venerdì, 19 aprile, 2024
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MENZOGNA (LA) - regia Pippo Delbono

La menzogna La menzogna Regia Pippo Delbono

ideazione e regia Pippo Delbono
con: Iolanda Albertin, Gianluca Ballarè, Raffaella Banchelli, Bobò, Giovanni Briano, Pippo Delbono, Lucia Della Ferrera, Ilaria Distante, Claudio Gasparotto, Gustavo Giacosa, Simone Goggiano, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Julia Morawietz, Gianni Parenti, Pepe Robledo
Torino, Fonderie Limone di Moncalieri, dal 21 ottobre al 3 novembre 2008 - prima assoluta
Roma, Teatro Argentina, dal 10 al 22 marzo 2009
Catania, Teatro Ambasciatori 2/14 marzo 2010

Giornale di Sicilia, 6 marzo 2010
Il Messaggero, 14 marzo 2009
Avanti, 13 marzo 2009
La Repubblica, 23 ottobre 2008
Il Sole 24 Ore online, 23 ottobre 2008
Il Messaggero, 23 ottobre 2008
L'Unità, 23 ottobre 2008
Liberazione, 23 ottobre 2008
Europa, 23 ottobre 2008
Il Mattino, 23 ottobre 2008
Avvenire, 23 ottobre 2008
Il Manifesto, 26 ottobre 2008
Corriere della Sera, 26 ottobre 2008
Pippo Del Bono è un poeta della scena che la gira e la rivolta a suo piacimento. La menzogna ne è un esempio. Appare all'inizio tutto impomatato e la sua voce entra nelle nostre carni come attraversata da una scarica elettrica. Ponendo dal primo istante il suo punto di vista su alcune paradigmatiche tragedie italiane: i setti operai morti bruciati tra il 5 e il 6 dicembre 2007 alla Thissen Krupp di Torino, la fabbrica d'acciaio a capitale tedesco: il funerale di Abdul a Milano ammazzato a sprangate perché colto a rubare dei biscotti: il campo rom a Torino in cui si vive da cani. Non ci è permesso d'amare perchè abbiamo un colore diverso della pelle e perché spesso, come gli shakespeariani Romeo Montecchi e Giulietta Capuleti, dei nomi e cognomi differenti. " E' uno spettacolo che va visto come un dipinto cubista – suggerisce Del Bono - non bisogna sforzarsi di capirlo, piuttosto cercare di entrare in quelle zone che colpiscono il cuore. Non parla di quell'incendio torinese, ma parte da quell'incendio". Ecco dunque che quell'impalcatura metallica, ricca di scalette e ponteggi alla Escher, con una fila di sottili armadietti da spogliatoio, pedane e steccati ferrosi, illuminata in fondo da un gelido neon, si anima e si popola di figure in tuta color marrone che si recano al lavoro come al patibolo. Sembra una messa laica con le note de La Sagra della primavera di Stravinskij, in cui appaiono personaggi simbolo della nostra società che ha come obiettivo solo il dio denaro. Una società senza valori, popolata da spogliarelliste, preti infoiati, dark- ladies, ballerini di tango, figure asinine o con cappello a cono da ku klux klan, mentre tra loro e anche tra il pubblico s'aggira lo stesso Del Bono che scatta fotografie col flash e compare sulla scena l'anima candida di Bobò e il corpo nudo e grassoccio del down Gianluca Ballarè. Si respira un desiderio di far pulizia di quelle 300-400 famiglie che tengono in pugno l'economia del mondo. Si ha come la sensazione che La menzogna o le tante menzogne giungano sempre taroccate, da coloro che vogliono farci credere che l'asino vola o che stiamo tutti bene. L'unica via d'uscita di Del Bono è di denudarsi, di trovare attraverso il corpo nudo, anche di tanti suoi compagni, una nuova innocenza, un nuovo amore, che possa purificare la coscienza di tutti.- Novanta minuti esaltanti con applausi calorosi e repliche all'Ambasciatori sino al 14 marzo.

Gigi Giacobbe

Roma, Teatro Argentina, dal 10 al 22 marzo 2009

Pippo Delbono urla con poche parole, con suoni e musica che rendono un puntaspilli il cervello di chi guarda e ascolta, con emissioni vocali e gestuali strappate all'anima. E ne La menzogna, l'ultimo spettacolo, approdato all'Argentina di Roma (fino al 22 marzo), rende il suo urlo qualcosa che uccide. Una pallottola dum dum. Le vittime? Tutte nel titolo. Sono gli infingimenti che reggono il mondo in cui ci tocca vivere, quelli esterni (dalle condizioni di lavoro in cui maturano le "morti bianche" all'impossibilità di comunicare se non latrando) e quelli interiori, cui è sempre più ingrato e difficile togliere il velo.
Artista del comportamento più che teatrante, Delbono parte dal rogo alla Tyssen-Krupp e dagli operai morti nel fuoco per allargarsi alle menzogne planetarie, ai finti sorrisi del potere, alle inquinate speranze di futuro in cui si dibattono i dominati. Scava dentro il buio della natura umana (di prima, di ora, di poi) a caccia di un senso, uno qualsiasi, per il quale valga la pena continuare a rischiare. E in palcoscenico mette trappole di ferro, un podio oratorio da dove potrebbero aver parlato tutti gli eretici della Storia, scale, scivoli, percorsi di legno e di metallo attraversati da mille ostacoli, corpi allacciati nel ballo, un budda coperto di perle e file di armadietti laccati (per le tute degli operai della Thyssen, ma anche per gli umani abbaianti che si nascondono sotto cuoio, borchie e occhiali scuri). E' il regno infernale, questo groviglio di materiali e di linee, della compagnia, fatta di attori e di freaks, di sacerdoti e puttane, di santi, navigatori e semplici italiani. Tutti chiamati a incarnare il Dolore. Lui interpreta sé stesso, l'innamorato della vita, uno che assapora ogni minuto con voracità dolceamara, sempre a un passo dalla paura. Lo spettacolo straccia le convenzioni, l'armonia e la buona educazione di cui vestiamo, con arte, l'orrida ipocrisia. Ora condito da Wagner, ora dalle struggenti note di un tango. Fino al Pippo desnudo, struggente Hecce Homo dell'epilogo.

