di Claudio Magris
scene Pier Paolo Bisleri, costumi Elena Mannini, luci Nino Napoletano
regia Antonio Calenda
con Daniela Giovannetti
Roma, Piccolo Eliseo Patroni Griffi, dal 24 gennaio all'11 febbraio 2007
Napoli, Teatro Nuovo, dal 25 al 30 novembre 2008
Sappiamo che cosa racconta il mito: Orfeo ottiene di riportare sulla terra la moglie Euridice, uccisa dal morso di un serpente, a patto che non si volti a guardarla durante il cammino di ritorno dagli Inferi; ma il leggendario cantore non sa rispettare il divieto e, così, perde per sempre l'amata. Invece, secondo Claudio Magris - autore del monologo «Lei dunque capirà», presentato al Nuovo dallo Stabile del Friuli-Venezia Giulia - Orfeo viene spinto a voltarsi dalla stessa Euridice, che lo chiama «con voce forte e sicura». È quindi Euridice che sceglie di restare nell'Ade. E la ragione della scelta sta in una battuta - la vera battuta-chiave - da lei attribuita all'Orfeo rimasto solo dopo la sua morte. Lui dice di vedere ancora «il lieve avvallamento» lasciato nel letto dal corpo della moglie: in altri termini, Orfeo avverte, sì, la persistente presenza di Euridice, ma l'avverte solo come «assenza», ed è quell'«assenza», aggiunge, la «compagna della mia vita». Si capisce, allora, che cos'è la «Casa di Riposo» che - nel quadro di una generale riduzione del mito alla quotidianità del presente - Magris mette al posto dell'Ade. Poiché Euridice dichiara che non esiste alcuna differenza fra quel «dentro» e il fuori, risulta evidente - ed ecco l'alto approdo del testo, insieme poetico e gnoseologico - che la «Casa di Riposo» in questione è, puramente e semplicemente, la vita: la vita nel suo farsi momento per momento. E siccome Euridice sa (vedi la battuta citata) che la legge ineludibile e inesorabile che ci governa è per l'appunto quella della perdita, sceglie di procurarsi una perdita totale e definitiva: la sola che possa garantirle la sopravvivenza di sé. Sceglie, cioè, di negarsi al mondo (alle parole, alle spiegazioni, alle menzogne, ai compromessi e, certo, anche all'amore) per chiudersi definitivamente nella propria anima e nella propria mente. Insomma, l'Euridice di Magris è la reincarnazione al femminile dell'Hans Karl di Hofmannsthal: una donna «difficile». Hans Karl «tace» e «fuma», quest'Euridice «non esce» e «svanisce». E al riguardo la regia di Antonio Calenda appare addirittura esemplare: basterebbe considerare la porta d'ingresso e d'uscita che si apre da sola, simbolo eclatante di quell'«autosufficienza». Ma poi, il suggello sullo spettacolo, uno fra i più intelligenti e intensi degli ultimi anni, lo mette Daniela Giovanetti. La sua non è solo una straordinaria prova d'attrice, smarrita e indomita, lucida e tenera insieme. È un'emozione. Sicché tu, spettatore che decidessi di andare al Nuovo, dovrai abbandonarti. E allora quell'emozione farà con te ciò che poteva fare con la madre l'anima del D'Annunzio più stranito e indifeso: « a te verrà, quando vorrai, leggera / come vien l'acqua al cavo de la mano».
Enrico Fiore
I rapporti fra letteratura e teatro da noi non sono stati mai facili. I letterati hanno spesso guardato alla drammaturgia come a un genere minore. Un pregiudizio solo italiano e paradossale nel paese di D'Annunzio e di Pirandello, grandi drammaturghi e altrettanto grandi nella letteratura. I nostri letterati, infatti, non solo amano poco il teatro ma quando ci si dedicano i risultati sono quasi sempre fallimentari. Basti pensare ai testi teatrali di Moravia e Pasolini, difficilmente difendibili. Lei dunque capirà di Claudio Magris, in scena al Piccolo Eliseo di Roma, conferma i limiti di una letteratura che non riesce a diventare drammaturgia. Magris ha la fortuna, rara per un autore italiano, di essere messo in scena da un teatro pubblico, lo Stabile del Friuli Venezia Giulia, con un impegno artistico che da noi di solito è dedicato ai classici. Certo il monologo come genere è per sua natura sostanzialmente estraneo al teatro ma nonostante tutto, il monologo può risultare teatrale quando ha in sé emozioni profonde.
