Un tradimento di Pirandello
riscrittura di Michele Di Giacomo, Riccardo Spagnulo
tratto da La ragione degli altri di Pirandello
regia Michele Di Giacomo
con Giorgia Coco, Michele Di Giacomo,
Federica Fabiani
dramaturg Riccardo Spagnulo
responsabile tecnico e scene Riccardo Canali
luci Valentina Montali
video Giuseppe Cardaci
suono Fulvio Vanacore
produzione Alchemico Tre
Col sostegno di ATER e il Comune di Mercato Saraceno (FC)
Prima nazionale
al Teatro Filodrammatici, Milano, il 3 marzo 2019
Il Pirandello della metafora della vita come gabbia da cui sperare di poter fuggire per uno strappo nella tela del cielo di carta che noi, marionette al soldo del quieto vivere, ci siamo fabbricati sulla testa. Ne "La ragione degli altri" è un'idea di famiglia, la gabbia. Una forma del quieto vivere che è lì, invitante e dorata, e che pure il protagonista della pièce non vuole cogliere, preso dai gorghi di un disordine personale che forse vorrebbe farsi caos finalmente, pressione enorme della vita sul vissuto, per trarne, chissà, il proprio diamante: il romanzo; quel romanzo scritto e poi dimenticato; e quello scrivere come atto di rivincita che egli insegue o ha inseguito. Lui che in fondo potrebbe vivere bene e scrivere in pace con i soldi della moglie e invece è lì che smania per avere uno stipendiuccio dal giornale per cui lavora. Perché veniamo a sapere che lui, Leonardo, il marito, pieno di debiti, ha avuto una figlia con un'altra – Elena – e non lascia la moglie Livia e non lascia l'amante, lacerato tra due possibili orizzonti di vita. In questa irresolutezza intervengono il padre della moglie, uomo facoltoso e importante che cerca di rimediare al pasticcio, e il direttore del giornale che occhieggia dal suo pulpito e giudica e cerca a un certo punto di usare a proprio vantaggio le imbarazzanti peripezie emotive della coppia. Ma soprattutto sentiamo la presenza degli Altri: gli occhiuti, quasi astratti, giudicanti della "porta accanto", l'invisibile pletora che osserva e giudica, così ossessivamente presente nel teatro di Pirandello.
E' un terzetto di attori di grande forza e bravura quello che vediamo agire sulla scena del Teatro Filodrammatici. Essi assorbono la varietà di personaggi del testo originale assumendo più ruoli. Giorgia Coco impersona una Moglie rassegnata (i ruoli diventano i nomi dei personaggi, col maiuscolo), ma percorsa da fremiti improvvisi di accensione nervosa benissimo resi, e insieme il padre – dato di spalle, al microfono, con forte accento siciliano, aspro e fin troppo dolcemente, quasi velenosamente, paternalistico. Mentre la voce del direttore del giornale, deformata da un effetto fonico spersonalizzante, è di volta in volta presa in carico dalla sanguigna Federica Fabiani, il personaggio dell'Amante, ormai più visceralmente madre che altro, e da una voce registrata. Michele Di Giacomo, anche regista, è un Marito sempre in bilico tra autoindulgenza, disperazione e scatti d'orgoglio. Un'economia di parti che sostiene la forza essenziale del dramma, evitando i rivoli secondari della trama di Pirandello (il giornale politico; l'ambiguità del suo rapporto con l'ambiente istituzionale di cui è ormai espressione). L'impostazione dello spettacolo appare invece allineata a questioni oggi diversamente brucianti. Nel rapporto tra stampa e potere, il potere nuovo con cui fare i conti, e che il giornalista-Marito si trova a misurare – il terreno degli Altri di oggi insomma – è quello delle nuove destre, e della mobilitazione populista a favore della famiglia tradizionale. Che cosa è cambiato dai tempi di Pirandello? Nulla, pare. La famiglia è una: padre, madre, figli; possibilmente due, si sente dire nelle interviste televisive che a un certo punto irrompono simultaneamente dai tre monitor posti sul palco. Il montaggio alternato, sempre più veloce, aggressivo, degli spezzoni video registrati in centro a Milano nel corso di una vera manifestazione pro famiglia, investe il giornalista, quasi lo abbatte fisicamente, come fosse, la sua, anche una capitolazione morale. Da questo momento in poi egli è come sospinto sempre più decisamente verso quello che sarà il micidiale finale, dove i legami convenzionali vinceranno sulla natura, dove la forma vincerà sulla vita, conducendo il protagonista maschile verso l'accettazione ipocrita del modello vincente di famiglia borghese, a spese dell'irriducibile diversità sociale della figura di Elena, la madre della bambina – povera donna senza mezzi, che si lascia togliere la figlia per il supposto bene di quest'ultima. In mezzo assistiamo al doppio dramma di Livia, una donna forse sterile, tradita dal Marito, ma che non vuole rompere la convenzione matrimoniale. Il palco vuoto e la presenza dei tre totem televisivi dislocati a diverse profondità, finestre sul mondo ma anche efficace didascalica guida ai cambi di luogo, e di personaggio, che l'ambientazione naturalistica della commedia prevede – e che vengono comunicati col solo apparire di scritte luminose bianche su fondo nero in ciascuno schermo – sospendono la vicenda in una dimensione quasi onirica, tra atemporale e anacronistica, cui contribuisce il contrasto tra lo spazio netto della cavea nera del palco tecnologicamente abitato dagli schermi e la foggia decisamente classica-retró degli abiti di scena. Una regia giocata su elementi che sobriamente moltiplicano funzioni: il monitor di destra, a terra, che diventa seduta praticabile, o il computer, che oltre a essere strumento di lavoro del protagonista, diventa anche il luogo, invero fantasmatico, in cui appare la figlia, e che sul finale pare quella figlia imprigionare per sempre nel gesto con cui viene richiuso, in un abbraccio-stretta che avvolge insieme figlia e strumento, a sigillo di un doppio smacco che investe Leonardo: di marito-padre, costretto a un meschino dietro-front, e di scrittore, che rinuncerà forse per sempre a ogni sogno d'arte. Ma i due ladri di bambina, Marito e Moglie, vengono poi a sedersi fra il pubblico a spiare (e noi con loro: malignamente soddisfatti?) lo sgomento disperato della madre, che dalla finestra guardando "con occhi attoniti, vani" la figlia andarsene con l'ex amante, "se ne ritrae muta, come insensata".
Franco Acquaviva