Rita Sala

Il dovere di ricordare

Il Teatro Stabile di Torino, affidato all'impegno sociale del direttore artistico Mario Martone, ha prodotto uno tra i più impegnativi lavori dell'attuale stagione: parlo de "La menzogna", scritto e diretto da Pippo Delbono. Su questa rilevante allestimento, s'è aperto così qualche sera fa il sipario del Teatro di Roma. Va subito detto dunque che la messa in scena trae la sua origine emozionale dalla ben nota vicenda del rogo della Thyssen Krupp di Torino, in cui persero la vita sette operai in una tragica notte fra il 5 e il 6 dicembre 2007. Uno tra i tanti, terrificanti incidenti sul lavoro, di cui molto si parla, ma nulla si fa di concreto per evitare, e che pure dovrebbero pesare sulla coscienza dei responsabili, o sarebbe più esatto dire di certi irresponsabili capi d'azienda. Il feroce testo di Delbono si china riverente di fronte a questi morti, per poi allargare il punto di vista a macchia d'olio, prendendo a protagonista la morte: quella fisica, reale e ingiusta di chi fatica giorno e notte nel suo lavoro spesso senza alcuna sicurezza e quella civile, morale di chi appunto vive queste morti con indifferenza, quasi appartenessero ad una statistica di impreviste casualità. L'atto di accusa di Delbono, intessuto di forti immagini, simbolicamente parte col "rito della vestizione con la tuta di lavoro" degli operai per poi svilupparsi in un percorso di vita che arriva, in dieci fulminanti minuti, fino alla bara. Accanto al tema che fa da filo conduttore, si intersecano intanto altre morti, altre prepotenze, altri abusi da parte del datore di lavoro. E la tormentata confessione delle vittime si conclude alla fine con operai bruciati vivi, martiri quotidiani di una vita senza qualità e ben lontana da qualsiasi doverosa, imprescindibile e onesta rettitudine. La scena è costruita con praticabili e pedane usate dai personaggi come tante ribalte di vita e di morte, mentre sullo sfondo echeggia una colonna musicale che va da Zarah Leander a Stravinskij e Wagner.
Intanto vanno e vengono in lungo e in largo impomatati borghesi con gli occhiali scuri, ragazze vestite di cuoio nero pronte a denudarsi, preti ambigui, violenti razzisti. Infine si scorge e ci si sofferma sull'impressionante saluto di Bobò (il microcefalo sordomuto che ha passato 45 anni della sua vita in manicomio e che da tempo segue il drammaturgo nei suoi spettacoli), che accarezza gli armadietti di ferro, simbolo della quotidianità di una vita operaia. Si chiude qui la spietata cronachistica narrazione, in un palpitante, intenso addio. Una storia intessuta di genio poetico e umanità; la storia di un uomo come Delbono, che con la sua compagnia teatrale ha superato pregiudizi e frontiere, dedicando il proprio impegno a chiunque crede che l'arte può cambiare il mondo.

Renato Ribaud

Con la ThyssenKrupp Delbono mette in scena la tragedia a Torino

Subissati come siamo dalle cronache televisive, galleggiando per di più in un mare di banalità, si può oggi mettere in scena una delle troppe tragedie che accompagnano la nostra vita quotidiana? Con quella ancora bruciante della ThyssenKrupp si misura oggi Pippo Delbono in La Menzogna, che con la sua compagnia inaugura la stagione del Teatro Stabile di Torino. Al principio di questo Studio va in scena il silenzio. Nel vuoto inanimato spiccano gli armadietti-guardaroba da azienda dove qualcuno si mette in tuta, e qualcuno più tardi si stenderà pure in una vasca-bara dove galleggiano dei fiori, mentre dall'alto degli spalti la voce di Pippo ci dice sussurrando l'impossibilità di limitarsi alla pietà "dandosi un contegno" col fine effettivo di seppellire una realtà perbenista. Ed ecco allora una tirata di Alex Zanotelli che, sul fondale-video, denuncia lo scandalo di un monopolio mondiale della ricchezza spartita tra poche famiglie, in cima a una delle brevi scalette centrali che non vanno da nessuna parte, una furente Giulietta urla il suo amore maledetto per Romeo e via via vediamo rincorrersi nei diversi spazi delle azioni che possono evocare piccoli momenti quotidiani, violenze o tenerezze, brevi gioie o sofferenze, il tutto avvolto in un poderoso scatenarsi della musicalità che parte da brani sinfonici o operistici soprattutto tedeschi, per arrivare a canzoni anche francesi. A moderare gli stimoli a picchiarsi, interviene la spontaneità dei numeri delle vedettes della compagnia .primi fra tutti il leggendario Bobò in qualcuna delle sue camminate in divisa e i sempre più rotondo Gianluca Ballare in vena di danze. In una serata in cui tutti i diciassette interpreti danno il massimo, a partire da Pippo che scatta foto e predilige per una volta il silenzio sotteso a ogni azione, anche a quel progressivo denudarsi che sul finire coinvolge tutti, e non consiste, come spesso accade, in una provocazione, ma dà il senso a uno spettacolo liberatorio e riconduce in effetti il suo autore e regista al ricordo dell'infanzia e a quella maschera di pudore che allora l'educazione paterna cercava d'imporgli, mentre il senso di questo allestimento, che sembra dare inizio ad un nuovo ciclo, sta proprio nella necessità di responsabilizzarsi su quanto ci avviene intorno e tutto ci coinvolge.

