Un posto, il teatro, dove si sente sempre a suo agio, questo ci dice subito (siamo al teatro Comunale di Vicenza) Lucrezia Lante Della Rovere, da anni impegnata sui palcoscenici diretta da nomi come Albertazzi, Lavia, Missiroli, Ronconi, e Barbareschi, Maccarinelli, Francesco Zecca, con il quale ha avviato un sodalizio continuo e affiatato. Anche l’ultimo spettacolo che la vede in scena da un paio d’anni, “L’uomo dal fiore in bocca”, classico pirandelliano, la vede protagonista nell’adattamento del regista, sovvertendo il meccanismo principale della storia e interpretando la Donna vestita di nero, che va a trovare il marito già deceduto, al cimitero. Ex modella, ha iniziato con il cinema (Mario Monicelli) fino ad abbracciare pian piano tutte le discipline artistiche. Molti infatti i ruoli interpretati oltre che per il teatro, sia per il cinema per la televisione, con registi come Luigi Magni, Verdone, Pupi Avati, e ancora Luca Barbareschi (tra gli altri). Attrice molto brava e duttile, con tanta esperienza, è una persona vera, diretta. Ha pubblicato da qualche mese la sua autobiografia, “Apnea”, dove si racconta a tutto tondo. La incontriamo in camerino, proprio prima di una delle recite de “L’uomo da fiore in bocca”.
In questo adattamento da Pirandello proponi, assieme al regista Zecca, un seguito immaginario di un personaggio appena abbozzato nel testo…cosa ci racconti dello spettacolo?
Che è stata una scommessa, un’intuizione di Francesco Zecca, amico fraterno da molti anni con cui condivido parecchie cose, una grande amicizia che ci permette di parlare di tanti progetti che abbiamo, tante idee. Ha voluto raccontare la storia attraverso la donna vestita di nero, mettere a fuoco il suo punto di vista. In effetti, il protagonista non divide con la moglie il suo stato di malessere. Le stesse parole scritte da Pirandello il regista le ha volute far dire a lei, dando così vita a una riscrittura di un classico. E ha funzionato.
Facendo morire il protagonista, dunque.
Sì, Zecca si è inventato questa cosa e ha messo lei sulla tomba a parlargli, a raccontare. Se vogliamo il personaggio maschile era anche retorico, pedante, lei si ricrea un’identità attraverso le parole di quest’uomo. Vuole vivere immaginando la vita, anche se proprio quello la riporta a lui in una specie di loop dal quale non sa come uscirne.
Cerca però di elaborare il lutto…
Si’, in realtà celebra quest’uomo, lo maledice, lo vorrebbe ancora con sè ma per fortuna si rende conto che la vita è più forte della morte. Come un piccolo germoglio che esce dalle rocce, con quella potenza, riesce a celebrarla, la vita.
Una sfida ardua, coraggiosa, rischiosa portarla in scena?
Beh, si’ anche perché è un testo drammatico, triste, che parla appunto della morte. Rischiosa, si’,nel senso che qualcuno del pubblico potrebbe anche voler mettersi in contatto con certe emozioni che diamo ma qualcun altro magari no. Ma liberatoria, perché è anche una celebrazione di tutte le persone che sono mancate a me e a Zecca stesso. Il teatro è anche questo, la nostra religione, il celebrare tutte le sere un rito, quello che c’è o non c’è più attraverso le parole dei grandi autori.
Il pubblico come reagisce?
Le persone le vedo tutte con i lucciconi agli occhi, del resto si vanno a toccare corde intime. C’è sempre un gran silenzio, attenzione, è sempre un testo poetico, delicato.
Lo riproporrete nei teatri anche il prossimo anno?
Si’, magari nella prima parte della stagione, visto anche il lavoro profondo che abbiamo fatto. Perché poi sarò in scena nei mesi successivi con “La divina Sarah” di Eric-Emmanuel Schmitt, con Stefano Santospago e la regia di Daniele Salvo, sulla celebre Bernhardt.
Parliamo un po’ del tuo libro? Emoziona, colpisce e svela molto, tutto di te.
Io sono una persona sincera, ed essendo un’autobiografia…Non mi volevo piangere addosso ma raccontare me e la mia vita con uno sguardo un po’ dall’alto, rispetto a certi avvenimenti brutti e belli, i genitori, gli uomini che ho amato, con una sorta di accondiscendenza, con uno sguardo di una persona che è diventata adulta. In più sono anche una persona sentimentale. Sono sempre stata raccontata dagli altri, essendo figlia di un personaggio pubblico, adesso volevo dare la mia versione. E avevo voglia di raccontare i miei genitori, della loro gioventù, degli errori che possono aver fatto come tutti i mamma e papà giovani. Uno sguardo di tenerezza, anche di dolore senza compiacermi, senza sottolineare. Racconto le cose come sono accadute in maniera oggettiva. Chi lo legge capisce qual era lo stato d’animo di me ragazzina.