Questo non succede in Lei dunque capirà. Le ambizioni di Magris sono alte: darci una lettura moderna del mito di Orfeo e Euridice, che coglie il rapporto fra la vita e la morte. Il mito è rappresentato dalla parte di Euridice che nella tradizione greca è una presenza muta; un'Euridice che nel testo di Magris non sta nel regno dei morti, ma in un casa di riposo al di là dei nostri giorni. Euridice racconta al Presidente della casa il suo rapporto con Orfeo, «la sua storia d'amore d'incanto, ma anche di realtà e di lotta per il miserabile potere quotidiano», scrive l'autore. Alla fine, il rifiuto di Euridice di tornare fra i vivi non appare «un atto d'amore straziato», come sottolinea il regista Antonio Calenda, ma un facile ribaltamento del mito originario. D'altra parte, la voglia di poesia diventa poeticismo, ad esempio in battute come: «Quando facevamo l'amore era come un mare, una grande onda che culla solleva sprofonda si rompe sulla riva». La regia di Calenda, nelle scene di Pier Paolo Bisleri ispirate ai dipinti di Lucien Freud e nei costumi di Elena Mannini, cerca, attraverso l'uso delle luci e dei suoni, di teatralizzare il testo. Daniela Giovanetti, attrice sempre più matura, interpreta questa Euridice moderna con grande passione e con fisicità non comune.
Giovanni Antonucci
La scena è grigia e tutto il resto è d’identico colore: dalla porta centrale con piccoli vetri all’inglese ai termosifoni ai piccoli arredi che vi compaiono. Anche lei, la donna che per 75 minuti avremo dinnanzi è vestita con un abito grigio. Si rivolge questa esile ma energica figurina ad un fantomatico Presidente, verosimilmente la massima autorità a capo d’una casa di riposo dove la donna risiede, spiegandogli i motivi che l’hanno indotta a non volere più tornare fra i vivi. A primo acchito si ha la sensazione che la donna e il luogo siano reali, iperreali direi, quasi come in una tela di Edward Hopper e in cui lei assumerà delle nude posture come nei dipinti di Lucian Freud, poi lentamente, vuoi anche per le parole che sgorgano come fiumana dalla bocca della donna, si viene trasportati in un luogo metafisico, immaginifico, che esiste solo nei pensieri. Insomma si ha la sensazione di trovarsi in un Averno dei nostri tempi e che la donna non sia più di questo mondo ma è come se lo fosse. Lei dunque capirà echeggia il titolo del monologo di Claudio Magris, un bel testo in cui l’amore diventa lutto e il lutto diventa amore, messo in scena in bello stile e in modo meticoloso al Teatro Musco di Catania da Antonio Calenda e interpretato con molto trasporto da una Daniela Giovanetti davvero brava in una prova di solipsistica bravura come raramente è dato da vedere in teatro. E’ una storia d’amore in cui ci s’imbatte nel mito di Orfeo e Euridice, solo che qui i termini si capovolgono, perché non è più lui che si volta per troppo amore ma lei che non vuole ricominciare a “cucinare, lavare, fare all’amore, andare a teatro, invitare qualcuno a casa, ringraziare per i fiori, parlare…”. La donna insomma rifiuta di seguire l’uomo amato aldilà della porta della Casa perché il mondo è un luogo di specchi ingannevoli e la stessa Casa è uno specchio ingannevole.
Gigi Giacobbe
Claudio Magris non è autore di teatro in senso stretto. Capita però, non solo a lui, che l'arte del racconto sia naturaliter aperta a diventare parola d'attore. È capitato con uno dei suoi ultimi componimenti accolto da buon successo editoriale, Lei dunque capirà. Per il feeling che lega Magris, triestino puro sangue, al Teatro Stabile Friuli Venezia Giulia e al suo direttore e regista principale Antonio Calenda, l'opera ha subito indotto quest'ultimo a darle, con l'autore, veste teatrale. Qui è il mito di Orfeo ed Euridice a illuminare Magris, insieme alla suggestione esercitata su di lui dal contatto coi ricoverati in "casa di riposo": l'uno e l'altra assunti a paradigma del circuito vita-amore-morte. Nello spettacolo che ne è scaturito, in questi giorni al Piccolo Eliseo Patroni Griffi di Roma, domina l'ambiente da obitorio, di freddo, burocratico grigiore. La moderna Euridice (Daniela Giovanetti), come uscendo da una prova suprema, si sforza di far "capire" la definitività di un gesto, che gradualmente si scopre, ad un ascoltatore invisibile, il Presidente di quell'asilo. Ma tace. Monologando la donna srotola quella vita di coppia vissuta laggiù, dove si amavano, lui poeta incontinente di successo, lei in venerazione ma anche severa nel censurargli le ridondanze. Indissolubili nel donarsi reciproco: una piena di sentimenti che scavalca la malattia mortale di Euridice. Perché allora, ci si chiede, Orfeo non può trarla via dalla "casa" dell'eterno riposo, come mito vuole? La risposta è nel prevedibile bisogno che l'assalirebbe di carpire la verità della morte, da poeta vorace. Ciò che l'«avrebbe distrutto», per la delusione. Dunque meglio rinunciare e ignorare. L'amore è salvo, anche se resta disperato. Tesi deviante che lascia l'amaro.
Toni Colotta