Franco Quadri

Pippo Delbono: il coraggio civile di urlare la Menzogna bruciante

Scusate per "La Menzogna" che mi porto dentro", parola di Pippo Delbono. Fonderie Limone di Moncalieri un vero evento. Senza retorica, in omaggio ai morti della Thyssen, spiazzante e straordinario, inaugura la stagione del Teatro Stabile di Torino. Armadietti diari dell'anima, ferro rugginoso che si acconcia in gradinata, feretro, pulpito, paravento reticolato, un pertugio-porta mito nero, che fagocita anche l'unica possibilità di fuga. Forno Thyssen, tombino d'umanità dolente, scordata, popolato da fiere che ti sopprimono tra party e inferi d'ipocrisia. Sabbie mobili, deserto universo del terzo millennio, si squaderna inesorabile al nostro sguardo. Pippo e la sua magistrale compagnia ci mostrano come la statura dell'arte può e deve indicare la strada giusta. Delbono, fragile e tenace, violento e compassionevole, perverso e innocente, spalanca le porte dell'inferno dei vivi per rammentarci quei corpi carbonizzati, quegli automi sfruttati, i diseredati. Come un pittore colore e tela dipinge il dolore del teatro della follia che ogni giorno va in scena nella vita. Randella forte, fortissimo, quei colpi fanno male, il cuore batte inarrestabile. Non puoi non chiederti da che parte vuoi stare. Con gli affamatori, con gli oscurantisti del business trionfante, le bestie che ringhiano invece di parlare, i preti ammiccanti, il baratro esistenziale o dall'altra con lui, con tutti quelli che hanno il coraggio di urlare il loro sdegno. Di vivere, senza uccidere con i guantini da chirurgo. Utopia pura e necessaria, danzata, urlata, musicata, nuda come i corpi in scena, spogliata, scarnificata, ridotta in cenere. Non siamo perduti la menzogna è un virus da debellare, la verità è la cura, anche se trafigge come le sequenze di questo perfetto disegno drammaturgico. Fantasmi sadomaso, attori irreprensibili soggiogano la scena: Gianluca odalisca con cascata di perle, Gustavo trans dal gran cuore pulsante, la danza implacabile di Grazia, Antonella la spogliarellista, il turista per caso di Nelson, poi operaio simbolo con torcia e caschetto riverso sul nero pavimento, gli spasmi da elettrochoc di Pepe bruciato vivo, la bici nel buio di Mario, la Giulietta di Lucia che si sgola per spogliarci della nostra identità, che importa Capuleti o Montecchi, rinunciamo al nome. Scarcerati, finalmente assolti. Delbono scatta foto impertinente, veste gli abiti del potere, trasuda, corre, patisce, impreca. Smaschera dolore e potestà a modo suo, da fuoriclasse senza pudore. Per finire ignudo sublime provocatore del sipario, vittima e carnefice di una madre che lo voleva solo per sé, Un piccolo uomo in frac, chiude questa struggente danza poetica d'immagini e dell'anima: Bobò. Sordomuto, analfabeta, cinquanta anni di manicomio solcano il suo volto fanciullo. Accarezza gli armadietti, li apre, si specchia dentro, sussulta. Svincolato, pulito, immune, con lo sguardo da lupo che anche se lo addomestichi guarderà sempre verso la foresta. Prima mondiale con il pubblico delle grandi occasioni per questo spettacolo da non perdere assolutamente, che Delbono dedica al padre.Gran finale nel foyer con danza liberatoria e collettiva con il gruppo di Rom ospiti della serata.

Francesca Motta

Delbono, urlo senza fine contro "La menzogna"

MONCALIERI (Torino)

Ci sono molti modi di urlare. Pippo Delbono lo fa con eleganza, in maniera addirittura sofisticata: poche parole, suoni e musica che trasformano il cervello degli spettatori in un puntaspilli, emissioni vocali e gestuali strappate all'anima di chi, sulla scena, lavora e insieme vive. «Il teatro dev'essere un grido» teorizza Pippo. E L'urlo, non a caso, è il titolo di uno dei suoi ultimi spettacoli. Eppure ne "La menzogna"studio" con il quale ha inaugurato, l'altra sera alle Fonderie Limone di Moncalieri, la stagione 2008-09 dello Stabile di Torino (direttore Mario Martone; presidente Evelina Christillin), Pippo rende il suo urlo qualcosa di letale, al quale non si sfugge. Qualcosa che uccide senza possibilità di scampo. Una pallottola dum dum. Le vittime? Tutte nel titolo. Sono gli infingimenti che reggono il mondo in cui ci tocca vivere, quelli esterni (dalle condizioni di lavoro in cui maturano le "morti bianche" all'impossibilità di comunicare se non latrando) e quelli interiori, cui è sempre più ingrato e difficile togliere il velo. Delbono, artista del comportamento più che semplice teatrante, parte dal rogo torinese dello scorso anno alla Tyssen-Krupp e dagli operai morti nel fuoco, per allargarsi alle menzogne planetarie, ai finti sorrisi del potere, alle inquinate speranze di futuro in cui si dibattono i dominati. Scava dentro il buio della natura umana (di prima, di ora e di poi) a caccia di un senso, uno qualsiasi, per il quale valga la pena continuare a rischiare. E in palcoscenico mette trappole di ferro, un podio oratorio da dove potrebbero aver parlato tutti gli eretici della Storia, scale, scivoli, percorsi di legno e di metallo attraversati da mille ostacoli, corpi allacciati nel ballo, un budda coperto di perle e file di armadietti laccati (per le tute degli operai della Thyssen, ma anche per gli umani abbaianti che si nascondono sotto cuoio, borchie e occhiali scuri). E' il regno infernale, questo groviglio di materiali e di linee, della numerosa compagnia, fatta di attori e di freaks, di sacerdoti e puttane, di santi, navigatori e semplici italiani. Tutti chiamati a incarnare il Dolore. Lui, Delbono interpreta se stesso, l'innamorato della vita, uno che assapora ogni minuto con voracità dolceamara, sempre a un passo dalla paura. La gente "vede", ascolta, subisce, patisce, si sforza di capire, realizza, s'infuria. O piange, gaudiosamente. Al pari dei quadri di Francis Bacon, ai quali Delbono s'ispira; al pari di Kafka onnipresente, di Nitzsche forse inconsapevole, di Shakespeare di Sogno una notte di mezza estate e Romeo e Giulietta, rispettivamente citati da una testa d'asino dondolante sul corpo ignudo del budda e da una ragazza in nero che strilla l'inutilità d'essere Montecchi, Capuleti o altro), lo spettacolo straccia le convenzioni, l'armonia e la buona educazione di cui vestiamo, con arte, l'orrida ipocrisia. Nessuno può chiedergli d'essere lecito. Nessuno può aspettarsi qualcosa di diverso da un'esplosione di immagini e stati d'animo, conditi ora da Wagner, ora dalle struggenti note di un tango.
Alla fine, Delbono scende in prima persona nell'arena per toreare la propria esistenza. Denuncia la propria menzogna. Le toglie la maschera. Davanti agli occhi attoniti di Bobò, creatura sordomuta in frac, liberata un bel giorno dal manicomio in cui aveva trascorso decenni di reclusione (è il suo attore di riferimento), si spoglia, si offre alla platea nudo, indifeso, ancora intrappolato nelle carezze di una madre «che lo voleva solo per sé». Un Ecce Homo Nietzche ancora, non a caso. Nessuno tema di dover "capire", di doversi districare fra reminescenze scolastiche, magnifiche immagini e faticose decodificazioni. La menzogna arriva, addosso a chi le sta davanti, come un libro stampato o come una doccia di brividi. Indifferentemente. La si può leggere, la si può assumere, Oppure ci si pensa su una volta arrivati a casa, magari mangiando, bevendo, facendo l'amore o decidendo di trascurare, per una volta, i telegiornali della notte. Alla "prima", folta di nomi della cultura, dell'economia e dell'arte, lunghi applausi per tutti. Lo spettacolo sarà a Roma, al teatro Argentina, il prossimo marzo.

