di Gianni Clementi
con Nicola Pistoia e Paolo Triestino
regia Nicola Pistoia
produzione Neraonda
Roma, Teatro della Cometa, dal 11 dicembre 2007 al 6 gennaio 2008
Teatro Brancati, Catania dal 12 al 29 gennaio 2012
CATANIA (gi.gi.).- Paolo Triestino e Nicola Pistoia sono due formidabili attori, due "caratteri" come si dice in gergo, in grado di far ridere, commuovere e riflettere le platee più refrattarie. E' successo con Ben Hur, in cui i due affrontavano i temi dell'immigrazione e del razzismo, succede adesso con Grisù, Giuseppe e Maria, con la scrittura sempre felice di Gianni Clementi, in cui Triestino veste i panni del parroco della Chiesa Santa Maria Assunta di Pozzuoli e di Pistoia (che cura pure la regia) quelli del sagrestano Vincenzo dal passo claudicante e con la mano destra di legno coperta da un guanto nero o bianco. I fatti si svolgono sempre in una realistica sagrestia ( la scena è di Francesco Montanaro, i costumi di Isabella Rizza) mentre la realtà esterna è quella d'una Italia analfabeta, povera e passionale degli anni '50 che si esalta per le giocate d'uno Skoglund o d'un Lorenzi dell'Internazionale o per le vittorie ciclistiche al tour de France di Coppi e Bartali. Questo sacro luogo diventa una sorta di agorà privata per la donna Rosa di Franca Abategiovanni e la donna Filomena di Sandra Caruso, due sanguigne sorelle napoletane, inguaiate e ingravidate non dai rispettivi mariti che se ne stanno a lavorare nelle miniere belghe di Marcinelle, ma da occasionali rapporti senza coinvolgimenti sentimentali, regolarmente confessati a quel sant'uomo che è il Don Ciro di Triestino che riesce sempre a mettere una pezza ai loro problemi. La tragedia belga causata dal grisù, il gas che ucciderà l'8 agosto del 1956 ben 120 italiani, compresi i mariti di quelle due donne, è solo sfiorata, ma è sufficiente per far riflettere gli spettatori nell'intervallo del primo tempo. La commedia prosegue poi con ritmi da farsa a lieto fine con l'entrata in scena del farmacista don Eduardo di Diego Gueci e si conclude felicemente grazie agli escamotage del geniale parroco che salverà la reputazioni delle due donne e con un piccolo dramma nel finale quando il sagrestano, dopo aver realizzato il suo sogno di dire messa, metterà un piede in fallo sul bordo del proscenio e cadrà rovinosamente sulle gambe d'una signora in prima fila, fortunatamente, senza essersi fatto male, salvato forse da quella trinità del titolo e da tutto il pubblico del Teatro Brancati che non la smetteva di applaudire questo spettacolo che verrà replicato sino al 29 gennaio.
Gigi Giacobbe
Gianni Clementi ha avuto successo con due commedie, Cappello di carta e Vecchia Singer, che guardano all'Italia di ieri e che usano il dialetto. Questa volta, con Grisù, Giuseppe e Maria, in scena al Teatro della Cometa di Roma fino al 6 gennaio, rappresenta l'Italia anni Cinquanta a Pozzuoli e usa il napoletano al posto del prediletto romanesco. La pièce si svolge nella sagrestia di una chiesa il cui parroco è al centro di tutto ciò che succede nel paese. Un paese che l'autore coglie attraverso tre personaggi, due sorelle, l'una madre di cinque figli e con un altro in arrivo, l'altra zitella, ma con voglie per nulla represse che finiscono con un'imprevista gravidanza, e un farmacista dongiovanni. Don Ciro, il parroco, è un prete vecchio stampo, lo affianca un sagrestano zoppo e senza una mano, incapace di cantare l'Alleluja ma non la canzone Guaglione.
La commedia ci dà, nel primo tempo, un ritratto gustoso di una Italia irrimediabilmente lontana da quella di oggi, dove il parroco era una figura chiave della vita sociale e dove tutti ricorrevano a lui per risolvere i problemi. Problemi che possono essere una raccomandazione per un figlio, ma anche le nausee di una zitella incinta, costretta a nascondere il suo stato. Dal primo al secondo tempo la commedia di costume, pur esile, si trasforma in farsa, non solo nel personaggio del sacrestano, ma soprattutto nella situazione delle due nascite, l'una legittima, l'altra illegittima e con un padre assolutamente imprevedibile. La commedia, che cita quasi marginalmente la tragedia dei minatori di Marcinelle, risulta alla fine un canovaccio per interpreti in grado di supplire con il loro estro ai suoi limiti. Nicola Pistoia, sagrestano troppo macchiettistico, le dà come regista ritmi adeguati, grazie soprattutto a Paolo Triestino, parroco giustamente agitato, e a Crescenza Guarnieri che al suo personaggio di madre dà una verità umana singolare. Sandra Caruso, la zitella trasgressiva, e Antonio Conte, il farmacista seduttore, completano bene il cast.
Giovanni Antonucci