di Paolo Poli
da Anna Maria Ortese
con Paolo Poli, Mauro Barbiero, Fabrizio Casagrande, Alberto Gamberini, Giovanni Siniscalco
scene di Emanuele Luzzati, costumi di Santuzza Cali', musiche di Jacqueline Perrotin
coreografie di Claudia Lawrence
regia di Paolo Poli
Sala Umberto Roma, dal 29 novembre al 18 dicembre 2011
Nessuna voglia di sfoggiare rimembranze, solo la critica necessità di contestualizzare la lunga militanza scenica (ed intellettiva) di Paolo Poli nell'ambito della teatralità che più gli è congeniale, e di cui rappresenta un "classico" vivo, vegeto e festeggiato. Perché, se in Brachetti, a prevalere, è il piacere dell'illusionismo, dell'esotismo circense, di una certa visionarietà hollywoodiana (che va da Ester Williams ai cartoni animati di Disney a Tim Burton), in Paolo Poli quel che "travolge" è la inossidabile giovinezza di corpo e spirito, la vocazione allo sberleffo, alla satira "calandrina". E inoltre, l' elegante toscanità di "patinato vetriolo" che ha radice nelle letture di Palazzeschi, Diderot, Voltaire, Martinetti.
Come dire? Paolo Poli è stato il primo, vero "illuminista" del teatro italiano, il primo "one show man" capace di coniugare kitch e derisione, burla e scettica miniera di conoscenze, ribaltando queste ultime in "svendita" d'ogni supponenza accademica, forse aspirando a "dissolversi" nel confortevole nucleo di un "nulla" cui affidare il piacere di una sensibilità artistica volatile, meticolosa, polimorfica. Con lo scopo di "rivelare e poi celare", per brevi accensioni, il lato più remoto, bistrattato di una "femminilità italica" circoscritta in stereotipi da galera ( come già si scopriva negli storici "Rita da Cascia" , "Le due orfanelle", "Il coturno e la ciabatta"). E come in parte torna ad essere in "Il mare" , nuova addizione di una carriera raffinata, colta, cesellata, i cui bersagli sono stati, e permangono, la retorica, la miopia, il pregiudizio della piccola borghesia italiota, connotata di ostentate smancerie e luoghi comuni spacciati per giudizi di merito.
Il rischio, semmai, è quello di "altre" atmosfere ostinatamente retrò (questa volta dalla parte degli "ultimi"), alimentate da una certa nostalgia del teatro di rivista- di cui questo spettacolo ha molte peculiarità: a iniziare dalla commistione tra recitazione, musica, danza, in una sorta di "reverie" ispirata ai racconti "Il mare non bagna Napoli" e "Angelici dolori" di Anna Maria Ortese, scrittrice italiana del secolo scorso non meno schiva, appartata, affettuosamente scontrosa del suo interprete ed esegeta di oggi.
Nell'ambito dei racconti che Poli seleziona e riadatta per la scena (in forma di monologhi tesi a catturare sensazioni o di brevi scenette che restituiscono una fotografia d'ambiente) il filo conduttore è dato da alcuni nuclei tematici rintracciabili in certa prosa ridondante, ma dotata di fascino prismatico, elusivo, spiraliforme. Derivanti da certo stile di scrittura ipotattica, tipica della Ortese, quando indigenza e provvisorietà sono vissuta con slancio, simpatia, orgogliosa rassegnazione. E il mito dell'America, terra ingannevole di "tutte le possibilità" (secondo la lezione di Kafka), è fuga nel sogno, "luogo aspro e selvaggio dei pellerossa dipinti da mani infantili su carta d'imballaggio" o sirena della perdizione che seduce i poveri-di-spirito con la strabiliante presenza di immensi piroscafi nel porto, intravisti da finestre che "non sono più" Napoli né l' Ellis Island.
Pur se, infine, il mare è "bello ovunque", attraente e simbolico, in ogni luogo e latitudine, azzurro o salmastro, come una tradita promessa d'amore, consolatore e accogliente "come il grembo materno" dove puoi crogiolarti non più di nove mesi.
Il resto è vita, con le sue incognite, disillusioni, vere infamità.
Angelo Pizzuto