venerdì, 29 marzo, 2024
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INTERVISTA A MAURIZIO MICHELI - di Francesco Bettin

Maurizio Micheli Maurizio Micheli

Irresistibile interprete lo è da molti anni, Maurizio Micheli, con una comicità variegata, completa, tecnicamente ineccepibile e un aplomb al tempo stesso da invidiare. Attore comico, brillante, anche drammatico (ma solo qualche volta), Micheli è un vero gentleman dello spettacolo, un interprete puro che dalla sua ha grande tecnica e tanta esperienza, quella importante, costellata di grandi collaborazioni, grandi spettacoli dai successi pieni (ad esempio, al Sistina con Garinei e Giovannini). Nato a Livorno, formatosi teatralmente a Bari, al Centro Universitario Teatrale, poi diplomato al Piccolo Teatro e in seguito laureato al DAMS di Bologna, Micheli ha fatto di tutto, dalla tv con Jannacci (il geniale “Saltimbanchi si muore”, a quella con Celentano (“Fantastico”), al cinema, al teatro leggero e brillante, quello caldo, vero, importante. E ha messo in scena un suo monologo per 1500 volte, “Mi voleva Strehler”, scritto con Umberto Simonetta e plurirappresentato, appunto. Un attore d’essenza, che ama il suo lavoro moltissimo. Lo abbiamo incontrato a Bassano prima della replica di “Servo di scena” con Geppy Glejieses e Lucia Poli, dove interpreta proprio Norman, il tuttofare di Sir Ronald, un altro strepitoso ruolo che gli si confà moltissimo, che gli spettatori sanno premiare.

Parliamo di emozione Maurizio…la si prova ancora dopo tanti anni di esperienza, quando si sale sul palcoscenico?
Quella c’è sempre, specialmente alla “prima” di un nuovo spettacolo e all’inizio di nuove repliche. Poi, se quello che si recita funziona bene l’emozione non dico che svanisca, però un po’ diminuisce, anche se rimane sempre, ci mancherebbe. Lo è il fatto stesso di ricordarsi il testo, ad esempio, perché spesso facciamo spettacoli impegnativi ed è importante stare in tensione. E ogni volta che facciamo uno spettacolo comico c’è sempre la famosa scommessa: rideranno o no?

E questo “Servo di scena”, che ormai terminate, com’è?
Uno spettacolo in prosa, con elementi di ironia tutta anglosassone, spiritoso, che vira talvolta anche un po’ sul drammatico, quindi la paura di ottenere la risata c’è un po’ meno. E’ un bel testo inglese di una quarantina d’anni fa, con molte situazioni anche divertenti, la storia di un attore sul finire della carriera, dispotico, capriccioso, anche cattivo, e del suo rapporto col servo tuttofare, che sono io, che lo ama e lo odia al tempo stesso. E’ una storia che parla di attori, della loro vita, dove si vuole far vedere che il teatro va fatto sempre anche se ci sono le bombe (l’ambientazione è quella della seconda guerra mondiale, ndr). In fin dei conti sono due pazzi, Norman e Sir Ronald, che pensano che il teatro sia un dovere, una missione a cui non si può rinunciare.

Lo possiamo anche definire un omaggio alla dedizione, all’amore che ha il servo di scena per il suo attore, un atto d’amore per il teatro?
Si, lo è ma come dicevo è anche una presa di coscienza, tutto sommato, sulla non indispensabilità di fare lo spettacolo ad ogni costo, anche in pieno conflitto. Sir Ronald, l’attore, deve e vuole andare in scena malgrado tutto. Io, personalmente, anche se il mio parere conta quello che conta, penso che in certi casi si possa invece anche sospendere, rinviare quando c’è una cosa grave come una guerra. Però consideriamo che loro portano in scena l’universalità dei testi di Shakespeare che sono fondamentali per capire la vita, Sir fa il “Re Lear” e in quel dramma c’è tutto. Forse è giusto così, allora, o forse no, chissà. E’ una riflessione su questo nostro mestiere.

