con Maurizio Micheli
di Simonetta e Micheli
Regia di Luca Sandri
Teatro Brancati di Catania 2011
Se qualcuno dubitasse dell'opportunità di riproporre integralmente e senza una grinza di attempamento uno spettacolo di trent'anni fa (cucito addosso ad un attore della razza di Micheli, trentenne anch'egli al debutto, ed oggi ovviamente "gravato" da una età anagrafica felicemente contraddetta dalla sua tenuta fisica) dovrà almeno concordare sulla conclamata attualità della sua essenza. Che è quella della "condizione" attorale nella sua aurea-mediocritas, non suffragata da successo e capacità contrattuale, alla mercè di impresari mascalzoni e di micro spettacolini in balere o sottoscala (il teatro fu- underground, buono per i reumatismi, ancora vigente fra chi gavetta in beata velleità). Condizione peraltro peggiorata (avvenuta disfatta d'ogni politica culturale) in una sorta di astanteria della dismissione o perenne illusione di genialità incompresa.
Se al posto di Strehler poniamo (a mò d' esempio) l'attesa di un provino televisivo (nuovo totem di anime belle) per l'accesso ad un ruolo da serial -che affranca dal "bisogno"ed elargisce redditizie, stagionali scritture ad attori d'ogni età- afferriamo al millesimo l'ansia da prestazione, la compulsione variegata e delirante, il gramelot di idee prolisse e confuse che Maurizio Micheli "ripassa" con le sua straordinarie capacità di attore brillante e "perdente", maestro delle sfumature, dei mezzi toni, dell'eleganza dello stare in scena scientemente contraddetta dalla invadenza di una condizione bifronte, lesta a precipitare nel suo opposto di imbranato provincialismo, di puerile incomprensione delle "regole del gioco"- precotte in sede di casting, marketing e produzione.
Convinto di militare tra le fila di un teatro perennemente "alternativo", in realtà striminzito in una sorta di edicola-trousse, dove l'unico a spadroneggiare è il datore di lavoro becero e invadente, il giovanotto di frustrate speranze si accinge al fatidico appuntamento non sapendo se dare i resti ad un pubblico (invisibile) che lo riempie di contumelie o ripassare come un guru i santini dell'avanguardia (Brecht, Artaud, Living Theatre), che ambirebbe incarnare con poche risorse sia di talento sia di faccia tosta.
Umberto Simonetta, che fu tra i massimi autori del teatro brillante e amarostico del secolo scorso (e quindi puntualmente dimenticato, raramente rappresentato) infonde al monologo le spezie e i sapori di quel certo modo di "vivere" la scena tra le nebbie dei navigli, le notti al Derby club e "il tirar mattina" dalle parti del San Girolamo, per una sorta di Milano "bevuta da altri" che appartiene più alla fantasia che all'universo dei ricordi reali (né più né meno che la "dolce vita" inventata da Fliano e Fellini).
E la bislacca, "esitante" grandezza di Micheli consiste, in fondo, nell'infondere "classicità" ad una condizione umana che oscilla fra Gogol e "Luci del varietà", fra il travet della passerella e il sognatore micro-dostoewskiano di un riscatto non tanto impossibile, quanto affogato (come lo scherno mortale del prof. Unrat dell'"Angelo azzurro") nel doversi esibire dinanzi all'Altissimo (regista) trastullandolo con il più atroce brano del suo detestato repertorio....quel "così volea volare l'uselin de la comare...." che avvilirebbe, ora e sempre, il più testardo dei guitti
Angelo Pizzuto