Rita Sala

Thyssen, così brucia la verità

Torino, Acciaierie Thyssen Krupp. Nella notte fra il 5 e 6 dicembre 2007 sette operai muoiono ( o moriranno poco dopo) bruciati vivi. La voce fuoriscena di Pippo Delbono ci dice che proprio da lì, "da quell'incendio" parte il suo spettacolo La menzogna presentato alle ex Fonderie Limone di Moncalieri. L'epigrafe di Pippo è un omaggio a quegli operai morti sul lavoro in un modo così atroce da coagulare attorno a sé non solo la memoria ma la coscienza civile e politica di un'intera città. Ma è anche uno sguardo umano, molto umano che nasce dalla pietà, dalla rabbia, dal rifiuto. Che si riversa sul pubblico assiepato nella grande sala dove c'è anche uno degli scampati al rogo che di Delbono è diventato amico mentre non ci sono i parenti delle vittime. Del resto, spiegano, La Menzogna non è una ricostruzione di quel tragico evento e non si voleva sfruttare il loro dolore come "richiamo"; ma le porte del teatro sono sempre aperte per loro. Ma lì, sulla scena, basta un'agghiacciante film pubblicitario della Thyssen Krupp a fare accapponare la pelle nel tentativo di dare una risposta "edificante" alla domanda "Cos'è il futuro?" Un brivido se si pensa a chi da quel futuro è stato tragicamente escluso.
La menzogna parte così, con un'adesione che non è banalmente sentimentale ma è costruita attorno al desiderio, alla lucida consapevolezza di volere essere sempre e comunque dalla parte degli ultimi della terra , spesso destinati a non avere giustizia. Gli stessi ai quali in un filmato padre Alex Zanotelli si rivolge parlando di democrazia e antidemocrazia , di ricchezze estreme e di estreme povertà. E' dentro questo magma incandescente che si muove il crudo e crudele spettacolo di Delbono. Un punto di partenza al quale tornare alla fine: un cerchio perfetto in cui mettere quel dolore , quella sofferenza che i suoi compagni di vita e di lavoro conoscono benissimo per averla patita sulla propria pelle. Ecco allora che poco alla volta quello spazio scenico oscuro, lì fra gli armadietti dove riporre le proprie cose, fra praticabili che sostengono piattaforme dove salgono e scendono gli attori , al di là di un grande cancello-grata che delimita l'inferno di dentro dalla vita di fuori, si popola di presenze. Uomini e donne entrano uno a uno, a due a due – i movimenti e le coreografie sono perfetti – si svestono, indossano la tuta di lavoro, magari persi nei pensieri della vita di tutti i giorni , mai facile. Il cerchio si chiude all'improvviso : dentro una bara , , con un mazzo di fiori fra le mani. Torneranno alla fine , questi fantasmi bruciati vivi su reti di ferro simili a letti di contenzione di una follia collettiva.
Fra l'inizio e la fine Delbono opera una riappropriazione artistica – e dunque simbolica -, umana ,viscerale ma no per questo meno dolorosa. Contro quelli, sempre meno numerosi, che considerano le morti sul lavoro come "episodi", contro l'ipocrisia assurta a regola di vita, contro una menzogna che sta fuori ma anche dentro di noi, il regista e i suoi attori vogliono battersi: come non chiamare tutto questo se non teatro politico , civile? Fuori scena molti la condividono e il procuratore della Repubblica Giancarlo Caselli e il sindaco Sergio Chiamparino sottolineano la forza di questa coscienza collettiva. Ma ecco in scena agli operai si sostituiscono borghesi impomatati scappati fuori da qualche "Opera da tre soldi2 di brechtiana memoria, ragazze vestite di cuoio nero, preti di almodovariana "mala educaciòn", razzisti maneschi. Ci si denuda anche: un gesto quasi sacrificale, un affidarsi agli altri con la propria fragilità come ci testimonia quella formidabile "corte dei miracoli" che è la compagnia di Delbono. Ma è al mitico Bobò che tocca lo straziante addio senza parole a chi non c'è più: una carezza agli armadietti, uno sguardo verso il pubblico. La menzogna di Delbono è un'opera sul dolore a suon di musica ( da Zarah Leander a Stravinskij e Wagner ) senza ammiccamenti: senti, al contrario, nella dedica finale 2° mio padre" il bisogno di ritornare a quell'atto spesso d'amore da cui siamo nati. Un pugno nello stomaco per alcuni , per altri qualcosa da non condividere fino in fondo: segno della vitalità di questo spettacolo applaudito con calore e a lungo. Vitalità e vita che ritroviamo a fine spettacolo nella danza del ventre di una giovane rom, nella vicinanza di una comunità il cui capo,Zoran, è un amico di Delbono. Uno scambio di energie e di culture, di cui questo teatro trae la forza della sua verità.