Dove si annida, Maurizio, la vera arte del comico?
Lo sapessi…

Recentemente sei apparso in tv in uno dei tuoi pezzi di grande comicità, recitando l”Infinito” di Leopardi in marchigiano.
Quella cosa fa parte di un mio spettacolo che porto in giro e faccio ancora, “Uomo solo in fila”, la storia di uno che rimane chiuso dentro Equitalia e aspetta il suo destino. Non sa perché è lì, e cosa ha fatto, e pensa, riflette, racconta il suo passato. Cerca di fare un bilancio della sua vita e fra le varie cose parla anche di Leopardi, dicendo quello che probabilmente è vero, che il poeta parlava in marchigiano.

In scena vediamo sempre più spesso però non dei veri comici ma gente che vuol far ridere e lo fa talvolta forzatamente, senza mestiere e senza passione, sembra. Che ne pensi?
Oggi c’è il trionfo del dilettantismo, e la televisione la possono fare tutti. Anni fa per andarci a lavorare facevamo provini su provini, e gavette eterne di mesi, in compagnie di teatro, magari per dire tre battute. Oggi chiunque, vedi anche sui social, magari con qualche battuta e un telefonino, posta il suo intervento e diventa attore. Si saltano delle fasi, ecco.

Andare in scena oggi, nel Duemilaventidue com’è?
Sempre più difficile. Le novità, come quelle che scrivo anch’io sono viste sempre con sospetto e chi acquista lo spettacolo vuole andare verso titoli sicuri, e va da sé che c’è una diminuzione di testi nuovi proposti. Però il teatro si fa, meno rispetto a una volta, dove si facevano tournèe di 140-150 recite, oggi se ne fai 60-70 è già un miracolo, per dire.

Torneranno quei momenti?
Non lo so, è un po’ come per il cinema, che non è più quello di un tempo. I film passano sulle piattaforme, e magari fanno un piccolo rodaggio nelle sale. Il teatro però ha un vantaggio: essendo un’arte antica paradossalmente diventa quasi alternativo alle mille immagini che vediamo ogni giorno, perché c’è della gente più o meno viva che viene apposta a fare lo spettacolo sul palco, per lo spettatore, anche se certe volte è molto faticoso, soprattutto nei grandi spostamenti.

Il tuo momento di svolta nella carriera quando è stato?
Quando sono andato in scena con “Mi voleva Strehler”, la storia della mia vita, che avevo scritto assieme a Umberto Simonetta. Erano i tempi quando il teatro poteva cambiare la carriera di un attore giovane, oggi è più difficile, anche se come detto prima basta azzeccare una cosetta su qualche social media, e magari è fatta.

Hai avuto tu, Maurizio, il “sacro fuoco” della passione?
Si’, la passione è stata ed è davvero importante, io andavo a teatro tre ore prima e mi sdraiavo sul palcoscenico, pur di stare lì, e sognavo. Facevo il teatro universitario, si stava negli spazi teatrali tutto il giorno anche se si recitava la sera. Adesso, dopo più di cinquant’anni quella follia non c’è più, devo dire.

C’è qualcuno, oltre a te stesso, a cui devi dire grazie?
Un autore milanese, che è proprio Umberto Simonetta che mi ha “sistemato” il monologo che avevo in parte scritto. “Mi voleva Strehler” l’hanno fatto anche in Francia, dove tutti conoscevano Strehler anche per via del Teatro d’Europa. Un titolo pensato, perché i titoli sono determinanti a volte.

E lui, il grande regista, l’hai mai incontrato veramente?
Una volta sola, e so che lo spettacolo l’ha visto registrato, in videocassetta. Mi hanno detto che qualche volta aveva anche riso. Lui poi non amava il teatro comico, ma la commedia classica. Una bella soddisfazione, però, perché è stato certamente il più grande regista del mondo.

Saper ridere e far ridere, cos’è esattamente?
Una missione. Adesso spero proprio di tornare al teatro comico perché credo proprio che far ridere oggi sia fondamentale, e senza raccontare delle barzellette ma delle storie, delle commedie. Credo sia molto importante, davvero.

Francesco Bettin

Ultima modifica il Mercoledì, 07 Dicembre 2022 23:03

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