di Massimo Carlotto
tratto dal romanzo L'oscura immensità della morte
con Giulio Scarpati, Claudio Casadio
regia Alessandro Gassman
scene Gianluca Amodio, costumi Lauretta Salvagnin, luci Pasquale Mari, videografie e suoni Marco Schiavoni
produzione Teatro Stabile del Veneto in coproduzione con Accademia Perduta/Romagna Teatri
Teatro Goldoni, Venezia, dal 7 all'11 novembre 2012
Roma, Teatro Eliseo dal 18 al 30 marzo 2014
Genova, Teatro Stabile di Genova 8 – 13 aprile 2014
Un tragico fatto di cronaca, tratto dal romanzo di Massimo Carlotto, è rievocato sul palcoscenico in uno spettacolo dal ritmo incalzante e inquietante, e che non lascia tregua al dolore e alla disperazione dei due personaggi in scena: il marito, di cui la moglie e il figlio sono stati uccisi durante una rapina e il rapinatore stesso il quale, dopo aver scontato quindici anni in galera e gravemente ammalato di tumore, chiede il perdono della vittima. La regia di Alessandro Gassman indaga nella profondità dell'animo umano di fronte all'immensità della morte, e affida a Giulio Scarpati e Claudio Casadio il compito di comunicare al pubblico pensieri, ricordi, propositi, ingiurie, riflessioni che agitano i due personaggi. Giulio Scarpati, la vittima, esprime in maniera eccellente il turbinio della sua mente che va dal desiderio di vendetta alla considerazione del perdono, mentre Claudio Casadio impersona con realistica efficacia la figura del duro e grintoso rapinatore. Il linguaggio scarno e rude accentua il tono drammatico dello spettacolo, e nello stesso tempo la scena di Gianluca Amodio illustra e movimenta l'azione, completata dal supporto di proiezioni video.
Etta Cascini
A seguito del trauma dilaniante, Stefano cambia vita: lascia il lavoro rappresentante di commercio e diventa ciabattino ('al tacco svelto') in un supermercato. Non frequenta più nessuno, veste come un clochard, va a vivere in una stamberga di estrema periferia, dove trascorre il tempo, ormai immoto, a osservare 'catatonico' lo schermo televisivo o carezzare le foto dei cadaveri dei suoi cari.
Un (brutto) giorno Beggiato, colpito da un tumore inguaribile, chiede la grazia e –di conseguenza- il perdono di Stefano. Ma quest'ultimo, ormai, coltiva soltanto il 'sogno' della vendetta, architettando un piano (infallibile, sanguinario) per portarla a termine. Ma allora: dove risiede veramente ciò che per convenzione definiamo 'il male'? Nel gesto irresponsabile di un omicida facilmente pronto a dimenticare la sua colpa o nell'ossessione di una vendetta capace di rivelare gli anfratti più torbidi delle vittime? Dei due uomini protagonisti di questo romanzo, il colpevole e l'offeso, qual è il peggiore? Avendo oltrepassato entrambi la 'linea d'ombra' tra ragione e istinto.
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Lo 'spirito' dei tempi si riflette e si esplicita lungo lo scorrimento di una stagione teatrale abitata dai notturni fantasmi di Umberto Orsini (Il giuoco delle parti), dalle teratologie psico-fisiche del Riccardo III incarnato da Alessandro Gassman con esasperazioni espressioniste, dal la cupo (metafisico?) 'redde rationem' che ispira Glauco Mauri nella trasposizione teatrale (ne riferiremo la prossima settimana) di Una pura formalità dall'enigmatico film di Giuseppe Tornatore. Come se una plumbea cappa di dolore, insicurezza, vana e cieca rivalsa (verso chi? contro cosa?) pesasse sulla coscienza collettiva di una società derubata dei suoi beni più preziosi, non improvvisabili: la speranza del progettare, la scommessa del procreare, l'energia del 'fare' in uno stato di concentrazione mentale del tutto opposto al convulsivo efficientismo, all'esagitata competitività d'una selezione 'demografico\classista' non più darwiniana ma flagellante e 'asetticamente' maltusiana (come profetizzato nel Saggio sulla rendita del 1815).
Del resto il passaggio (rapidissimo) dagli 'spiriti animali' del profitto economico agli 'spiriti imbestialiti' della persona accecata, nel suo corto circuito di sofferenza e mancata catarsi (nemmeno il 'dono' di elaborare il lutto), mi sembra stia alla base dell'atro e disarmante lavoro di drammaturgia che Oscura immensità opera sulle 'vivide spoglie' del quasi omonimo romanzo di Massimo Carlotto.