Maria Grazia Gregori

Padroni sadomaso, sacrifici rituali

Torino

All'inizio c'è un operaio che arriva in fabbrica, si toglie i vestiti e indossa la tuta da operaio: prima di iniziare il lavoro, piega diligentemente le sue cose in un armadietto triste, e mentre li deposita sembra che licenzi anche la sua umanità, che la metta a dormire. Poi ne arriva un altro, e un altro ancora, fino a Bobò che prende il casco giallo, icona dell'operaio metallurgico, e lo indossa nel suo modo lunare, picassiano. Il rito della vestizione/svestizione si compie sette volte. Sette come gli operai bruciati vivi nella notte tra il 5 e il 6 dicembre del 2007 nel rogo della Thyssenkrupp. Sette sacrifici umani scambiati per fatti accidentali. Nel più angosciante silenzio, Pippo Delbono introduce le figure del suo viaggio, un'ouverture che parte dalla realtà colta nella sua violenza ordinaria, là dove l'omicidio si nutre delle scorie di una civiltà opulenta, della polvere di un tavolo d'ufficio, del ferro arrugginito di una sedia dove un corpo anonimo viene buttato ogni giorno, come un sacco.
Con La Menzogna , spettacolo inaugurale della nuova stagione dello Stabile di Torino diretto da Mario Martone, Delbono ci fa sentire l'odore pestilenziale di una fabbrica-mondo, declinando le proprie ermetiche visioni sul piano di una composizione poetica che non si assesta su una linea drammaturgica precisa attirando a sé musica, video, danza e pittura in un respiro irregolare e affannoso come la vita stessa.
Dallo schermo, il padre missionario Alex Zanotelli parla (dai microfoni di una rete televisiva) di povertà, economia e finanza, disegnando le coordinate di un mondo al collasso dove 3/400 famiglie detengono la metà della ricchezza mondiale; nello stesso video, appare, come un lapsus, un lavoro astuto dell'inconscio, una vecchia pubblicità della Thyssenkrupp che promette benessere e futuro. Queste le cose dette: le verità e le menzogne. Ma sono quasi le uniche parole - messaggi registrati e riportati come da un altro pianeta- in uno spettacolo che d'improvviso mette le radici sottoterra.
Da una landa mercuriale, nascono le figure di un bestiario - preti e ballerine in abiti sadomaso, le teste coperte da tessuti che disegnano forme astratte -, ospiti di un circo immaginifico che evoca 8 e mezzo di Fellini. Nella parata livida del potere, ciascuno assume la sua posa plastica, abitando un traliccio fatto di scale e sottoscale, luoghi d'inferno, nascondigli dove non passa mai nessuno. Eleganti e sornioni, questi uomini e queste donne sessualmente potenti iniziano un ballo in maschera assecondando le sonorità di vecchie canzoni francesi. Festeggiano, forse, il sacrificio appena compiuto. Ballano sui cadaveri che hanno allegramente seppellito.
Mentre lo stesso Delbono si prepara a scatenare il verso ancestrale, il rumore vero di quelle anime nere. Avvitato in un abito padronale, con i capelli unti di brillantina, il regista-attore si fa demiurgo di uno spettacolo "osceno", dove i preti chiudono a chiave donne mezzo svestite dentro gli armadietti della fabbrica. Una macchina fotografica, un microfono e infine un manganello diventano progressivamente strumenti di amplificazione di una realtà occulta, detonatori d'irrazionalità. Nel verso bestiale, nella risata satanica riverberata all'infinito, agisce la rappresentazione non verbale di un sistema totalitario che ha ucciso padri e figli in un pasto totemico, dove il totem è il capitale.
Gli operai tornano nella parte conclusiva dello spettacolo, ormai privi di vita, corpi bruciati da portare pietosamente in braccio e da deporre sul palcoscenico, per esporli, inermi, allo sguardo di quel pubblico che Delbono qualche minuto prima aveva fotografato, cercando forse nei visi della gente comune una risposta alla questione della menzogna.
Tema che Delbono, nell'ultimo movimento di quest'opera a più finali, riporta drammaticamente a se stesso, esponendosi nudo come Gianluca, come Bobò, come le creature più disarmate della sua compagnia che i fasci di luce hanno il potere di ritagliare come personaggi di antiche pitture. Ed è di sapore pasoliniano la confessione degli ultimi quadri: «Scusate per la menzogna che mi porto dentro dal tempo che mia madre mi lavava... per tenermi lontano dagli sguardi, per avermi tutto per sé... Scusate per la menzogna che mi porto dentro dal tempo in cui... tra gli specchi... spiavo mio padre svestito».
Nonostante qualche superflua nota sentimentale e la disomogeneità di una composizione che dichiaratamente si annuncia come primo studio sul tema, La Menzogna ci regala alcuni quadri folgoranti di stile bauschiano. E c'è, nel piano sonoro di quest'ultima opera di Delbono - tra i miagolii dei corpi inermi e i latrati degli assassini - un sedimento arcaico di una violenza che, nei suoi riti sacrificali, rivela una costante antropologica: «I meccanismi fisiologici della violenza variano ben poco da un individuo all'altro, perfino da una cultura all'altra - scriveva René Girard, citando a sua volta Anthony Storr ( Human aggression ) -... niente assomiglia maggiormente a un gatto o a un uomo adirato di un altro gatto o di un altro uomo adirato».

