da Henry James
Uno spettacolo di Giancarlo Sepe
Con Pino Tufillaro, Federica Stefanelli, Guido Targetti, Pietro Pace, Sonia Bertin,
Emanuela Panatta, Marco Imparato, Adele Tirante, Silvia Maino
Una Produzione Compagnia Umberto Orsini – Teatro La Comunità Musiche a cura di Davide Mastrogiovanni -Disegno Luci Guido Pizzuti
Scene e Costumi Carlo de Marino
Scenografo collaboratore Flaviano Barbarisi
Assistente Scenografo Anna Seno
Roma, Teatro La Comunità, dal 30 marzo prorogato al 25 maggio
(in tournée nazionale dal prossimo novembre)
Sepe e James: memorie dalla città spettrale
Quando Memè Perlini morì fu basilare scrivere che nessun regista italiano sapeva "scolpire la luce" come lui. Adesso che Giancarlo Sepe torna alle origini del suo "cantinato" romano sempre a rischio sfratto (Trastevere, Teatro della Comunità) riaffluisce ciò di cui, in tante occasioni, avevamo testimoniato e scritto. Ovvero che il regista casertano fu uno dei "campioni" della ricerca scenica anni settanta (su scala almeno europea) capace di destrutturare la "materia dei sogni" e della "vicenda drammaturgica" attraverso mosaici di schegge, fotogrammi, apparizioni (ed epifanie d'immagini) folgoranti, fulminee, mordi e fuggi.
Come dire: tanto addestramento di attori e fantasia per pochi secondi di affreschi scenici ove la presenza umana si "confondeva" (per raffinata osmosi) con la traccia figurativa. Perfezionismo? Forse si, ma non pedanteria, semmai amore e rispetto del dettaglio, del particolare, del clima d'epoca, secondo la riconosciuta lezione di Visconti, Ivory, Sirk e di tutto un repertorio di cultura cinematografica antecedente – nel caso di Sepe- lo studio, la passione, il raziocinio per il teatro.
Qualità che appaiono ricomporsi ed esaltarsi nella messinscena cesellata e certosina di "Washington Sqaure", ispirato al romanzo di Herny James di cui già esisteva una datata (a noi sconosciuta) edizione scenica (statunitense), curata da Ruth e Augustus Goetz, donde-nel 1949- un dimenticato film di William Wyler, fortemente centrato sulla sobrietà sagace ed intensa dell'ambientazione (New York, metà '800) e sulla rilevante prova attorale di Montgomery Clift, Ralph Richardson ed Olivia de Havilland (Oscar 1949 per questa sua interpretazione).
Sui binari (sorvegliatissimi) di un dagherrotipo storico-evocativo "dotato di implicazioni psicanalitiche e proto femministe" (note di regia), lo spettacolo (con formidabile, esauriente sintesi espositiva: appena 70 minuti di durata) ripercorre quella che Sepe considera "la dolorosa storia, fra le tante, di una congiura sociale contro la libertà dell'individuo". Annotando- noi - che più del "j'accuse" epocale, maschilista e quant'altro, ciò che brilla- alla massima gradazione dello "stilb" - è la combinazione estetico-figurativa di ambientazione, costumi, trucchi "di volto e di anima" assegnanti a personaggi e vicissitudini la valenza di "mera struttura narrativa" -non dissimile dalle percettività "mesmeriche" dell'Henry James romantico e supremo manierista. Assecondante gli umani referti di una bioenergia spiritico\trascendente ascrivibile ai magnetismi animali di cui Paracelso fu lo studioso precursore.
La sinossi: nella metropoli statunitense d'epoca vittoriana (angusta, ipocrita, formalista) Catherine Sloper è una giovinetta scialba e di buona famiglia che ambirebbe maritare il bel giovanotto Morris Townsend, noto dissipatore e cacciatore di dote. Ovvio che il di lei padre, il ricco dottor Austin Sloper, si opponga -e si oppone- con tutte sue forze di anaffettivo- pragmatico (tendente alla grandeur dell'enfasi). Cui si abbinano le angherie matriarcali di una iperprotettiva zia zitella- rafforzate di minacce, espiazioni, tormenti- non dissimili, poniamo, dai patimenti lorchiani di "Donna Rosita nubile" e dalle epiche ostinazioni della memorabile "AdeleH". Tutto a "peggior memoria" di una società grettamente spietata, nei riti e nei convivi di una classe dirigente "prigioniera di regole e convenzioni, incapace di ipotizzare un futuro 'non consono' ai ranghi per i suoi giovani". Eretta, come nel caso dell'eponima piazza simbolo di prestigio yankee (lo ricorda anche Stephen King), sulle macabre, asfaltate latomie di un'immensa fossa comune risalente alla Guerra di Secessione.
Palese e legittimo che l'allestimento si ponga (propositivo e senza nostalgie) in stretta continuità con la stagione più creativa e vivace della biografia artistica di Sepe: gli anni Settanta e Ottanta, spettacoli come Accademia Ackermann, Zio Vania, Vienna, Lumière Cinematographique, La scoperta di Troia, Cardio Gay, Cine H, liddove il potenziale di pathos, emozionalità, energia scenica transustanziava (come ancora avviene) in 'concertato' di cori, recitazione, mimica, danze e quadriglie, in ipnotica immersione nel cuore di un '800 periferico ed autoctono (come fu per The dubliners da Joyce, che precede di tre anni questo incontro James). Nove attori sulla scena assecondano, con professionale duttilità e diligenza, l' humus, le rimembranze, i 'soprassalti' (di variegata teatralità) del regista, ancora contigui ai più bei "fantasmi" della sua selettiva cinefilia.
E nella costante dimensione da "vivi e morti" (E. A. Poe) che trasuda di case Usher con tracce di disfacimento che erbacee ramificazioni insinuano tra la solennità di porte e mobilio color mogano, su carte da parati di cupa ricamatura. Verso punti di fuga gotico-melodrammatici, esemplati dalla sensazione (dalle frequenti cesure di luce) che l'intera rappresentazione sia imbastita come dinanzi ad una cinepresa immobile, pionieristica. Quando i tomi della narrativa e del teatro naturalista venivano "spiegati al volgo" per quadri di svenevole, maliarda, burattinesca possanza.
*Ps. Con eccentrica coerenza alla sua 'full immersion', "Washington Square" è recitato in inglese basico e comprensibile (da chi lo conosce). Resta da decidere, in occasione della prossima tournée invernale, se offrire allo spettatore l'opportunità (in cuffia o sottotitoli) della traduzione simultanea.
Angelo Pizzuto