di Henrik Ibsen
versione italiana e adattamento Fausto Paravidino
con Andrea Jonasson, Fabio Sartor, Gianluca Merolli, Giancarlo Previati, Eleonora Panizzo
scene e costumi Adomas Jakovskis
musica F.Latenas, G.Puskunigis, J. Sibelius, G. Bizet
disegno luci Fiammetta Baldiserri
regia Rimas Tuminas
produzione TSV Teatro Stabile del Veneto
Venezia, teatro Goldoni, 3, 4, 5, 6 febbraio 2022
Nella fredda, oscura ambientazione norvegese i sommessi ricordi, le infinite paure si stagliano sui sofferenti personaggi di “Spettri”, che il regista lituano Tuminas ha portato con un rigore estremo sul palcoscenico del teatro Goldoni, di Venezia, con quadri scomposti a tratti, visionarie vedute portanti dritte al complicato vivere dei protagonisti. In questa bella versione adattata da Fausto Paravidino sono più che protagonisti gli spettri conviventi con la piccola comunità, la famiglia Alving e i suoi derivati, si direbbe. Una famiglia complicata, dove ognuno convive col proprio arduo fantasma, anche ripetuto, del sapere e fare finta, del tener nascosto per anni in uno scorrere del tempo pesante, difficile, dove sono poche le occasioni a cui aggrapparsi per tentare di salvare il salvabile. Ogni personaggio rappresenta di se stesso il dolente stare al mondo, anche quando non riconosciuto fino in fondo. Solo il pastore Manders, un sempre ottimo Fabio Sartor, che saltella ed esaspera le movenze, si può ritenere un orchestratore lucido e abbastanza razionale, nel ruolo di trait d’union con Helene Alving e il suoi disagio allargato. Insieme a Osvald, il figlio di Helene, che è vedova di un libertino compiaciuto e confuso, un uomo che amava le donne e non si faceva certo remore di nulla, che dietro alla facciata perbenista e per bene aveva predisposizioni altre, chiamiamole così. E poi c’è il microcosmo di Regine, che Eleonora Panizzo tratteggia stupita ma danzante, nei bei duetti di ballo con Osvald, e di suo padre Jakob Engstrand (Giancarlo Previati, sobrio sacerdote e portatore di altri sogni personali) che per risolvere i conti coi propri stranianti problemi pensa unicamente, a lo propone proprio a Regine come collaboratrice, a un progetto di accoglienza del marinaio d’alto rango, nel porto. Ognuno, insomma, alle prese con le proprie sempre inappropriate inquietudini, che sfociano in ardue e pericolose confessioni, tali anche da far fuggire da quel nucleo la stessa Regine, che scopre così di esser figlia naturale del borghese poco gentiluomo, il marito di Helene. Tutto si svolge sotto il cielo plumbeo e non meravigliato di un paese nordeuropeo, dove impazzano, a coronamento degli “spettri”, tuoni e fulmini impetuosi di rumoreggiante bellezza in una sorta di dichiarazione tecnica, quasi, che mostra il teatro vero qual è, in una sorta di riappropriazione, di rivincita scenica. Con queste pietre nel cuore e nell’animo sono a chiedersi, prima fra tutti Helene, se avrebbero mai potuto esser felici, destinatari senza scampo del riaffioramento dei fantasmi che si portano dentro? Helene è Andrea Jonasson, al ritorno sulle scene italiane dopo alcuni anni, che qui mostra la sua grande presenza scenica, un lucido dialogare, una perenne asciuttezza nell’interpretare la protagonista, che si mette a confronto con il figlio Osvald nella sofferenza che entrambi portano con sé, in un crescendo di grande intensità e durezza. La stessa follia del giovane così rarefatta, ma pregna di dolore e paura, è resa ottimamente da Gianluca Merolli, alla disperata ricerca della luce che è poi un abbandono da parte di Regine, in una dimensione che dapprima affronta il sogno, le danze addirittura, i volteggi, contrapponendosi a tutto ciò che sta per accadere nel finale. E’ così’ che il sogno si frantuma, si fa a pezzi, in una bellissima scena minimal, con Osvald a chiedere il sole, quell’impossibile desiderio ormai. Pubblico a dir poco entusiasta, con molti applausi convinti, in una giornata di festa per il teatro che qui è, ritorna a essere.
Francesco Bettin