Katia Ippaso

La menzogna della Thyssen e la nostra

Torino

Più che emozioni sono pugni allo stomaco. Coltellate che risvegliano le coscienze indolenti, paghe di piccole buone azioni quotidiane.
Dello studio di Pippo Delbono, che ha portato in teatro la tragedia della Thyssen, rimane forte il bisogno di fare i conti con se stessi. Con i nostri acquietanti meccanismi di rimozione, con il moralismo infiltrato, che orienta e manovra comportamenti e giudizi, con la nostra capacità di metterci a nudo. Persino con quella provvidenziale attitudine alla sopravvivenza, fatta di automatismi e di buone licenze, che ci dispensa dal sentirci coinvolti.
«Dopotutto non è colpa mia.
Non posso farmi carico dei mali del mondo. O forse potrei, ma mi mancano i mezzi».
Anche questa è la nostra menzogna, la nostra maschera, l'anestetico che demanda a terzi il nostro dolore, e lo snatura in pietà collettiva.
E La menzogna è anche il titolo dello spettacolo – studio che martedì scorso ha inaugurato la stagione dello Stabile torinese, alle Fonderie Limone di Moncalieri. Un luogo che «contiene la memoria di una fabbrica – dice il direttore Mario Martone –, e che per questo ne ospita una versione speciale, un pezzo unico» creato ad hoc. Dove il rogo dell'acciaieria Thyssen-Krupp è occasione e punto di partenza di un «viaggio politico, poetico e spirituale». Un viaggio personale, molto personale, eppure prepotentemente simbolico.
Prima, la rabbia e il dolore compresso, imploso, che ha i caratteri della lentezza, del silenzio, dei movimenti impediti da una forza opposta, che ammutolisce e trattiene: potrebbe riguardare l'orrore paralizzante della tragedia avvenuta, oppure l'alienazione di chi ha ceduto le armi.
Poi i lamenti, i guaiti, l'abbaiare ringhioso di uomini-cani, in un contesto che ampiamente cita L'opera da tre soldi, tra puttane, malavitosi e mostruosi esseri con le orecchie d'asino e gli occhi bendati. Agli ordini, parrebbe, di un Del Bono un po' Peachum un po' Mackie Messer, in divisa da padrino e brillantina d'ordinanza.
Infine Giulietta, da un balconeponteggio, che urla il suo strazio. La tragedia più classica delle tragedie d'amore, per raccontare di troppi amori interrotti, in un crescendo di rabbia e disperazione.
Dopo il debutto torinese, lo spettacolo sarà in scena per il XVII Festival dell'Unione dei Teatri d'Europa, a Bucarest, e quindi a Roma, al teatro Argentina, e a Parigi.

Alessandra Bernocco

Con la Thyssen Delbono riscopre il teatro civile

Torino. Accade ancora - ormai sempre più raramente, ma accade - che il teatro riscopra la sua naturale vocazione di arte eminentemente sociale. È accaduto a Torino, dove Mario Martone ha scelto di inaugurare la stagione dello Stabile, la prima della sua direzione, con quello che lui definisce «un atto apertamente politico»: il nuovo spettacolo di Pippo Delbono, intitolato «La menzogna - Studio» e ispirato alla tragedia, per l'appunto torinese, della Thyssen-Krupp, l'incendio in cui, nella notte fra il 5 e il 6 dicembre dell'anno scorso, persero la vita sette operai. Lo spettacolo - prodotto dallo stesso Stabile torinese, dal Teatro di Roma, da Emilia Romagna Teatro, dal Théâtre du Rond-Point di Parigi, dalla Maison de la Culture di Amiens e dal Malta Festival Poznan - ha debuttato alle Fonderie Limone di Moncalieri appena pochi giorni dopo che il procuratore Raffaele Guariniello ha chiesto il rinvio a giudizio per sei dirigenti della multinazionale tedesca. Quel debutto, dunque, assume anche un alto valore di testimonianza civile. Ed ha ancora ragione, Martone, quando osserva che, a circa un anno dal terribile rogo, una simile apertura di stagione avviene «non per commemorare, ma per partire da lì e rimettere in movimento il pensiero, oltre che l'emozione». Ebbene, nell'allestimento di Delbono - a parte uno spot della multinazionale proiettato all'inizio e i corpi dei morti portati in scena sul finale - non si parla e non ci si fa vedere alcun «documento» né della Thyssen-Krupp né dell'incendio. Ma ci viene mostrato il prima e il dopo di quella tragedia: gli operai che arrivano in fabbrica e l'incedere lentissimo di una donna in nero impiccata al dolore. Ed ecco il pensiero. Uno di quegli operai trova proprio nell'armadietto dello spogliatoio il mazzo di fiori che lui stesso si deporrà sul petto sdraiandosi nella bara. La morte, insomma, è insita nel lavoro. E non si tratta, assolutamente, dell'esatta trasposizione teatrale di quanto sostiene Guariniello, che il rogo nella Thyssen fu il prodotto «di una politica aziendale»? Del resto, una processione di dame in sontuosi abiti da sera, di conigliette da «Playboy», di maschere da «Eyes wide shut» e di cappucci da Ku Klux Klan costituisce l'«altro» che si muove fra i tubi, le scale e i ponteggi in cui Delbono riassume l'idea della fabbrica: quei personaggi, simboli del capitalismo di rapina denunciato in un video da padre Alex Zanotelli, s'identificano con la loro Thyssen, sono la Thyssen; e la Thyssen s'identifica con loro, è loro. Di contro, un Pippo Delbono che, alternativamente, assale con una spranga di ferro i tubi, le scale e i ponteggi o invoca Gianluca, il suo attore down chiuso nella lontana innocenza del suo bianco corpo nudo. Pippo impersona la cattiva coscienza: quella dei troppi silenzi, delle troppe parole, delle troppe omissioni, delle troppe complicità, dei troppi compromessi, delle troppe vigliaccherie. Eccola, la menzogna del titolo. È la menzogna perenne del grande manicomio che ci ostiniamo a chiamare società. Ad essa Delbono non sa opporre, alla fine, che il rifugiarsi a sua volta in un sogno d'innocenza, spogliandosi anche lui nudo e dedicando lo spettacolo «a mio padre». E questo rappresenta l'emozione. Ma, in fondo, è pure il limite dello spettacolo, che non riesce a mantenere il giusto equilibrio fra le due dimensioni della denuncia e dell'autobiografia, con la seconda che finisce per prevalere nettamente sulla prima. «La menzogna - Studio» sarà al Mercadante dal 15 al 26 aprile. È, come si sarà capito, un allestimento in cui coesistono momenti di corrusca poesia, conati di sacrosanta rivolta e pause di facile manierismo. Forse a far giustizia di tutto - delle Thyssen, delle manchevolezze nostre e delle contraddizioni del teatro - è la lieve danza finale di Bobò: il microcefalo sordomuto che in manicomio, quello vero, ad Aversa, c'è stato per quarant'anni e adesso, dice Pippo, è libero come il lupo, che, anche se addomesticato, continua a guardare verso la foresta.

