Francesco Zecca, pugliese, è attore e regista, e si è diplomato al Centro Internazionale La Cometa, di Roma. Da anni fa teatro, e da un po’ di tempo collabora assiduamente con Lucrezia Lante Della Rovere (ma non solo). E’ stato diretto, tra gli altri, da Massimiliano Bruno, Pierpaolo Sepe, Duccio Camerini, Emma Dante, e ha a sua volta diretto spettacoli come Il mondo non mi deve nulla, di Massimo Carlotto, con Pamela Villoresi, Come tu mi vuoi, Malamore e Io sono Misia, con la Della Rovere, e ancora con l’attrice protagonista ha messo in scena un adattamento raffinato de L’uomo dal fiore in bocca di Pirandello. Attivo anche al cinema, Zecca è dotato di uno stile personale, come regista, piacevole, rigoroso. Lo abbiamo incontrato e intervistato, la sua è una simpatia che travolge, colma di estro come un artista puro, pirotenico.
Francesco, come nasce la tua passione per il teatro e lo spettacolo?
Mi viene in mente subito l’immagine di un’estate di molti anni fa. Tutto cominciava in giorni afosi di agosto in una località di mare, in Puglia, dove anche la sabbia scottava troppo per stare fermi e il sole non dava pace. La curiosità è un tratto distintivo che mi porto dietro da quando ero bambino: l’unica occupazione in quei momenti era spiare le mie zie e cugine sventolarsi e cucinare, e allora le copiavo e facevo dei siparietti comici. Vedere la gioia e la commozione nei loro occhi mi rendeva euforico…Quando facevamo la salsa di pomodoro ogni anno facevo la regia di qualche storia, con tutta la famiglia coinvolta. Era diventato un rito ….tutto questo accadeva quando ero piccolissimo, avrò avuto 8 anni al massimo.
Non avessi fatto questo mestiere dove sarebbe stato possibile trovarti?
Sicuramente al ristorante della mia famiglia, in piedi da oltre 50 anni, a rimestare quel succo di pomodoro di cui sopra.
Fare teatro oggi è sempre più un atto politico, che apre la mente?
Fare teatro è un atto politico di per sé, perché ha a che fare con la vita e tutto ciò che è vita è atto politico. Per me il Teatro è azione, un fare, un porre in essere. Un dare vita. Scegliere di fare teatro oggi è pericoloso, ed è libertà di sperimentare e di sbagliare, senza paura.
Cinema, teatro, tv, fai un po’ di tutto. In Italia si lavora bene o a tuo parere ci sono delle criticità che andrebbero affrontate da parte politica, per sostenere tutti quelli che lavorano in questo ambito?
Guarda, in questo mestiere l’unica cosa di cui abbiamo veramente bisogno è il tempo. Il tempo per progettare, il tempo per provare, per rischiare, per avere l’opportunità di crescere. E’ proprio il tempo che è diventato un lusso, perché economicamente nessuno se lo può più permettere. Perciò è sempre più necessario continuare a fare arte e prendersi la responsabilità di questa azione. In questo senso non dovrebbe esserci separazione tra politica che sostiene e arte che crea, perché sono due facce della stessa medaglia.
A cosa stai lavorando ora?
Sto preparando lo spettacolo Brutta - storia di un corpo come tanti, testo e adattamento teatrale di Giulia Blasi, tratto dal suo omonimo romanzo, con Cristina Vaccaro. E’ uno spettacolo che indaga il rapporto del corpo della donna in relazione alla bellezza: la domanda che ruota intorno all’opera è: chi ha detto che per occupare uno spazio pubblico per vivere appieno in società si debba per forza essere belle?. Poi ho altri progetti in cantiere, ma è troppo presto per parlarne. Sono molto scaramantico, lo ammetto, infatti mi sto toccando uno dei 3 corni napoletani che porto al collo. Essere scaramantico è da ignoranti, non esserlo però porta male.
C’è qualche artista anche del passato, che ti ha condizionato, che hai osservato molto, da cui hai cercato di apprendere qualcosa? Un artista che ti ha affascinato?
Ce ne sono tanti e mi diverte entrare dentro la poetica di un artista che amo, ma l’ossessione che mi accompagna da sempre è Charlie Chaplin: il suo essere nostalgico, comico e sentimentale allo stesso tempo. La fragilità del clown ha qualcosa che mi risuona dentro e trovo che sia un modo straordinario di raccontare il mondo.
Come definisci il teatro, Francesco? Cos’è per te?
E’ il luogo dell’anima, lo spazio dove mi permetto di essere me stesso, l’unico posto che permette di essere autentico oltre ogni giudizio. Il luogo che permette di sognare, d’altronde cos’è un uomo senza i propri sogni?
Che spettatore sei? Vai a teatro a vedere i colleghi? Hai un genere preferito?
