di Pirandello
Regia; Michele Placido
Musiche: Luca D'Alberto; Costumi: Riccardo Cappello; Luci: Gaetano La Mela
Personaggi della commedia da fare: Michele Placido, Guia Jelo, Dajana Roncione,
Luca Iacono, Luana Toscano, Paola Mita, Flavio Palmieri
Gli attori della Compagnia: Silvio Laviano, Egle Doria,
Luigi Tabita, Ludovica Calabrese, Federico Florenza,
Marina La Placa, Giorgio Boscarino, Antonio Ferro
Produzione: Teatro Stabile di Catania in collaborazione con Goldenart s.r.l.
al Verga di Catania dal 17 al 29 ottobre 2017
Certamente si continuerà a parlare dei pirandelliani Sei personaggi in cerca d'autore a quasi cent'anni della loro prima rappresentazione al Valle di Roma, che "hanno scelto - parole di Giovanni Macchia - il luogo della loro rincarnazione sul teatro, come luogo della loro tortura, per mostrare le loro piaghe", ma non verrà annoverato quasi certamente nelle antologie teatrali lo spettacolo messo in scena da Michele Placido al Verga di Catania, inaugurando la nova stagione dello Stabile etneo, per i motivi che illustrerò di seguito. Uno spettacolo piatto, come la "piana" di Catania, durante il quale Placido, piazza "gli attori della compagnia" in un lato del teatro nudo con la graticcia a vista, non necessariamente nell'atto di provare Il gioco delle parti di Pirandello, esprimendosi alcuni interpreti con accenti romaneschi e siciliani e con il capocomico (Silvio Laviano) che si da fare a tenere compatto il gruppo. Quand'ecco sostanziarsi sulla scena il gruppo dei Sei, in cerca paradossalmente di un autore che li faccia vivere, da qui la diatriba tra attore (falso) e personaggio (vero), capitanato dallo stesso Placido nel ruolo del "padre" in rigoroso doppio-petto-grigio-scuro e maglia d'identico colore, sul cui orecchio destro spiccava un auricolare come quello utilizzato da Arnoldo Foà per ricevere non tanto celati suggerimenti, avendo a lato la moglie che è una massa nera avvolta da abiti e scialli neri quella di Guia Jelo dal volto trasfigurato e dolente come davanti al Cristo in croce, pure mater dolorosa di quattro figli, avuti il più grande da chi le sta accanto, gli altri tre da un umbratile amante ormai deceduto, che era il segretario del marito. Il figlio più grande (Luca Iacono sembra fresco d'accademia teatrale) se ne sta per i fatti suoi trattando i familiari come degli estranei; i due più piccoli (Flavio Palmeri e Paola Mita), muoiono entrambi in scena: il primo sparandosi alle tempie con un colpo di pistola, giacendo sopra una scala e non dietro gli alberi d'un giardino, la seconda morendo affogata in una vasca che qui è una tinozza d'antan. E infine c'è lei, la figliastra, guanti neri come le scarpe e il resto dell'abbigliamento, ragazza avvenente, selvaggia, esuberante, temperamentosa, a suo agio in scena quella vestita da Dajana Roncioni anche se talvolta rossellafalkineggia con quelle sue risate tremule quasi isteriche, caduta nelle grinfie di una certa Madame Pace, pacchianamente elegante Luana Toscano con stola di visone, parrucca bionda che si esprime in una lingua buffa tra l'italiano e lo spagnolo, che più che modista ha fatto del suo appartamento una casa d'appuntamenti. Ed è qui che il padre incontra la figliastra, mentre si diffondono le note della canzone in spagnolo di Quizas, quizas, quizas, del cantautore cubano Osvaldo Farrés, lontano invero per emotività dalla scena creata da Vassiliev in un'edizione del Festival d'Avignone del 1988 in cui, tra un gruppo di spettatori sul palco, echeggiavano le note di Besame mucho e i due tra aure verdognole s'incontravano ripetutamente, quasi furtivamente, fra un nugolo di cappellini d'ogni foggia appesi su un mobile porta-abiti. E' chiaro che fra padre e figliastra non c'è stato mai alcun rapporto sessuale, anche se la cosa farà inorridire la madre che li scoprirà in quel luogo, facendo vergognare oltremodo il padre per le sue voglie senili. Una risata delle sue da parte della figliastra e un fascio di luci sparate sul pubblico chiuderà lo spettacolo di poco più di due ore di filato con un paio di bui a simulare gli atti. Uno spettacolo forse che verrà ricordato più per la querelle tra Pippo Pattavina (che ha rifiutato il ruolo del "padre") e Michele Placido, impiantata sul fatto che il primo non voleva alcun riferimento vernacolare, mentre il secondo avrebbe privilegiato dei sicilianismi che in realtà non sono stati messi in atto.
Gigi Giacobbe