Libero adattamento di Ugo Chiti
dal romanzo di Aldo Palazzeschi edito da Mondadori Libri
Con Lucia Poli, Milena Vukotic, Marilù Prati, Gabriele Anagni,
Sandra Garuglieri, Luca Mandarini, Roberta Lucca
Regia Geppy Gleijeses
Scene Roberto Crea
Costumi Ilaria Salgarella, Clara Gonzalez, Liz Ccahua
coordinate da Andrea Viotti Accademia Costume&Moda, Roma-1964
Luci Luigi Ascione
Musiche Mario Incudine
Produzione Gitiesse Artisti Riuniti
Teatro Comunale Luigi Russolo di Portogruaro (VE), 15 novembre 2017
Leggo su un social net che più di un lettore di Palazzeschi (di per sé già un merito) propone di elevare "Sorelle Materassi" a Zie benefiche di tutt'Italia (presumo per perdigiorno e "sdraiati").
Non arrivo a tanto, non lo trovo un gioco corretto, ma testimonio con piacere (personale, non d'ordinanza) della gradevole arguzia, della sapida tenerezza mista ed irriverenza (con spruzzi di elegante 'perfidia') con cui Chiti e Gleijeses danno flatus all'impeccabile, sapida, irriverente (ma come potrebbe esserlo un bozzetto, cartone animato d'epoca) versione scenica di un romanzo vetusto (1934) ma di qualche attualità fruibile.
Soprattutto in direzione del rapporto di sfruttamento e (inter) dipendenza economico-affettiva che incolla certi "bellimbusti" di famiglia (agiate o meno) all'entourage degli affetti, delle diseducative blandizie che mai lo svezzeranno.
Cosa racconta Palazzeschi, fra rigagnoli di tardo verismo e accurati incantamenti da 'fanciullo' solingo (stile primario delle sue poesie)? Tentiamo una sintesi. Abilissime nel ricamo e dotate di ottima clientela, Teresa e Carolina sono riuscite, negli anni, con dedizione e fatica, a risalire la china dell'indigenza (nella periferia rurale di Coverciano, inizio '900) e riscattare da debiti e ipoteche i beni dissipati, anni prima, da un padre incosciente, donnaiolo e scialacquone (sino alla conseguente morte della madre), mettendo da parte un cospicuo gruzzolo sostanziato in quel "libretto postale" emblematico (in età umbertina) di parsimonia e solidità futura. Tempi andati, appunto...
"Non hanno vizi né svaghi. Il loro divertimento sta nel parlottare e sussurrare e rimembrare mentre lavorano di ago e filo su un pezzo di stoffa che trasformeranno in capolavoro"- sintetizza benissimo Osvaldo Guerrieri in un recente scritto . A volte rimbrottano la fantesca Niobe, altre volte bisticciano con Giselda (la terza sorella, volitiva e che fa storia a sé), depositaria di ribellione poiché "con chiunque parli, gli punta addosso un dito ammonitore, anzi accusatore"
E poi, le Materassi, si sa, "hanno un cuore d'oro". Con l'inconveniente che il primo a saperlo, ed approfittarne, è lo sciagurato nipote Remo, di cui la più ingenua Carolina è sommessamente (platonicamente) invaghita, mentre la più concreta e ferrigna Teresa tenta inutilmente di stare alla larga e, possibilmente, sbarazzarsi, mettere alla porta (e alla gogna del paese). Ed invece, per dare un'idea, sarà Remo che, per estorcere denaro, chiuderà le zie in cantina 'di punizione'.
Già sappiamo (o intuiamo) che l'arrendevolezza al perdigiorno, il cedimento alle sue pretese da sanguisuga a caccia di prestiti, avalli, fideiussioni e cambiali a strozzo ridurranno le Materassi sul lastrico, dunque "costrette" (a tarda età) a ricominciare da zero (per sopravvivere, con la vista che ormai traballa) l'antico lavoro di ricamo e bottega: questa volta rivolto ad una clientela più modesta e animata da piccole velleità di portafoglio. Difficile "farsi valere" quando si è in condizioni di bisogno, di indigenza "che non salva più nemmeno le apparenze".