Quando vado a teatro spero di non dire all’uscita: che bella regia, che bel testo, che brava attrice o attore. Spero di dire piuttosto: che grande serata! Sono uno spettatore che ama sedersi e godersi lo spettacolo senza troppe pretese, anche quando a volte, ammetto che preferirei stare a casa con il mio adorato cane. Non ho un genere preferito, non mi piace neanche parlare di genere ma piuttosto di storie, è lì infatti che vengo catturato. Se una di queste storie viene raccontata bene, accade la magia.
C’è sacralità, e quanta, nella recitazione?
Tantissima, per me. Il palcoscenico è sacro, nel momento in cui si sale c’è una parte un po’ esoterica. L’amore è sacro, ciò che un umano racconta a un altro suo simile diventa automaticamente sacrale. E nel teatro, nella recitazione è qualcosa di insito, anche se dura solo un momento, magari, una battuta soltanto. La sacralità è dunque anche salvezza, non è il fine ma il mezzo.
Non è un mestiere come un altro, dunque, lavorare nel teatro, nello spettacolo?
No, non lo è. Tutti i lavori hanno una responsabilità, questo in particolare ha quella di aver a che fare con l’animo dell’umanità, è come un’operazione a cuore aperto. Si ha a che fare con le vite, e si ha una forza potente, con la semplicità, però, di questa operazione. E’ una missione, comunque. Dove bisogna metterci semplicità, non credere di stare a fare cose importanti per il mondo.
Sei regista ma anche attore…le due anime possono condividere facilmente?
A volte litigano, però si amano molto, sai, la convivenza è sempre molto difficile. Una deve accettare le piccole meschinità dell’altra, per poi però ritrovarsi mano nella mano ed amarsi ancora.
Un sogno da realizzare?
Solo uno? Come diceva una grande bisogna svuotare tutti i cassetti dai sogni e metterli sulle mensole, così li puoi guardare ogni giorno. Ma bisogna avere coraggio per farlo perché a volte guardare i propri sogni dritti negli occhi fa paura.
Pensi che prima o poi si dovrà affrontare, e ripensare il sistema teatro? Vedremo un cambiamento che innoverà?
Dopo il tremendo periodo che tutti abbiamo vissuto qualche anno fa qualcosa è cambiato. In realtà non stiamo riuscendo a trovare ancora una quadra rispetto al fatto che il teatro ha un potere, che racconta l’uomo davanti all’uomo. Durante la pandemia si’, c’erano i live, gli streaming ma il cinema comunque si faceva, con tutte le regole. Il problema teatrale è che c’è una parte di mercato che ancora pensa che serva il cosiddetto nome famoso per fare uno spettacolo, quando invece il pubblico ha bisogno solo di spettacoli belli, dove poter sognare, vedersi raccontare. Come regista mi propongono certi spettacoli perché hanno vendibilità, che è una cosa che sta diventando ridicola a mio parere. C’è bisogno di avere un pubblico vivo anche nei piccoli paesini, di persone illuminate, che riescono a vedere il teatro, la cultura, come una possibilità e non per la vendibilità.
E’ una cosa solo italiana?
Da un po’ di tempo mi sto confrontando anche con un mercato internazionale, e la cosa strana è che qui da noi c’è una divisione: il teatro fatto bene, quello per intenderci d’innovazione che non può fare soldi, e il teatro commerciale. Ecco, questa è una cosa da cambiare sicuramente, è chiaro che si deve guadagnare ma facendo tutto. Oltre a tutte le battaglie che stiamo facendo per essere riconosciuti come categoria, bisognerebbe anche cominciare a guardare all’estero, anche i produttori, per capire come trasformare quelle produzioni, non copiarle. Il teatro non potrà mai morire, nemmeno il suo stesso sistema, bisognerà cambiarlo e questo accadrà. Speriamo solo ci siano persone illuminate a fare ciò. Comunque siamo tutti noi che dobbiamo agire in questo senso.
Forse si è un po’ prigionieri di alcuni schemi?
Nella nostra testa siamo ancora prigionieri di alcune battaglie, degli anni Settanta, l’avanguardia, dove si era sempre contro qualcosa. Invece bisogna lavorare per le cose, non contro. Mi piace citare una frase di Madre Teresa di Calcutta che diceva non mi invitate a una marcia contro la guerra ma invitatemi a una marcia per la pace. E’ l’atteggiamento che conta, meglio lavorare per, non contro il sistema, altrimenti c’è solo un obiettivo da combattere. Ci nascondiamo sempre dietro la provincialità, che in qualche modo è la nostra comfort zone. In realtà siamo più europei di quel che non capiamo.
Cosa auguri a te stesso e ai tuoi colleghi, a chi fa il tuo mestiere?
Di non cercare di fare teatro in modo diverso dagli altri, questo non serve a molto, serve solo a creare frustrazione e disagio. Cercate invece la vostra voce, il vostro segno. Perché in epoche oscure, le luci più tenui, brillano come stelle.
Francesco Bettin