di Molière
regia: Carlo Cecchi
con Valerio Binasco, Carlo Cecchi, Iaia Forte, Angelica Ippolito, Licia Maglietta
Napoli, Teatro Mercadante dal 14 febbraio al 4 marzo 2007
Milano, Teatro Strehler, dal 12 al 24 febbraio 2008
CATANIA (gi.gi.).- La scena di Francesco Calcagnini è nera. Anche le quinte sono nere, anche se possono intravedervi campiture astratte in stile Rothko. Solo un tavolo drappeggiato di rosso, un lampadario barocco che vi pende sopra e un paio di sedie tappezzate di rosso rompono il nerume che nasconde questo Tartufo di Molière secondo Carlo Cecchi pure nei divertiti panni di Orgone, che ha utilizzato opportunamente la bella e asciutta traduzione di Cesare Garboli. Uno spettacolo da non perdere, perché oltre allo stesso Cecchi che è un piacere vederlo recitare chiuso nella sua redingote colore sabbia e prugna (i costumi sono di Sandra Cardini), anche il resto della compagnia è di grande levatura. Angelica Ippolito, monumentale nel suo abito tutto nero con annessa cuffia d'identico colore è la maman Pernella: Licia Maglietta tutta agghindata di rosso è Elmira, moglie di Orgone, colei che gli farà finalmente aprire gli occhi su chi veramente si nasconde dietro quella maschera di falso devoto che è Tartufo, costui interpretato con scioltezza e spiccate doti mimetiche da Valerio Binasco, anima nera e vero motore dell'opera. Carlo Cecchi da canto suo passa da un sorriso inebetito iniziale nel solo profferire il nome di Tartufo, ad una stima viscerale quando gli donerà tutti i suoi beni e gli proporrà di sposare sua figlia Marianna, (ricca di virtù virginale quella espressa da Viola Graziosi), diventando sordo alle parole del figlio Damide (Vito Di Bella) quando costui gli rivelerà che quell'infernale figura ha cercato di sedurre nientemeno che sua madre. E non bisogna dimenticare la brava Antonia Truppo negli abiti di Dorina, una cameriera tutta saggezza al servizio di Marianna, l'ottimo Cleante di Elia Schilton cognato di Orgone e poi il Valerio di Francesco Ferrieri, innamorato di Marianna. Il finale come si sa è consolatorio, perché si scoprirà che dietro quell'uomo santo e pio si nascondeva un impostore che cercava solo d'impadronirsi dei beni di Orgone, un ricercato da tempo dalle guardie del Re Sole che finirà i suoi giorni in galera. Calorosi gli applausi finali repliche al Teatro Ambasciatori sino al 20 marzo.
Gigi Giacobbe
Nella nitida e ironica lettura registica di Carlo Cecchi del «Tartufo» di Molière, i costumi, di sobria eleganza di Sandra Cardini, sono d' epoca, la scena, di Francesco Calcagnini, è un grigio salone seicentesco appena disegnato, ravvivato da un tavolo con broccati rossi, la traduzione è in versi, quella vivida e bella di Cesare Garboli, eppure l' impressione è quella di trovarsi in un eterno oggi, nell' oggi dell' ipocrisia e della falsa religione agitata come un vessillo sulle barricate del conformismo, della repressione, dell' oscurantismo, nell' oggi di chi gioca con la morale, i sentimenti e la buonafede altrui. Il falso devoto Tartufo, che il bravo Valerio Binasco disegna inquieto e untuoso, seduce col suo fascino da sepolcro imbiancato l' ottenebrato Orgone, un Cecchi in splendida forma, svagato e ironico, e a nulla possono la moglie, la serva, il cognato e i figli. Solo il toccare con «mano» la bassezza di Tartufo lo farà «rinsavire». Ma Molière è grandissimo e dopo il lieto fine si lancia in un pomposo inno alla saggezza e alla magnanimità del re, rilanciando la sfida dell' ipocrisia che torna a circolare anche dopo la sconfitta di Tartufo. Bravi gli attori da Licia Maglietta, una moglie saggia e indignata, a Angelica Ippolito, madre severa, alla serva «bocca della verità» ben interpretata da Antonia Truppo, al lucido, saggio cognato del bravo Elia Schilton.