Anche se tramandata da un lieve, calligrafico film di Ferdinando M. Poggioli (1943), vispamente interpretato da Irma ed Emma Gramatica (con Massimo Serato nel ruolo del nipote, dunque, ed almeno, apprezzabile in ambito di antologia del cinema italiano); cui, ad inizio anni settanta, fece sponda un accurato ma non acuminato sceneggiato televisivo diretto da Mario Ferrero (con la Ferrati, Nora Ricci e la stupenda Morelli, affiancate da Giuseppe Pambieri e la comparsata di un esordiente Benigni, nell' "epifania" del villanello ripulito e fumantino), quella delle Materassi resta, a mio parere, una vicenda tristissima e tremenda, storia di un declino e di una generosità perdente ben traducibile in "favola nera" e "teatro della crudeltà" (cui Artaud è beninteso lontano sia per teorie, sia per poetica dell' "efferato").
Particolare che, in una sorta di operazione sincretica, lepida, decantata (ispirata quindi alla tradizione toscana del "conversar crudele", nella sua peculiare duplicità di restituire, con grazia e suggestivo eloquio, le fole più orride e paurose: dal "Decamerone" a "Pinocchio"- per farci intendere) mi sembra impreziosire l'allestimento attualmente in scena al Quirino di Roma. Che è poi cesellato da scarne, efficaci illustrazioni scenografiche (con uno splendido finale, quasi 'gotico-cecoviao', descrivibile come "Giardino dei ciliegi", ove la desolazione è alleviata da un esile soffio di speranza, innegabile alla "brava gente"), a loro volta illuminate da intensità 'decrescenti', crepuscolari, di grande accuratezza cromatico-pastellata, in sincronia con l'involuzione degli accadimenti.
E, sopra ogni cosa, impreziosita dalla memorabile resa di Lucia Poli, Milena Vukotic e Marilù Prati (ciascuna impagabile nel tratteggiare, a punta secca, riluttanze e cedimenti dei rispettivi caratteri). Alla pari di una eccelsa professionista quale Sandra Garigliani, nel ruolo della (opima, sensuale) fantesca Niobe, e dall'efficace, 'prepotente' Gabriele Anagni -acconciato alla maniera di un Giacomo Puccini da 'patacca', con giubbotto di campagna e cappello a larghe tese, ad ulteriore dettaglio di una fatuità nefasta.
Angelo Pizzuto
Sorelle Materassi, pubblicato nel 1934, è il romanzo più riuscito e fortunato di Aldo Palazzeschi. Lo scrittore toscano lo scrisse, come dichiarò egli stesso "in un'epoca corrucciata e intristita" per riscoprire, sulle orme dell'amato Boccaccio, "la gioia del raccontare". Palazzeschi, quando compose l'opera che gli diede ampia notorietà, aveva suppergiù 50 anni, come le due sorelle zitelle all'inizio della vicenda nel 1918, e riuscì a trovare un irripetibile equilibrio tra la vena libertaria e anarchica della sua produzione giovanile in cui aveva aderito al futurismo e una più posata attenzione alla prosaicità della vita e alla sofferenze della gente comune che aveva sperimentato personalmente durante il primo conflitto mondiale. Il poeta delle fantasiose e giocose composizioni giovanili (chi non ricorda lo stupore dai banchi di scuola di fronte ai versi della Fontana malata o di E lasciatemi divertire) investì la modesta vicenda delle due "cucitrici di bianco", la cui grigia vita di provincia viene esaltata e travolta dall'arrivo del giovane nipote Remo scapestrato e privo di scrupoli, di uno sguardo al tempo stesso pietoso e scanzonato, convinto, come ebbe a dichiarare che "la gioventù e la vecchiaia sono il tempo della follia". Le inseparabili Teresa e Carolina amanti della bellezza riscoprono nel rapporto con l'avvenente e adorato nipote la carica materna e sensuale di una femminilità mai sepolta, e del fascino misterioso di quest'incontro fatale si nutre l'ambiguità poetica del celebre libro che ha ispirato trasposizioni cinematografiche (il film di Ferdinando Maria Poggioli del 1943 con le sorelle Irma ed Emma Gramatica e Massimo Serato) e televisive (lo sceneggiato di Mario Ferrero del 1972 con altre due mattatrici della scena teatrale, Sarah Ferrati e Rina Morelli e che lanciò il giovane Giuseppe Pambieri) oltre che teatrali.
