giovedì, 07 novembre, 2024
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INTERVISTA A SONIA BERGAMASCO - di Francesco Bettin

Sonia Bergamasco. Foto Jacopo Brogioni Sonia Bergamasco. Foto Jacopo Brogioni

Freschissima di uscita del suo libro “Un corpo per tutti. Biografia del mestiere di attrice”, (Einaudi), attrice di grande temperamento, eclettica, diplomata al “Piccolo Teatro” di Giorgio Strehler, e in pianoforte al Conservatorio, regista, Sonia Bergamasco è, riguardo al suo lavoro, introspettiva e ed esaminatrice, con un imperterrito e costante impegno su se stessa che la porta a perfezionarsi continuamente. Ha lavorato, tra gli altri, con Strehler, Carmelo Bene, Massimo Castri, Theodoros Terzopoulos e, al cinema con Marco Tullio Giordana, Franco Battiato, Giuseppe Piccioni, Bernardo Bertolucci, Checco Zalone, ed è stata recentemente in scena una grande protagonista in “Chi ha paura di Virginia Woolf?” di Albee, per la regia di Antonio Latella. In tv la si ricorda anche per la parte di Livia, la fidanzata del “Commissario Montalbano”. Con lei abbiamo voluto approfondire il suo mestiere, che nel libro sviscera così bene, e che resta per certi versi sempre misterioso e naturalmente affascinante. 

In questo tuo libro scrivi che il punto di partenza e di arrivo è il corpo. Come lo spieghi? 
Nello “Zarathustra” Nietzsche scrive “Io sono tutto corpo, e nient’altro”. Il corpo è una grande ragione, una moltitudine unanime, uno stato di pace e di guerra, un gregge e il suo pastore. Per l’attrice, per l’attore, il corpo è lo strumento intero, la miniera delle storie – è un’evidenza. 

Il mestiere dell’attrice è come dici un lavoro sempre in evoluzione e crescita. Dunque, oltre a recitare, “dietro alle quinte” c’è sempre tanto lavoro personale, solitario? 
Portiamo in ogni lavoro la nostra vita al presente, l’esperienza e la forma del nostro percorso. E la dobbiamo coniugare con la storia da raccontare, la forma in cui immergerci per raccontare quella storia. E’un’alchimia e un lavoro d’ascolto profondo. Certo, c’è un lavorìo continuo, costante, necessario, quotidiano. E non tutto è spiegabile, non tutto è quantificabile. 

Gianmarco Chieregato
Sonia Bergamasco. Foto Gianmarco Chieregato

Può, e in che misura, in che percentuale, la bellezza “aiutare” in questo mestiere? 
Se per bellezza s’ intende la cosiddetta “avvenenza”, non saprei. Certamente può schiudere alcune porte. Molte, direi, se il dato fisico si accompagna alla bravura, all’incisività espressiva. Poi però c’è il fascino, che non ha a che vedere propriamente con la bellezza, anzi, può fare luce su una figura non bella, non particolarmente dotata fisicamente, e creare un cortocircuito emotivo indimenticabile. 

Fare l’attrice, scrivi, non è mai un caso. Da dove, da cosa parte la scelta, anche se inconsapevole? Che segnali mandano il corpo, la testa? 
C’è un dato di irrequietezza, un fiutare il terreno in cerca di tracce, un’insoddisfazione e un desiderio potente che ti guida. Ma parlo ovviamente di me, non posso parlare degli altri. 

La musica a te ha dato un’impronta, per recitare, ti è servita. Ma che altre soluzioni ci sono per sentire più forte questo lavoro? Conviene approcciarsi a qualche altra disciplina, aiuta, oppure ogni percorso è a sé? 
Penso che questo mestiere sia un viaggio – uno dei tanti possibili – che ti chiede di aprire di tappa in tappa porte su nuove realtà, su nuovi paesaggi. Porte e finestre di una casa, la nostra, troppo angusta, in cerca di stimoli sempre nuovi. Ogni viaggio ha il suo itinerario e i suoi incontri, e quindi, no, non credo di poter indicare che cosa è meglio o peggio fare, quale “disciplina” o quale “soluzione”. Si tratta di un viaggio e di un labirinto. Un itinerario insieme “geografico” e interiore, squisitamente personale. 

C’è “bisogno” di cercarsi una materia da plasmare o si può diventare anche grandi attori, diciamo, quasi “per sbaglio”? 
Il “caso” è spesso guidato da una ragione più profonda. E’ necessario mettersi in ascolto di questa ragione. Scoprire che cosa ci muove. Conoscersi, osservarsi, mettersi alla prova. Attraverso lo sguardo degli altri, e con un occhio attento rivolto sempre su di sé. Uno stare in ascolto. E non ci sono regole, di questo sono certa. O meglio, le regole te le devi confezionare su misura. Saranno le tue, ma dovranno subire sempre un’attenta revisione, nel tempo e con le esperienze. In costante movimento. 