Magda Poli
Quante furbizie tra Tartufo e Cecchi
Che c' è di male in Tartufo? chiedeva Luigi XIV. Il principe di Condè aveva le idee chiare: Molière non pensa né alla religione né a nessuna nobile idea; pensa proprio a loro, ai preti e ai nobili, quelli stupidi. Ma per la commedia, che è del 1664, le cose non andarono bene. Da una parte, ne era giunta notizia fino alla regina Cristina, che la voleva mettere in scena. Dall' altra, le pressioni, in specie del clero, erano così insistenti che si finì con il proibirla. Un divieto che ha semplificato le cose a lungo, fino ai tempi nostri. C' è questo bellimbusto, Tartufo, questo abbindolatore di coscienze, quest' anima bella, questo falso devoto; e c' è il suo paziente, Orgone, un padre di famiglia scontento della propria famiglia, tiranneggiato dalla madre, dalla moglie, dalla figlia, perfino dalla serva. Non è naturale pensare che Orgone trovi in Tartufo un sollievo, un rifugio spirituale? Lo è, indubbiamente. Ma in Orgone l' imbecillità è d' una specie particolare, non è scritto da nessuna parte che sia tutta sua, che non sia frutto di circostanze. Nessuno ci dice niente, tanto meno ci vengono spiegate queste eventuali circostanze. Molière in proposito è alquanto elusivo. Da dove viene Orgone? Ma, soprattutto, da dove viene Tartufo? Stando allo spettacolo che ne ha tratto Carlo Cecchi si pensa alla doppia origine del regista: nato a Firenze, cresciuto a Napoli. Semplificando, vorrei dire che della fiorentinità si coglie l' intelligenza e della napoletanità si coglie la furbizia. L' intelligenza è la stessa di molti suoi spettacoli: in essi tutto è asciutto, credibile, svelto. La furbizia è crescente nel Cecchi degli ultimi anni. Egli dice di amare Molière perché scriveva per gli attori. Il suo, è un teatro di attori. Proprio in tal senso, del teatro di attori, il Tartufo di Cecchi ha tutti i difetti. Gli attori sono per loro intima natura smisurati. Come potrebbe non essere squilibrato uno spettacolo che con la destra asciuga, toglie gli orpelli, perfino le ambiguità e con la sinistra instaura un eccesso di libertà, in specie mimico-gestuale? Cecchi si prende ogni libertà e con sé trascina, nel vizio, i compagni di ventura. Egli è Orgone e fin dal primo momento non rinuncia a farci capire che lui sa. Sa che cosa? Sa che Orgone, se non è un imbecille (ma tale lo vuole far apparire) è un rimbambito: dalle chiacchiere di Tartufo, dalla sua magica presenza. Egli, Orgone, come lui stesso confessa, ne è addirittura rapito. Dunque, sottilmente e nemmeno tanto sottilmente Cecchi prende le distanze dal suo personaggio, lo deride, non ne coglie la disgrazia, così lasciando noi spettatori delusi, per l' impossibilità di credere in alcunché. Fin dal primo minuto, non possiamo prendere nulla sul serio. Ci divertiamo. Sì, possiamo divertirci agli ammiccamenti, alle caricature, alle gesticolazioni surrettizie (rispetto alla verosimiglianza del testo). Ma, nella commedia e nei personaggi, non possiamo credere. Men che meno crediamo a Valerio Binasco-Tartufo. Subito ci leviamo dalla testa quell' idea così archeo-rivoluzionaria che (lo dice Cecchi) Tartufo sia il servo che si fa largo nel mondo dei padroni. Ma neppure crediamo nella strategia di seduzione di un personaggio che sembra, tanto è beffardo, un pistolero di Sergio Corbucci. Inoltre, egli somiglia così tanto, perfino nell' untuosità e lunghezza dei capelli, al Peppino Mazzetta del Tartufo di Toni Servillo da indurci a credere di assistere a una replica parziale di quello spettacolo del 2000. Vi è la stessa traduzione di Cesare Garboli, vi è la stessa Elmira di Licia Maglietta, vi è la stessa speditezza del tono. Tra i nuovi, quelli che con Servillo non c'erano, ricordo Iaia Forte la presenza più persuasiva. TARTUFO di Molière/Cecchi Teatro Maruccino di Chieti
Franco Cordelli
Carlo Cecchi si muove tra la farsa e il dramma
Quando Carlo Cecchi entra in scena con passettini untuosi, pretescamente dignitosi, accostando appiccicoso la faccia a Dorina, per un momento si resta indecisi: è Orgone, certo, ma potrebbe essere Tartuffe. Che succede? Come un mimo, Orgone si è trasformato in una copia di Tartuffe: la peste portata dal direttore di coscienze è pericolosa perché spinge all'imitazione mimetica. È una delle vie attraverso le quali la regia che Cecchi ha fatto del Tartufo di Molière tradotto da Cesare Garbali giunge al suo scopo: uno spettacolo nel quale il potere di fascinazione maligna di Tartuffe emerge con i colori quasi della farsa, e il dramma sta negli improvvisi soprassalti di terrore da cui si è assaliti in mezzo alla risata quando ci si accorge della piccolezza del male, sbalorditi di fronte al vuoto che abita Tartuffe.
Il Tartufo che Cecchi dirige e interpreta al Mercadante di Napoli ha tutta la souplesse e il calore della commedia, ma uniti alle improvvise sonde psicologiche calate da Molière nei suoi personaggi: ne emerge un Tartufo come demone meschino, vile, insignificante, mediocre, piccolo borghese, e in cui compare a tratti, imprevisto, il viso diabolico di un Hitler. Tartufo è Valerio Binasco, perfetto nei panni di demone meschino ipnotico e vuoto, al quale si contrappone la forza femminile di Elmira e Dorina, impersonate dalle bravissime Licia Maglietta e Iaia Forte, che modellano in un'apparente spontaneità quella lucidità femminile che smaschera Tartufo attraverso ciò che nemmeno lui può travestire: il corpo. E ancora i due innamorati petulanti e sciocchini Marianna e Valerio, deliziosamente bamboleggianti nelle interpretazioni di Viola Graziosi e Francesco Ferrieri, la potente madama Pernella di Angelica Ippolito e tutti gli altri: Alessandro Baldinotti, Rino Marino, Diego Sepe, Vincenzo Gerbera, Francesco Leone. E poi, Carlo Cecchi.
Come pochissimi, Cecchi è uno di quegli attori che si calano in un personaggio fino in fondo ma restano se stessi, in un ambiguo gioco di maschera e volto che con il passare del tempo diventa sempre più libero. Di qui viene al suo Orgone-Tartufo, a sorpresa ma non troppo, qualcosa dell'Eduardo più segreto e difficile: un'insofferenza per la finzione nel culmine della finzione, una voce nella voce che pone in dubbio il teatrale nel momento in cui lo rappresenta, un dar corpo ai fantasmi di parole che si esprime nella massima economia di mezzi. Non perdetevi questo spettacolo nello spettacolo: al Mercadante fino al 4 marzo e poi in tournée a Roma, Chieti e Macerata.
Giuseppe Montesano