Dando luogo ad un micro universo chiuso ed occluso, assediato (come in Prima del silenzio di Patroni Griffi\Gullotta) di ectoplasmi ed angosciose olografie tridimensionali, in un assedio di gabbie mentali dove è arduo distinguere tra chi preferisce esporsi al ruolo di vittima e chi a quello di carnefice, nella progressività 'ululata' dell'inversione dei compiti.
E nella 'necessità' narrativa che i due antagonisti ('inseparabili', come in un film di Cronenberg) non vengano mai a contatto, irretiti e poi divorati da due 'fiumi in piena' di monologhi interiori, spasimi e flussi di coscienza, cui Giulio Scarpati (barba incolta e sguardo di oltraggiata giovinezza) e Claudio Casadio (fisico da legnaiolo, faccia intarsiata di violenze inflitte e subìte) danno i connotati d'un realismo parimenti stoico e insurrezionale. Verso una specie di destino cui è difficile apporre nomi, responsabilità oggettive, lenimento per le 'avverse congiunture del fato'.
Pertanto, e come nelle premesse di regia (quasi attuazione contemporanea d'una biblica dannazione), lo spettacolo- di scena all'Eliseo di Roma- è come se s'inabissasse, proditoriamente, nelle più oscure, dostoewskiane 'ferite mai rimarginabili' della natura umana, mediante uno stile asciutto e inesorabile. E con cadenze espositive serrate, scarne, incalzanti (crudi i dialoghi, 'irrespirabili' le riflessioni di chi 'si affianca' alla morte). Donde è difficile staccarsi senza restarne turbati, straniti per tutto il tempo di una -per noi lunga –decompressione mentale.
Angelo Pizzuto
Una rapina, due morti, un criminale arrestato, un altro in fuga e il dramma di un uomo a cui sono stati ammazzati moglie e figlio.
Oscura immensità, trasposizione scenica del regista Alessandro Gassmann del romanzo di Massimo Carlotto, maestro del noir contemporaneo, indaga dinamiche feroci come la vendetta, la pena, il dolore e l'odio.
Già dall'apertura del sipario si percepisce un mondo senza colori; la privazione è, infatti, condizione esistenziale dei personaggi: grigie le scene come gli umori degli uomini.
Due i protagonisti, Silvano Contin e Raffaele Beggiato, rispettivamente interpretati dai bravi attori Giulio Scarpati e Claudio Casadio, vittima e carnefice, accomunati da un destino di solitudine e disperazione che, nel corso della storia, stravolgerà i ruoli.
In scena due punti di vista, due interpretazioni di una medesima vicenda narrata con parole intimamente pronunciate dai protagonisti spesso supportate da evocative immagini e proiezioni che fanno vivere ricordi o prospettive future sotto forma di visioni.
In un'ora e mezza si susseguono drammi esistenziali e personali: Beggiato, assieme ad un complice, uccide durante una rapina Clara ed Enrico, moglie e figlioletto di Contin, uomo che fino a quel momento viveva sereno la sua vita fatta di soddisfazioni e affetti. D'un tratto, la morte violenta e ingiusta della famiglia lo fa precipitare in una routine di giorni tutti uguali, privandolo di ogni desiderio tranne quello di vendetta.
Dall'altra parte Beggiato, condannato all'ergastolo, vive anch'egli una vita di giorni uguali finché, dopo 15 anni di galera, scopre di essere gravemente malato e, per questo, chiede perdono a Contin e grazia alla giustizia.
Spiega il regista Alessandro Gassmann che vendetta e perdono sono i temi focali di Oscura immensità ma la forza dello spettacolo non sta nella loro attualizzazione quanto nel descrivere l'impossibilità del perdono, in un vortice di sentimenti che portano alla trasformazione della vittima in carnefice e il carnefice in vittima.
Non esiste pietà in questa vicenda perché la pietà è un sentimento che non fa più parte della vita dei personaggi.
L''Oscura immensità' non è altro che l'attimo prima della morte, quel buio che ha avvolto Clara e che ha lasciato il tormento nel cuore di Silvano, sprofondandolo nell'oscurità in vita.
Gli attori interpretano drammi psicologici forti riuscendo a essere coinvolgenti e incisivi, la regia lineare permette di seguire e appassionarsi alla vicenda, le scene apparentemente semplici ma di grande effetto sono supportate dalla meccanica teatrale composta da luci e proiezioni curate. L'attenzione per i particolari è il punto di forza della regia che si dimostra essere ritmata grazie al montaggio interno dato dall'entrata e uscita delle scene e dall'alternanza dei monologhi dei protagonisti.
Come in un cerchio perfetto la storia termina dove era iniziata. Gli eroi di questa moderna tragedia tanto cruda quanto amara, concludono il loro percorso soccombendo alle regole di una cieca fatalità.
Valentina Dall'Ara