertigli da tre carnefici Nicolò Belliti, Giacomo Vezzani, Andrea Jonathan Bertolai che incarnano – parlando inglese – ora l'Inghilterra, ma anche la Chiesa e i suoi inquisitori. Nella mimica, nel porsi di Elsa Bossi c'è più di una citazione mimetica al capolavoro di Dreyer. Nelle apparizioni di madonne e cristi, di drappi e lance dai pertugi di quella cella insanguinata c'è tutta l'estetica figurativa del Carretto, a iniziare dagli dei urlanti dell'Iliade o dall'indimenticato armadio di Biancaneve. Giovanna al rogo è racconto narrato, è recupero della santità, della missione divina, del sacrificio della Pulzella d'Orlèans affidato a una parte registrata in cui la voce del padre inquisitore è di Dario Cantarelli. Il registro del raccontato si traduce nella scena di Gregori e nella drammaturgia attoriale di Maria Grazia Cipriani in una violenza sul corpo, in una tortura in cui la visionarietà di Giovanna cozza contro la brutalità sanguigna dell'offesa sul corpo. Tutto ciò accade in maniera più o meno costante in un alternarsi di situazioni che rischia la ripetitività e in cui la biografia di Giovanna d'Arco fatica a farsi metafora di una denuncia al potere, alla violenza, ma anche a certa misoginia, alle convenzioni di una sessualità dei ruoli e del rimosso non bastano e non sono chiari e incisivi. Ed è proprio la drammaturgia in sé con inserti di musiche contemporanee e una comicità grottesca che non esce a non rendere chiara la visione che Cipriani/Gregari vogliono dare della loro Giovanan D'Arco. In tutto ciò Elsa Bossi gioca un ruolo di icona parlante, di disperata fisicità, ma non sa dare la giusta e sofferta carnalità alle parole. Giovanna al rogo del Teatro del Carretto nel suo svolgimento dimostra di essere rimasto un'intuizione, di non avere sviluppo, ma di perdersi nei confini sicuri e compiaciuti di una prassi estetica che cerca di sostenere un'idea di partenza non sviluppata o che forse non ha lievitato come si sperava.
Nicola Arrigoni
LUCCA - A seicento anni dalla nascita, la vicenda (la leggenda?) della Pulzella d'Orleans è, in Francia, oggetto di celebrazione, e materia viva del contendere, fra appropriazione (Fronte Nazionale) e dubbi sulla sua stessa esistenza. Chi semina vento è lo storico François Ruggeri, nel volume "Giovanna d'Arco, lo stratagemma", dove si dichiara la fanciulla mai vissuta se non per motivi politici. Uno stratagemma, appunto.
Sullo stesso tema, ma regalmente indifferente alla bagarre, Maria Grazia Cipriani ci offre uno dei suoi lavori più potenti e sinceri per il Teatro Del Carretto. Lo è, "Giovanna al rogo", visto al Teatro del Giglio di Lucca, non per scansione didascalica, ma per essere riuscita, la regista, a condensare il grumo palpitante della sua scabra drammaturgia, "rubata" agli atti d'archivio del processo che guidò a morte la giovane. Il gioco teatrale è affidato alla voce, registrata, dell'Inquisitore Dario Cantarelli, e, in scena, ad un ruvido terzetto di carcerieri inglesi: Nicolò Belliti, Andrea Jonathan Bertolai, Giacomo Vezzani. Assai concreti per sporca violenza e scatenamento tribale, primitivo, i tre si scambiano il compito della tortura e della persecuzione: sono messaggeri feroci di una incomprensione dell'altro, di un rifiuto del diverso e del sottoposto, che centra visione e fatti del nostro quotidiano.
L'evocazione "de spiritu" dell'eroina trova uno slancio che tocca il sacrificio in una memorabile, emozionante Elsa Bossi. Presenza pudìca e femminea, contrapposta al turbamento virile e sensuale dei suoi carcerieri, l'interprete è magistrale nel dare anima, corpo e piena credibilità alla sofferenza, interiore e reale, della Pulzella, al suo tormento per essere ormai sola, perduta, abbandonata anche da quel Dio con il quale ha uno straziante, sublimato dialogo.
L'azione si condensa in un emiciclo legnoso, uno spazio chiuso da Graziano Gregori (scene e costumi), esplorato per traiettorie di pulsione viscerale e non per volontà. Emergono a tratti, dalle pareti, oggetti, statue, elementi e il simbolo stesso del rogo, un fantoccio che s'incendia, e chiude una pagina, vera, di storia.
Con questo, il Teatro del Carretto centra l'ultimo di decine di titoli, maturati in un trentennio e in una totale autonomia di cura e metodo, che conosce ciclicità e ritorni compositivi ma, soprattutto, l'urgenza di azzerarsi e ricominciare ogni volta. Anche se non è facile rintracciare nei lavori di Maria Grazia Cipriani vicinanze a modelli di teatro precostituiti, è suo un mosaico di cifre stilistiche perfettamente riconoscibili. L'essenzialità delle scelte (gestuali, espressive, di luce, d'ambiente), che nutre ogni sua messa in scena, costruisce la teatralità non per quotidiana routine o sterile contemplazione sperimental-estetica. Invece i suoi allestimenti, la sua devozione al "mestiere", si esprimono in una categoria a sé stante, ma di grandissimo pregio: emotiva per adesione ai temi trattati; elaborata ed "arte-fatta" perché fatta con viva artigianalità; vicina, ma non prostituita, né precostituita, o, peggio, precotta, al sapere e al sentire, vero, più che mai urgente, del pubblico.
Ermanno Romanelli