L'adattamento di Ugo Chiti da un lato ha riportato all'interno di dialoghi e monologhi (appesantendoli un po') i resoconti di antefatti e le descrizioni narrative dotando a tratti i personaggi di un'eccessiva consapevolezza, dall'altro ha distillato in poche scene salienti la sostanza più teatrale della materia romanzesca privilegiando l'aspetto melodrammatico della vicenda. Nella scena fissa dell'austero ed elegante interno di casa Materassi (con l'eccezione di un suggestivo incipit in cui le due sorelle incontrano il Papa in Vaticano come ombre di una visione onirica) Chiti ha dipanato una vera e propria storia d'amore tra le due attempate zitelle (in misura minore anche la domestica Niobe) e lo scaltro nipote indugiando (grazie anche ad alcuni temi per pianoforte di Mario Incudine) sugli slanci romantici e i risvolti struggenti della passionalità, come nella scena in cui Remo, durante la festa per il suo matrimonio con la ricca americana Peggy, induce le zie in bianco vestito da sposa a ballare insieme, o quando le riaccompagna a casa in automobile assecondandone il desiderio di un viaggio intrepido e spericolato. Questo taglio interpretativo ha lasciato in ombra l'aspetto buffo dei due personaggi derivante dalla loro avventatezza e dalla loro condizione di vittime crudelmente ingannate e abbandonate senza rimorsi dal nipote che per converso ci ha guadagnato in umanità apparendo meno egoista e calcolatore quanto più affettivamente legato alle zie.
Un Palazzeschi quindi ricondotto nell'alveo del dramma borghese ottocentesco, quello di Chiti, assecondato dalla regia di Geppy Gleijeses attenta a calibrare il ritmo drammatico della vicenda con contrappunti comici che hanno smorzato e addolcito il patetismo di fondo. Le scene di Roberto Crea e le luci di Luigi Ascione hanno giocato un ruolo determinante nella creazione di un'atmosfera morbida ed intimista, con colori caldi e sfumati investiti da una luce perlopiù tenue oppure contrastata nei momenti emotivamente culminanti come nel corso della festa matrimoniale e nel successivo straziante addio al nipote in partenza per l'America. La grande vetrata sul fondo, oltre la quale i rami di un grande e vecchio albero appaiono come decorazioni di un raffinato disegno, ha simboleggiato l'identità e il destino delle protagoniste in cui si conciliano armonicamente Natura e Bellezza, soprattutto nella scena finale in cui mentre Teresa, Carolina e Niobe, pur rassegnate alla miseria, rievocano la memoria di Remo passando in rassegna sue vecchie fotografie, l'albero oltre la vetrata di fondo si è mostrato nella sua interezzaa, rigoglioso e maestoso.
Lucia Poli e Milena Vukotic si sono calate con agio e naturalezza nelle parti delle zitelle animate da un'innata e inesauribile vitalità. Slegate dal realismo dell'angusta ambientazione provinciale le due eroine si sono impegnate in schermaglie reciproche (rare), con la sorella minore Giselda (più frequenti) e con Remo, mostrando a stento, nei suoi confronti, il loro lato debole. Lucia Poli è stata una Teresa energica e orgogliosa, mai doma, pronta alla replica arguta o canzonatoria. Milena Vukotic, nei panni del personaggio più arrendevole nei trasporti d'affetto e di sensualità repressa nei confronti di Remo, e più remissiva rispetto alla sorella maggiore, è apparsa una Carolina mite ma tenace, dal cuore tenero ma non priva di lucida ironia. Marilù Prati, nei panni di Giselda, la sorella acida e arida che si è adattata a vivere con le sorelle dopo un matrimonio fallito, ha tenuto il personaggio su toni caustici e sarcastici nei confronti di tutti i suoi antagonisti. Sandra Garuglieri, nella parte di Niobe, è stata una popolana concreta e di buon cuore, anch'ella follemente e illusoriamente innamorata di Remo su cui ha riversato tutto il suo sentimento materno ma anche il desiderio fisico di donna che ha provato, seppur per breve tempo, le attrattive e le gioie del sesso. Gabriele Anagni ha dato al personaggio di Remo la pragmaticità necessaria a giustificare la sua condotta di profittatore che ha però ampiamente riscattato esplorandone la sensibilità da "bravo ragazzo" affezionato alle zie e animato da buoni sentimenti, come testimonia il senso di colpa provato in occasione della loro forzata reclusione nello stanzino per estorcergli la firma della cambiale che sancirà la loro futura rovina economica. Luca Mandarini nelle sue brevi apparizioni ha ben caratterizzato il personaggio di Palle, giovane amico di Remo, come ragazzo di campagna sempliciotto mentre Roberta Lucca, nella scena del matrimonio, ha vestito gli eleganti abiti dell'attraente e spigliata giovane americana animando la scena in un tipico ballo anni '30.
Lorenzo Mucci