venerdì, 08 novembre, 2024
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INTERVISTA A GIUSEPPE CEDERNA - di Francesco Bettin

Giuseppe Cederna Giuseppe Cederna

Un po’ anomalo, come attore, (lo dice lui stesso) lo è, Giuseppe Cederna, viaggiatore, scrittore, grande amante della poesia e non a caso autore di tanti testi propri che alterna sulla scena a interpretazioni di classici e contemporanei. Sia al cinema che in teatro, Cederna lo si ricorda in certi personaggi che comunque “catturano”, dal soldato di “Mediterraneo”, regia Gabriele Salvatores, al Vincenzo Sartori di “Hammamet” di Gianni Amelio, e in mezzo tanti altri, diretto da Soldini, Scola, i Fratelli Taviani, Bellocchio, Giovanni Soldati. Al pari del cinema, tanto teatro, recentemente in “Zio Vanja” di Cechov, e “Tartufo” di Moliére che tra poco ritornerà in scena per un’altra mini tournée, entrambi con la regia di Roberto Valerio. Occhi di un azzurro profondissimo, animo sensibile, Cederna si racconta. 

Con un cognome come il tuo, Giuseppe, l’impegno culturale era già nel tuo destino? Anche perché oltre a tua zia Camilla hai avuto un padre giornalista, archeologo importante…
La mia famiglia mi ha sempre appoggiato, e io sono molto fiero di aver trovato la mia strada. A vent’anni ho lasciato l’università perché ho scoperto il famoso sacro fuoco dell’arte attraverso il corpo, lavorando come mimo, clown, acrobata, cosa che penso si veda molto anche oggi quando lavoro in teatro. E ciò mi fa piacere, vuol dire che fin dall’inizio ho seguito e sviluppato una mia caratteristica personale. Mio bisnonno Antonio era un alpinista, un esploratore di montagne e forse quei geni valtellinesi mi hanno portato alla passione per il movimento, ad avere un corpo predisposto, duttile. 

Un richiamo potente, quello sentito fin da giovane? 
Erano gli anni del cosiddetto Terzo Teatro, ricordo che andai a una famosa riunione che si tenne a Bergamo e fui colpito da quello che il circo moderno, il mimo potevano raccontare della vita umana usando il corpo, le parole, lo sberleffo. Con l’ironia si poteva raccontare la voglia di vivere,  le proprie arrabbiature e i propri punti di vista su cose importanti, il sesso, la politica, l’impegno. 

Erano gli anni degli Anfeclown…
Esatto. Ho fatto una scuola molto seria, intensa, di maschera, acrobazia, improvvisazione, ho debuttato a Piazza Navona a Roma, la mia fisicità era già abbastanza spiccata. Probabilmente avevo qualcosa che attraverso il corpo diventava visibile, la gente sorrideva. Era la fine degli anni Settanta. Iniziai a girare l’Italia con gli Anfeclown, che voleva significare clown energetici, rock, eravamo puro istinto fisico ma raccontavamo anche cose profonde, ponendoci delle domande. Chi siamo? Cosa facciamo nel mondo? I nostri primi spettacoli erano una critica anche feroce ai miti e ai riti del post sessantotto, dove sembrava bastasse avere un’ideologia e non il fatto di saper comportarsi. Sono molto fiero di queste mie origini artistiche. 

In famiglia come reagirono? 
Non mi hanno mai combattuto, semmai sono stati a vedere cosa succedeva. Dopo il primo anno di sconcerto, hanno capito che era una mia strada dove trovavo il mio modo di essere nel mondo un interprete con una testa pensante. 

Un attore atipico in qualche modo. 
Si, sono un indipendente e riesco a fare quello che mi piace, ed è una fortuna, anche perché faccio tante cose diverse tra loro. Un bel ricordo che ho è un articolo che scrisse mio padre nel 1983 dal titolo Mio figlio clown, dove confessava grande rispetto e stima per quella scelta e per il fatto che avessi il coraggio di intraprendere una strada che sappiamo tutti essere impervia e difficile, ma che in questo modo mi realizzassi. Tutta la mia famiglia mi ha comunque sostenuto. Ho avuto anche fortuna, e bisogna averla, oltre al fatto di essere bravi, e a cercare di migliorarsi sempre. Ho iniziato a lavorare col Teatro dell’Elfo, nel “Sogno di una notte di mezza estate”. Era il 1982. 