Come sei uscita da dispiaceri, dolori, sconquassi adolescenziali?
Grazie al cielo ci si evolve, pur non essendo più quella ragazzina sono frutto di quei tempi, e di quelli dopo, di cose che non hanno funzionato, di amori falliti. Ma è stato tutto un arricchimento personale.
Ha aiutato anche il debutto nel cinema con Monicelli (“Speriamo che sia femmina”, ndr)?
Sicuramente il lavoro che ho intrapreso, per caso, come racconto nel libro, mi ha permesso un aiuto, è stato come entrare in analisi, avevo tante fragilità e paure da ragazzina, non sapevo nemmeno cosa volevo fare. All’inizio forse non mi rendevo conto di ciò, però avevo capito che questa grande macchina raccontava delle storie, che erano quelle delle altre persone, come le nostre appunto. E piano piano, con grande interesse, studiando, vedendo gli altri, mi sono in qualche modo costruita il mio lavoro, ed è stato salvifico. E’ una delle cose belle del teatro. E’ un mestiere dove mettiamo in discussione tutto, ogni parola che diciamo riguarda noi, qualsiasi storia che facciamo è un lavoro continuo sulla nostra persona. Fare l’attrice mi fa star bene, soprattutto quando lo si acquisisce come sistema di vita. A me piace girare, arrivare in tante città, vedere piccole realtà, persone entusiaste, semplicità. Ogni tanto, certo, ne accuso la vita faticosa.
Difficile farlo nel nostro Paese?
Quello che è difficile è fare quello che si vorrebbe, ad esempio io non ho più voglia di far delle cose in leggerezza, amo lavorare in profondità e questa cosa è catartica.
Hai fatto molto cinema, molto teatro, molta televisione. E’ il mestiere dell’attrice che ti ha scelto o l’hai scelto tu?
La prima delle due. E’ stato un colpo di fortuna iniziare subito con una grande produzione, un bel film, un grande regista, un grande cast. Io allora non sapevo cosa sarei diventata, anche se posavo, facevo la modella, ero molto bellina.
Bella allora e anche oggi, Lucrezia. C’è qualcosa che vorresti fare, qualcosa che manca alla tua carriera?
Sai cosa mi manca? Quello che dicevamo prima. Ad esempio, con un’età, un nome, una notorietà, aver delle difficoltà a fare quello che mi piace. Oppure, ancora, vivere in una città, Roma, dove i teatri non ci sono più, questo mi manca, mi dispiace. Sembra, il nostro, un mestiere in via di estinzione, non so se sopravviverà, ho paura qualche volta. E’ un mestiere che va sovvenzionato dallo Stato, sennò non ce la si fa, è un’arte speciale la nostra.
Teatro e vita, dunque, da vivere a muso duro?
Si’. Il teatro è più difficile rispetto a cinema e televisione, dove per fare un altro esempio, ti portano e ti riportano a casa in auto, si è più coccolati. Qui invece si fa tutto da soli. La gente esce di casa e paga il biglietto, decide, sceglie, si ha un’altra responsabilità rispetto alla tv. Questa cosa ha un valore, un peso che ti dà carica e energia, sacralità. Altra cosa bella di questo mestiere.
Per saper resistere nel tempo, ma anche iniziare, serve più umiltà o più determinazione, durezza?
Forse tutte e due. Umiltà nel senso che non bisogna fare tutto con arroganza e pensare di essere solo ammirati, non funziona così. E’ un mestiere di crescita dove bisogna aggiungere dei tasselli, dove costruisci, non finisci mai. La prova è che quando vedi un grande attore anziano è il risultato di quello che ha fatto. Però serve anche la determinazione, naturalmente.
C’è spazio per tutti nell’ambiente dello spettacolo, come qualcuno afferma?
Dire questo è un po’ retorico, non è che è sempre riconosciuto il nostro lavoro, quindi spazio per tutti no, non direi, c’è anche tanta competizione.
Il talento come si riconosce Lucrezia?
Forse dalla generosità, dal mettersi in gioco, dal non fossilizzarsi in un’immagine. Talento è anche un attore che rischia, che cambia.
In due parole, l’attrice, l’attore cosa porta, cosa racconta allo spettatore?
Ci richiamiamo al talento della domanda precedente: si fa questo lavoro per voler raccontare delle cose magiche, segrete. Una propria poetica che si impara ad avere negli anni: fatta di noi stessi, da noi stessi.
Materia?
Si’, ecco. Materia. Propria.
Francesco Bettin