Citi nel libro alcuni autori per te determinanti. Ognuno deve cercarsi dei punti di riferimento o… 
Anche i punti di riferimento – autori, amici, persone, luoghi, esperienze, opere – viaggiano nel tempo, con te. Alcuni saranno per la vita, altri si alterneranno, scompariranno, cambieranno, con te, nel corso della tua “traversata”. Un lessico interiore personalissimo, un sistema di segni che incide nella nostra esperienza e ci dà più strumenti per lavorare e per dialogare con l’altro. 

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Scrivi anche di Eros e del motore creativo attoriale… 
Eros è al centro di ogni espressione creativa, ma anche distruttiva. Lo sappiamo. E’ un’energia che va armonizzata in noi dal momento che ha una qualità così potente e potenzialmente esplosiva. L’addestramento psicofisico è essenziale per non venire travolti o per non essere succubi di tensioni troppo grandi. 

A teatro si va per ascoltare, quindi ci si deve rendere attivi. Il pubblico diventa parte del progetto che va in scena, anche se qualche volta è assente.  Ognuno dunque ha una sua responsabilità? 
A teatro il pubblico è protagonista dello spettacolo. Il rapporto che si stabilisce tra palco e platea, da subito, è essenziale alla buona riuscita del lavoro. Penso anche che oggi come mai chi sceglie di andare a teatro (ma anche al cinema), sia sempre più motivato. L’ enorme dispersione dell’offerta di” intrattenimento” globale fa sì che il moto a luogo di uno spettatore in una sala teatrale o cinematografica sia già una presa di posizione. Attori, registi e produttori hanno in questo processo un’enorme responsabilità, e devono essere all’altezza di un momento storico così delicato. 

Da attrici scritturate, oggi, si deve avere comunque libertà sul personaggio, si deve esser lasciate libere? O il regista deve indicare tutto, lasciando “solo” l’azione a chi recita? 
Nella mia esperienza, l’ideale al presente, nella collaborazione con un regista (e un gruppo di lavoro), è l’offerta di una visione chiara, incisiva e condivisa, ma che consenta all’interprete di muoversi nello spazio di questa visione con estrema libertà e con la possibilità di sviluppare la propria idea di lavoro in ascolto del disegno complessivo. 

Qualcuno ha detto che recitare, interpretare altre vite è talmente autoinvadente che può portare a drammi estremi personali, anche al suicidio. Qual è il segreto, se c’è, per rimanerere fino in fondo sempre se stessi pur affrontando molti personaggi? Anche se tu sei un’attrice “immersiva”, come scrivi… 
E’ necessario un ascolto attento delle proprie risorse e delle proprie voci. E’ necessario avere cura di sé, senza sottostare a torsioni emotive non giustificate. E’ un equilibrio da rivedere di giorno in giorno. E la propria esperienza di vita disegna anche il corpo di scena. Ogni personaggio, ogni storia abita la nostra casa interiore, non scompare, scivola invisibile dentro la nostra storia, e possibilmente, la arricchisce. 

Cosa ti ha insegnato il rapporto con dei grandi come Carmelo Bene e Giorgio Strehler, o Franco Battiato, Marco Tullio Giordana, nel cinema? 
Gli incontri sono fondamentali, quelli difficili e quelli più “facili”. Quelli che mi indichi sono tra i più importanti, hanno inciso su alcune mie scelte e hanno chiarito il mio percorso. 

Recitare rimane, alla fine, sempre un giocare? 
Il gioco è una cosa serissima. Il gioco per come lo intende il bambino, intendo. Riuscire a stare nel lavoro con la leggerezza di tocco e l’intensità emotiva e creativa del bambino è un’ambizione e una necessità, per me. 

A teatro, al cinema, cosa oggi ti “rapisce”? 
L’intensità dell’invenzione. La proposta di un mondo possibile, in cui specchiarsi e rigenerarsi. E, sempre di più, cerco una lingua “semplice”, senza trucchi. Una visione in contatto con l’umano. 

Ho letto che stai preparando un film su Eleonora Duse. Cosa ti affascina di lei, e cosa ci puoi anticipare di questo progetto? 
Si tratta di un film documentario per il cinema sul mestiere dell’attrice, e il filo rosso, la figura “assente” e più acutamente presente sarà quella di Eleonora Duse, che da quando ho cominciato il mio percorso d’attrice è stata per me una luce e un mistero. Riflettere, oggi, sul mestiere è una necessità. L’ho fatto con il libro di cui stiamo parlando (Un corpo per tutti), e continuerò a farlo attraverso questo film. Sarà un’indagine sul campo in cui troveranno anche spazio voci d’artisti e di studiosi, sarà uno sguardo al presente sulla pratica attoriale e un lavoro approfondito su fonti e testimonianze del passato, anche quello più prossimo.

Francesco Bettin

Ultima modifica il Domenica, 09 Aprile 2023 09:43

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