Poi è arrivato il cinema…
Si’, anche se ai quei tempi erano parti piccole, se si è fortunati appunto può capitare di lavorare con dei grandi maestri, come mi successe con Marco Bellocchio e il suo “Enrico IV”, con Mastroianni e la Cardinale. Vincere dei provini è un terno al lotto, lo sappiamo,  l’attore deve saper accettare rifiuti continui e non bisogna abbattersi. La mia svolta fu con “Amadeus”, testo di Schaffer, con regia di Mario Missiroli, con Umberto Orsini protagonista,  dal quale ho imparato molto, anche la disciplina del lavoro, a usare la voce, che è diventata un mio punto di forza. 

Ma il cinema italiano di culto inizia poco dopo o sbaglio? 
Si’, quello di “Marrakesh Express”, “Italia Germania 4-3” di Andrea Barzini. “Mediterraneo”. Iniziai un periodo più cinematografico, ma fare il cinema dipende da tanti fattori. La fortuna di essere sempre un attore pensante, che cerca o magari scrive le sue storie ha fatto sì che potessi cavarmela, nuotare da solo nel grande mare del teatro. Ho fatto decine di monologhi, racconti, ma anche molti classici. 

Mai avuto un momento di crisi? 
Certamente, succede nella vita di un uomo, era il 1996 e i film che avevo fatto non erano andati bene, il mio agente mi aveva lasciato bruscamente, e anche la mia compagna. Sembrava che la mia vita fosse finita, c’era anche mio padre che stava morendo, e quella era certamente la cosa più importante. Fu un momento di crollo, andai in analisi e grazie al fatto che non lavoravo più tanto ho cominciato a viaggiare e a scrivere. Viaggiando in India, nelle montagne dell’Himalaya, il mio sguardo tornava sotto forma di reportage, articoli, riuscivo “a vedere” dandomi un grande senso di libertà. Ero sempre un attore ma non dipendevo più solo dagli altri, e avevo trovato una nuova vita attraverso altre esperienze. Poi è tornato il teatro, pian piano il cinema, ma il viaggio è diventato il mio compagno di vita, oggi riesco a raccontare quello che mi sta a cuore nel mondo. Ho portato anche a teatro certi testi. Un’altra mia grande passione poi è la poesia. 

Altra potente compagna di viaggio? 
Uno degli spettacoli a cui tengo tantissimo e che faccio in questi anni si chiama “Su questa terra”, una performance in cammino con tre soste durante le quali racconto e leggo una trentina di frammenti letterari riflettendo sulla meraviglia e la complessità di essere, sulla terra. E il sentire di essere suoi ospiti…questa meditazione poetica mi dà il senso di quello che sono forse ancora di più di uno spettacolo teatrale. Sento che riesco a stabilire con il pubblico un contatto profondo, quasi immediato. In questo spettacolo si parla del dolore, della meraviglia, della morte, una parte essenziale di tutti noi. Condividere questi aspetti con altre persone attraverso la poesia è una grande liberazione, sento che la gente è riconoscente. 

Hai appena terminato “Storia di un corpo” di Daniel  Pennac, per la regia di Giorgio Gallione, che riprenderai nella prossima stagione. Ce ne parli? 
E’ la storia del corpo di un uomo dai 12 anni alla fine, è uno spettacolo che sembra proprio scritto per me, per la mia storia. Ironico, all’inizio infantile, un ragazzino che scopre la paura il coraggio, il sesso ma affronta anche il passare del tempo, il corpo che si affatica e le lezioni che questa cosa dà, e c’è una grande commozione finale. Il pubblico si riconosce come fosse con me sul palco. E’ un piacere enorme poterlo fare. 

Qualche lezione che hai imparato dal tuo mestiere? 
Di esser grato sempre di quello che mi succede, e di non prendermela se a volte ci sono delle difficoltà da attraversare. Nel frattempo torno a fare “Tartufo”, di Moliére per qualche replica, sarò al Teatro Franco Parenti di Milano dal 9 al 14 maggio. 

Francesco Bettin

Ultima modifica il Mercoledì, 19 Aprile 2023 20:13

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