da Pier Paolo Pasolini
drammaturgia Emanuele Trevi
regia Massimo Popolizio
con Lino Guanciale e Sonia Barbadoro, Giampiero Cicciò, Roberta Crivelli,
Flavio Francucci, Francesco Giordano, Lorenzo Grilli, Michele Lisi,
Pietro Masotti, Paolo Minnielli, Alberto Onofrietti, Lorenzo Parrotto,
Cristina Pelliccia, Silvia Pernarella, Elena Polic Greco, Francesco Santagada,
Stefano Scialanga, Josafat Vagni, Andrea Volpetti
Scene Marco Rossi, costumi Gianluca Sbicca,
luci Luigi Biondi, canto Francesca della Monica,
video Luca Brinchi e Daniele Spanò - Assistente alla regia Giacomo Bisordi
Produzione Teatro di Roma - Teatro Nazionale
Roma, Teatro Argentina dal 21 dicembre 2017 al 10 gennaio 2018 (in tournée)
La mia natura è allegra, giocosa. Ma ciò che vivo, imparo, mi sta attorno rende tutto impossibile
(P.P. Pasolini)
Per fortuna, o sfortuna (metti gli orfani del Sistina...), non siamo dalle parti di "Rugantino", "Marchese del Grillo", "Storie d'amore e de cortello". Che pur rappresentano l'apice di certo teatro nazional-popolare per cui si storceva il naso e ci si stornellava in platea. Tuttavia, lo spirito di "certa" romanità tutta "core", smargiassate e "forza lupi" aleggia (più acculturato, accurato, non sbandierato..anzi) fra queste "voci lontane sempre presenti"-giusto per citare un film bello e dimenticato di Terence Davies- di cui s'è fatto laboratorio teatrale lo spettacolo (di inconfutabile successo) che Massimo Popolizio deduce dal romanzo di Pasolini del 1955. Con tutti i riguardi per "i piaceri e i sospiri" dovuti dalla memoria – più o meno collettiva- alla trasformazione antropologica (quindi culturale) di uno specifico nucleo sociale, oggi inesistente o sbriciolato nella mucillagine del consumismo spacciato per emancipazione, progresso, opportunità 'globaliste' (...in sala bingo)
E poiché, di quel nucleo, restano sporadiche tracce di poesia e perdute innocenze, letterarie e non solo, che non appartengono- credo- al solo folklore o alle fughe 'all'indietro' di un pubblico reso sciatto, rinunciatario (banalmente ridanciano) dalle subentranti non-vivibilità della metropoli, della città che si riteneva Eterna ed oggi va a pranzo a S. Egidio. Poiché appannaggio di un patrimonio (non solo capitolino) di umanitarie sinergie e "idealizzazioni – demistificate" (ossimoro volontario) del tutto sconosciuto ai veleni relazionali, interpersonali dell'amaro presente. E di cui Pasolini, volendo rendersene cantore, finì (involontariamente) per diventarne mallevadore, 'garante' di inesistenti ed inconsistenti genuinità contaminate (questo si) dal Dio Profitto
Al punto da rendere (altri, lui non poteva) il trascorso quarantennale della sua morte la improvvida (fuorviante) beatificazione dell'Intellettuale Corsaro, del Polemista nudo e crudo, cui (a posteriori) tutti tirando "la giacca" (da parti opposte) attribuendogli una sorta di potere divinatorio: quello che gli aveva permesso "di vedere in anticipo gli orrori verso i quali ci stavamo dirigendo".
La regia di Massimo Popolizio riorganizza alacremente la drammaturgia di Emanuele Trevi in capitoli diversi rispetto all'originale narrativo, ciascuno proclamato dal solito fondale in diapositive e filmati d'epoca, avendo per chicche alcune immagini della prima Hollywood sul Tevere, a base di finti Colossei, leoni di casa Orfei e Messaline messe in mostra statuina – mentre suoi diciotto giovani attori vivacizzano quel microuniverso (quella cornice) da cinema all'aperto con disinvolture e disinteressi che già apparvero nella amata-odiata "Roma" di Federico Fellini. Stakanovismo, entusiasmo, talento dei singoli (chi più, chi meno eclettico) sono fuori discussione. Èd è 'eloquente' la disadorna scena di Marco Rossi, a palcoscenico vuoto (sino alle mura di fondo), ove si improvvisano seratine da ballo, 'lavoretti' di ladruncoli (come in "Sotto il sole di Roma" di Castellani), parapetti sul Tevere e sull'Aniene, con una semovente piattaforma che fa la spola (vecchio bus Atac) fra i Castelli, la spiaggia di Ostia, Osterie del tempo perso e ammiccamenti sottotraccia a quelli non più ritrovati (se mai esistiti).
Quello che "non deve" percepirsi è lo sguardo dell'autore rispetto a "quel mondo lì", denso come un formicaio, "costretto eppure spensierato tra il dopoguerra e il boom" (prima che quello vero iniziasse a Piazza Fontana). Quindi sul lungo solco di una letteratura realista che- dalle idealizzazioni elegiache del proletariato alle indifferenze mercenarie della mai morente borghesia- annovera, in Italia, 'forti' esemplari quali Bernari, Moravia, Brancati, Pratolini
La diversità –in Pasolini- fu, semmai (e secondo critici di vaglia), quella di una osservazione "capace di inventare una lingua acida e violenta, romanesca ma senza calchi di divulgazione e celebrazione dialettale". E dove, quello che un tempo suonava triste gergo di strada (sdoganato dalla intellighenzia di "Accattone"), conduceva, per esperienza diretta, dedizione alla propria natura (quella 'randagia' di Pasolini) "a modalità di fede, di comportamento, di infelicità praticata con zelo" – e che andavano oltre la distaccata catalogazione del flaneur (come oggi, azzarderei, succede ad un prosecutore del pasolinismo-martirizzato, qual è Walter Siti).
Ovviamente non lo sanno, né potrebbero. Ma i ragazzi di "quella vita", non ancora polarizzata dai Maglianesi e dai loro traffici (e romanzi) criminali, nuotano e affogano fra contraddizioni smargiasse e perdute illusioni: di riscatto, come nelle 'fancazziste' mattinate estive alla marana di borgata o fra le acque del Tevere "già zozzato da sorci e discariche"
Lo spettacolo invece (la cui drammaturgia esalta, con discreto gusto bozzettistico, ogni potenzialità gioiosa-giocosa-melanconico di vari tipi e caratteri) conquista facilmente lo spettatore ormai post-ronconiano, quindi ben avvezzo all'alternanza di narrazione e pantomima dialogante, monologante, evocativa di quel che fu (come nel "Pasticciaccio di via Merulana" a teatro). Crudele, sfrontata, pacificata specie nel suo evidenziare i tanti impacci e disagi del rapporto con le ragazze di rione (purtroppo stereotipate su modelli di 'sciabane', 'ciumachelle' e 'povere illuse'). Mentre la circolarità del racconto, che si apre e si chiude con la sacrificale morte per annegamento di Riccetto ("che salvava una rondine dalle acque") lascia interdetto e magnificante pure l'amico «narratore» (Lino Guanciale), che sta dentro e che sta fuori da quel che dice, avendo a modello le piccole epopee del più 'sorgivo' Ascanio Celestini.
Ma ogni confronto suonerebbe, e sarebbe, ingeneroso.
Angelo Pizzuto