Enrico Fiore

Morti bianche, la sfida di Delbono

Nascono sempre come una sfida gli spettacoli di Pippo Delbono. Possono irritare o avvincere totalmente. Di sicuro davanti ad essi non si può rimanere indifferenti. Nascono da domande e interrogativi che ci impegnano, nascono da inquietudini e dalle ombre nascoste in noi, ma con la volontà sempre di riaffermare la vita. Del resto è questa la vera funzione del teatro. Scuotere le coscienze. Allarmarci. Accumulando immagini ad alto tasso evocativo e grondanti ironia – è questa la sua caratteristica –, Delbono costruisce una drammaturgia della sofferenza o del dolore che tocca la pietà. Non sfugge La menzogna (titolo forte, che si carica di indignazione) portato sulla scena delle Limone Fonderie di Moncalieri ( Torino), destinato a percorrere un lungo cammino.
Uno spettacolo che tocca un tema più che mai attuale: quello delle 'morti bianche'. Lo spunto è in quella tragedia pubblica, quel vero eccidio che si consumò lo scorso 5 dicembre nella sede torinese della fabbrica tedesca Thyssen Krupp. Con la sua singolare compagnia di attori che unisce professionisti a campioni dell'emarginazione (non manca il mitico Bobo a cui viene affidata la scena conclusiva) che da sempre lo accompagnano nelle sue avventure sceniche, introducendosi fisicamente in quel luogo di dolore e morte, ha respirato Delbono quella luttuosa atmosfera e l'ha voluta trasferire in palcoscenico. Ma a differenza di quel che ha fatto Mimmo Colapresti nel suo bellissimo e documentaristico film, Delbono allarga il senso. Le morti bianche di Torino sono solo il simbolo di tutte le vittime della trascuratezza di chi ha il potere, ma anche della nostra indifferenza. E la menzogna del titolo allude allo strazio ufficiale e al tormento retorico che ne seguì. Trascura il racconto, Delbono, e lancia un grido d'allarme e d'angoscia. La sua rappresentazione diventa così una sorta di lamento che si congiunge all'epos della grande tragedia classica. Si congiunge o tenta di congiungersi perché l'esito artistico, e il coinvolgimento emotivo, non sembrano pienamente raggiunti (e la platea l'avverte). Forse perché Delbono non compie nessun salto espressivo: ancora una volta sfrutta gli stilemi a lui tanto cari che finiscono però col diventare una maniera. Stilemi che vogliono dire l'incontro fra il teatro di parola e il teatro-danza (la scuola è quella della Bausch), l'uso del filmato (sarcastico lo spot messo in campo) e il sovrabbondare della colonna musicale (tra languide e melodiose canzoncine d'epoca nazista, Wagner e Le Sacre du Printemps di Stravinskij).
Un teatro, ancora, quello di Delbono, sommamente visionario, dove gli attori – e la disciplina dell'ensemble è ancora una volta impeccabile – diventano fantasmi. Fantasmi, che talora il volto coperto da maschere zoomorfe, in una atmosfera da incubo kafkiano, vengono qui usati per celebrare una sorta di danza macabra dove coinvolti sono i potenti e le vittime. Suggestiva certo, ma che non raggiunge, è l'impressione a caldo, il significato propostosi.

