da Pier Paolo Pasolini
drammaturgia Emanuele Trevi
regia Massimo Popolizio
con Lino Guanciale e con (in ordine alfabetico) Sonia Barbadoro,
Giampiero Cicciò, Verdiana Costanzo, Roberta Crivelli,
Flavio Francucci, Francesco Giordano, Lorenzo Grilli,
Michele Lisi, Pietro Masotti, Paolo Minnielli, Alberto Onofrietti,
Lorenzo Parrotto, Silvia Pernarella, Elena Polic Greco,
Francesco Santagada, Stefano Scialanga, Josafat Vagni, Andrea Volpetti
Scene Marco Rossi, costumi Gianluca Sbicca,
luci Luigi Biondi, canto Francesca della Monica,
video Luca Brinchi e Daniele Spanò - Assistente alla regia Giacomo Bisordi
Produzione Teatro di Roma - Teatro Nazionale
Al Teatro Bellini di Napoli, 26-31 marzo 2019
L'eterno confronto tra la periferia e la città, tra l'arretratezza e lo sviluppo, tra la realtà e il sogno: da sempre ha connotato le masse delle zone rurali, piccole o dimenticate, il desiderio di raggiungere la città, quel luogo dove tutto sembrava andare avanti e dove tutto si muoveva, mentre loro parevano fermarsi, nel mondo chiuso che li imprigionava. Ora come allora, la realtà non è molto diversa e la messa in scena dell'opera letteraria di Pasolini del 1955, Ragazzi di vita, ci mostra tutti gli aspetti di una provincia degradata e un po' malinconica, attraverso i volti di ragazzi che impersonano tanti ruoli, tranne tre per così dire protagonisti, tre personaggi definiti: Agnolo, Riccetto e Begalone, il fisico e gli atteggiamenti che ricordano l'inadeguatezza dello stare al mondo, l'incapacità di affrontare le cose, l'inesperienza di semplici ragazzi che solo attraverso il teatro e i loro stessi personaggi possono vivere veramente, possono ricreare l'emozione di un romanzo cantato, perché con la musica si approcciano alla vita, si prendono in giro, si insultano anche, perché dietro quegli insulti c'è il senso dell' amicizia vera. Un romanzo per tante storie, di giovanissimi sottoproletari, una classe da sempre difficile eppure sempre rappresentata in letteratura, che si avvicinano al centro del loro desiderio, alla città di Roma. Un po' di quel romanesco non convenzionale e un po' inventato, che per certi versi ricorda Il Pasticciaccio e un narratore, impersonato da Lino Guanciale, che diventa anche attore piombando tra i personaggi, spiandoli, restandone fuori o standogli accanto, staccandosi dal flusso del narrato. Ognuno è anche narratore di se stesso quando parla in terza persona e il senso vero dello spettacolo sta nel montaggio che non esclude le parti inutili o «brutte», ma al contrario porta sulla scena un racconto che mostra anche l'eredità di ciò che è stato tagliato, rispettando quel limite del teatro che è il tempo. A tratti l'ironia si fa strada, come nel (quasi) finale in cui si mette in scena il glossario, nel quale si fronteggiano le basi su cui poggia l'intera opera: la lingua italiana e un romanesco quasi esotico e molto personale... .
Francesca Myriam Chiatto