di Vittorio Cielo
regia di Francesco Zecca
con Lucrezia Lante della Rovere
scene di Gianluca Amodia, costumi di Alessandro Lai
luci di Pasquale Mari, musiche di Diego Buongiorno
produzione Fratelli Karamazon (Pierfranceso Pisani, Progetto Goldstein)
visto il 26 ottobre 2016 al teatro Bellini di Casalbuttano (Cremona)
Ci sono spettacoli che non sono indimenticabili, ma che è un piacere seguire ed anzi si offrono come tana o cuccia per chi è in cerca di un po' di nostalgia e rischia di farsi prendere dalla malinconia. E' questo l'effetto di Io sono Misia, il racconto dolente e doloroso dell'ape regina dei geni, rievocata da Lucrezia Lante della Rovere, grazie alle parole poetiche di Vittorio Cielo e alla regia di Francesco Zecca. Misia Sert — personaggio realmente esistito — fece del suo salotto di Parigi il punto di riferimento di artisti che fecero il Novecento al suo sorgere: da Proust a Stravinsky, da Nijinsky a Diaghilev, da Coco Chanel a Picasso. Quando il pubblico entra in teatro Misia/Lucrezia è rannicchiata su un'enorme poltrona stile Luigi Filippo in attesa dei suoi ospiti, certa che il suo salotto riaprirà e da lei tornerà Picasso, il nano innamorato di lei, Tolouse, la timida e talentuosa Coco Chanel. Misia di Lucrezia Lante della Rovere con quella parrucca rosso fuoco di sbieco ricorda una delle tante cocotte e ballerine del Moulin Rouge ritratte da Lautrec; il suo è un racconto che si nutre di ricordi e profuma di abbandono. Quegli anni sono definitivamente trascorsi, la sfinge che aiutava gli artisti a partorire la bellezza è rimasta sola, in balia della paura del dolore che annichilisce, in balia della morte. Misia si ritrova prigioniera di quei geni che contribuì a far partorire, che contribuì a sostenere, incoraggiare. Lo scandalo del giovane Nijinsky nell'Après midi d'un faune, piuttosto che la trascinante e disturbante Sagra della Primavera di Stravinsky vengono rievocati con la stessa intensità e inafferrabilità della rivoluzione dell'arte in tutte le sue forme instillata da certi cappellini di Coco Chanel. Tutto ciò avviene in un lungo e ininterrotto flusso narrativo che è flusso di coscienza. Misia è condannata all'eternità, imprigionata nella Recherche di Proust, lei che da viva si trovava già appesa come una santa un po' puttana alle pareti dei musei. La morte, il senso del tempo che scorre, il dolore fanno da contrappunto alla confessione/delirio di Misia che Lucrezia Lante della Rovere gestisce con ispirata correttezza grammaticale, contrappuntata da reale passione d'attrice. E' dolente, buffa a tratti, un po' pietosa in quel suo abbarbicarsi alle parole e alla poltrona, una sorta di animale notturno che esce dai damascati di quella seduta salottiera sproporzionata nelle dimensioni che finisce col renderla un po' bambola abbandonata sulla poltrona del suo salotto cenacolo. In un'atmosfera dalle luci soffuse, nel citare il Bolero, piuttosto che la Sagra, nel donarsi sincero dell'attrice si percepisce il piacere di un racconto che sa toccare le corde del pubblico, essenzialmente femminile — che alla fine contraccambia con calorosi applausi.
Nicola Arrigoni