Quello shock elettrico della morte in fabbrica

Il silenzio. Di una consistenza diversa da quello che sui ruderi della vecchia Gibellina seguiva il boato del terremoto. Il silenzio dei gesti abituali, ritmati da una lentezza capace di dar vita a una sorta di ritualità. All'inizio c'è solo questo silenzio, a lungo, mentre un uomo si avvicina a un paio di armadietti metallici, inquadrato in uno sghembo taglio di luce che lascia in vista solo un angolo della scena. Si toglie il vestito e indossa una tuta operaia. Un altro arriva in bicicletta. Poi altri uomini e donne. Si cambiano a loro volta d'abito, si avviano verso l'apertura che li inghiotte, sul fondo della scena. Passa anche il piccolo Bobò con il casco giallo d'obbligo per i lavori pericolosi.
Per arrivare negli eleganti spazi teatrali ricavati all'interno delle dismesse Fonderie Limone di Moncalieri, si costeggia il mastodontico complesso del Lingotto, la vecchia città-Fiat con intorno le file di case operaie. La ThyssenKrupp invece sta nella zona nord della città, sulla Dora. Bisognerebbe farlo per intero, a occhi ben aperti, questo giro per luoghi che non sono solo archeologia industriale ma memoria di uomini e donne. Entrare per un momento in questi vasti spazi, respirarne l'odore. Mettere da parte qualche radicato pregiudizio.
La notte fra il 5 e il 6 dicembre 2007 scoppiò un incendio in una delle linee della Thyssen. Morirono sette operai. Da quell'incendio, dalla memoria di quei morti, prende il via dichiaratamente La menzogna con cui Pippo Delbono ha inaugurato la stagione dello Stabile di Torino. E tuttavia La menzogna non è uno spettacolo sulla tragedia della Thyssen, o sulle morti bianche, così come Il silenzio non era uno spettacolo sul terremoto, ma su ciò che lo aveva seguito. Il silenzio dei vivi e dei morti. Dopo comincia lo spettacolo, o ciò che provvisoriamente possiamo chiamare con questo nome. Sempre, comunque. Se mai è uno spettacolo sul dolore. Sulla sua consolatoria esibizione, sulla difficoltà di viverlo in profondità e non come menzogna (la tirata ideologica di padre Zanotelli sui guasti della finanza globalizzatrice simmetrica all'ottimistico developping the future di un filmato pubblicitario della multinazionale tedesca). Quando a mio padre si fermò il cuore non ho provato dolore, dice Delbono citando una canzone di De Andrè. Prima di scendere sulla scena a impomatarsi i capelli e mettersi elegante in mezzo alle figure mascherate che intanto hanno preso possesso dello spazio scenico, dove nell'oscurità si è rivelata un'impalcatura metallica a diversi piani.
Uomini e donne vestiti di scuro, anche qualche prelato. Come un Balcon genettiano, o un film di Buñuel. Ma il fascino discreto di questa borghesia non nasconde la finzione, amplificata figurativamente da una coppia celata sotto grandi cappelli carnevaleschi. Ed ecco che ci troviamo ricondotti nel mezzo delle immagini sempre un po' surreali che si affollano nel mondo onirico di Delbono. Danzano queste figure sulle musiche di vecchie canzoni tedesche degli anni 30, tipo Zarah Leander. Assistono senza passione allo spogliarello di una ragazza. Abbaiano come cani alla luna. Trasformano gli armadietti industriali in reclusori confessionali. Mentre esplodono musiche emotive, dai pieni orchestrali di Michael Galasso al Sacre di Stravinskij fino alla voce di Juliette Greco.
Fra queste due zone mentali e fisiche dello spettacolo (studio, lo definisce però il sottotitolo) si apre un'altra zona, una terra di nessuno. A questa, potremmo dare il nome di fascismo. Non quello risibile dei camerati nostrani. Forse quel che nella parola vi leggeva Pasolini. Di cui è solo uno specchio il bisogno quasi fisico di colpire, di dar botte di manganello alla cieca e scagliare parole di rabbia contro poveri o diversi. È che nelle acque scure del teatro, spesso torbide, bisogna immergersi. Lasciarsi andare a fondo. E vedere cosa si porta a galla.
Alcuni minuti di pausa, annuncia Delbono. Forse perché la violenza accumulata è ormai al culmine. Si fa luce in sala. Ed è il momento più dolce, più umano cioè. È il Delbono buddista, se si vuole. Sfuggendo ai richiami del regista, Gianluca Ballarè corre nudo e leggero come un gatto. E c'è spazio anche per una passerella di Bobò che manda baci e stringe le mani degli spettatori, già prima oggetto delle attenzioni fotografiche dell'artefice. Mentre Nelson, basco rosso e zaino in spalla, da artista di strada porta in giro una natura morta incellofanata.
È il prologo a un'esplosione di corpi. Nudi, rabbiosi. Scossi da uno shock elettrico. Portati a braccia in scena come morti. Illuminati in volto con una torcia, il casco giallo poggiato lì accanto ormai inutile. Mentre tornano a contrappunto le figure mascherate di prima e una Giulietta urla al suo Romeo le parole di Shakespeare in lotta col crescendo della musica di Wagner (Lucia Della Ferrera parla! vien da dire con le parole usate per la Garbo). In questo denudamento che non risparmia neppure l'artefice si consuma la volontà di misurarsi con i propri fantasmi, con la propria vergogna. E se la dedica finale "a mio padre" rivela molto, forse troppo, attraverso la crudezza dello smascheramento emerge la consapevolezza di una più profonda pietas. Può essere forse un caso, ma intorno a questa parola si confrontano oggi Platel e Delbono, i due artisti che illuminano questo autunno teatrale.

Gianni Manzella

L' urlo di Delbono fatica a colpire il cuore

La menzogna-Studio di Pippo Delbono si ispira alla tragedia delle acciaierie Thyssen-Krupp nella quale un anno fa morirono arsi vivi sette operai. Quel terribile accadimento, evocato all' inizio e nel mezzo dello spettacolo, lascia spazio, dopo un filmato nel quale padre Alex Zanotelli stigmatizza l' iniqua distribuzione della ricchezza nel mondo, a un vorticare di immagini, ormai stilemi dell' espressività di Delbono, in un divenire di musiche, rotto da poche parole dette dallo stesso Delbono. Immagini che raccontano, con facile semplificazione - buoni, cattivi, male e bene - il cinismo di ricchi borghesi rappresentati da attori in eleganti costumi da sera che danzano il perenne tango dell' indifferenza, della menzogna e del profitto. Donne e uomini dai volti coperti da maschere: un' umanità deforme. Sul palcoscenico scale e ponteggi di ferro, scrivanie, panche che diventano bare e da un lato gli armadietti della fabbrica dove all' inizio gli operai, a piedi o in bicicletta, compiono il quotidiano rito di vestizione e svestizione in un silenzio materico, cupo presagio di morte, per sparire inghiottiti dalla porta di fondo della fabbrica. Operai che ricompariranno a metà spettacolo: uomini nudi in preda a feroci dolori per poi irrigidirsi nella morte. E ancora, il monologo di Giulietta urlato su note di Wagner, il latrare disumano dei ricchi mostruosi, il correre nudo di un ragazzo down che miagola, il denudarsi di Delbono a mostrare il suo desiderio di innocenza, incarnato nel sordomuto Bobò che in frac accarezza i grigi armadietti, estremo fanciullesco saluto. E l'emozione dello spettatore è inevitabilmente sollecitata da uno spettacolo che è per Delbono ormai una formula chiusa che qui fatica, quasi prigioniera di se stessa, a farsi tragedia, a diventare un urlo che colpisca cuore e mente.

Magda Poli

Ultima modifica il Mercoledì, 09 Ottobre 2013 13:22

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