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INTERVISTA a SALVO LOMBARDO - di Michele Olivieri

Salvo Lombardo. Foto Paolo Porto Salvo Lombardo. Foto Paolo Porto

Salvo Lombardo, performer, coreografo e regista, ha approfondito gli interstizi tra la danza, il teatro e le arti visive collaborando con diversi artisti del panorama italiano e internazionale. I suoi lavori sono ospitati in festival, teatri e musei sia in Italia che all'estero. Fino al 2015 è stato co-fondatore e regista di "Clinica Mammut". Nel 2015-2016 è stato coreografo residente ad "Anghiari Dance Hub" dove ha creato "Casual Bystanders". Nel 2017 fonda il gruppo "Chiasma", impegnato nella realizzazione di azioni e manufatti in ambito performativo e artistico. Sempre nel 2017 è coreografo ospite presso la compagnia "Aura Dance Theatre" di Kaunas (LIT) per la quale ha ideato la performance "Twister" in coproduzione con il "Festival Fabbrica Europa", ed è artista associato al "Festival Oriente Occidente" per il quale realizza la performance "Present Continuous" e la video installazione "Reappearances" concepita per il Museo MART di Rovereto con il coinvolgimento della comunità locale. Attualmente sta lavorando alla creazione dello spettacolo "Excelsior" che sarà realizzato, tra gli altri, in collaborazione con Romaeuropa Festival e Théâtre National de Chaillot di Parigi e ad un ciclo di azioni performative e installazioni nell'ambito del progetto triennale "L'esemplare capovolto".

Gentile Salvo, sei in preparazione con lo spettacolo "Excelsior"? In che modo questo titolo parla della tua creazione?
Sì, siamo in pieno processo per questa nuova produzione. Il titolo sottende un qualche punto di contatto con l'omonimo "Gran Ballo Excelsior", che ha debuttato nel 1881 al Teatro alla Scala di Milano. Il balletto originario, ideato da Luigi Manzotti su musica di Romualdo Marenco, fu creato sull'idea, dominante nella società europea dell'epoca, del trionfo della della Civiltà contro l'Oscurantismo che costringe i popoli «nelle tenebre del servaggio e dell'ignominia», come affermò il suo autore. Il balletto nacque in un preciso clima culturale e politico proponendosi come prototipo di una certa idea di modernità e di progresso; sono gli anni delle Esposizioni Universali dove vengono celebrate le conquiste della rivoluzione industriale, dell'imperialismo coloniale e dell'affermazione del concetto di identità nazionale e del suo immaginario di riferimento. A partire da queste premesse il mio "Excelsior" non avrà nessuna aderenza con la matrice poiché non sarà un re-enactment né un adattamento, né una rivisitazione; sarà piuttosto un processo di "ri-mediazione" (l'uso di questo termine è influenzato dal saggio "Rimediazioni coreutiche" che Maria Cristina Addis ha scritto a partire da "Invisible Piece" di Cristina Kristal Rizzo), un dispositivo scenico di "ri-emergenze" (il termine mi è stato suggerito dalla curatrice d'arte contemporanea Lisa Parola durante la tavola rotonda "Around Excelsior" che ho curato assieme a Viviana Gravano in occasione della nostra residenza alla Lavanderia a Vapore di Collegno nel mese di marzo 2018) che messo in relazione con la sua matrice "utopica" procederà in maniera "distopica". La mia piece si interroga su quale è oggi l'eredità culturale di quell'idea di Occidente della fine del XIX secolo. Quali iconografie e quali immaginari del "Gran Ballo Excelsior" riemergono oggi, in forme apparentemente diverse, nelle rappresentazioni degli "altri", nel disegno dei corpi, e nella negoziazione delle relazioni tra Europa e "resto del mondo"?.

Cosa fuoriesce della tua personale ricerca in questo nuovo lavoro?
Per me il "Gran Ballo Excelsior" è rappresentativo anche di una postura del pensiero che è mio interesse disarticolare, soffermandomi sugli immaginari stereotipici che questo presente ripropone attraverso i suoi linguaggi, le sue raffigurazioni e i suoi media. La ricerca attorno a "Excelsior" è molto complessa da diversi punti di vista. Innanzitutto per gli inevitabili appuntamenti (per lo più disattesi) con la matrice in termini di temi, di estetiche e di codici linguistici. Pertanto, studiare, leggere e cercare di tradurre il "Gran Ballo Excelsior" equivale per me ad un lavoro di trivellazione di un grosso giacimento di informazioni e prodotti culturali. La mia ricerca, in questo caso, consiste prima di tutto nell'isolare dei dettagli e dei nuclei tematici e di "stressarli", sottoponendoli al test di questo tumultuoso presente. Lo strumento che mi sono dato è quello dello zoom che implica al contempo un atto penetrativo (zoom-in) e dunque, viceversa, una possibilità di distanziazione e di uscita (zoom-out). In questa dinamica la mia posizione, o forse, meglio, il mio posizionamento, è determinato, evidentemente, dal punto di vista dell'osservazione.

Cosa sta a significare per te il termine "regola" all'interno della danza?
Credo che la regola implichi prima di tutto una misura e di conseguenza impone una misurabilità delle cose; in questo senso essere fuori regola equivale a sfuggire ad ogni principio di classificazione tassonomica. Questo per me riguarda tutti gli ambiti e dunque anche la danza. Rispetto alle pratiche di movimento, la regola attiene ad un sistema di informazioni che contribuiscono a mettere in forma ciò che altrimenti risiederebbe al solo livello istintuale; in questo senso certamente la regola pre-dispone i soggetti. Il suo limite, però, è nell'evidente rischio alla consuetudine. Se penso all'esercizio e alla ricerca quotidiana di un danzatore, ad esempio, mi viene in mente una frase di Bertolt Brecht tratta dal dramma didattico "L'eccezione e la regola", appunto, che dice: "quello che succede ogni giorno non trovatelo naturale. Trovatelo strano anche se consueto, inspiegabile pur se quotidiano". Per cui, seppure circoscritta da una miriade di regole e di impliciti rituali, la pratica del danzatore dovrebbe tendere ad un superamento degli automatismi.

Quanta importanza dai, nel tuo lavoro, alla ricerca e alla capacità di ascolto?
Spirito di ricerca e capacità di ascolto sono componenti fondamentali in ogni processo creativo. Essere in ricerca presuppone un aggiornamento continuo degli obiettivi e delle aspettative di ciascuno in un orizzonte comune. La ricerca è un esercizio e un'attitudine che richiede negoziazioni continue e che più raramente si basa su solipsismi. Per questo la capacità di ascolto si connota come la modalità di interazione più basilare e irrinunciabile; essa richiede una certa abilità oscillatoria che muove dalla propriocezione alla percezione. È il presupposto perché qualcosa, lavorando, emerga. L'ascolto, in questo senso, è un dato polisensoriale, materico e persino culturale.

Mentre all'improvvisazione?
L'improvvisazione è uno dei possibili strumenti di lavoro e si basa anch'essa su un sistema di codici e su una sua retorica. Va maneggiata con cura. In alcuni casi è un esercizio propedeutico e in altri casi è un atto finalizzato a se stesso. Ma anche in questo caso, pure muovendosi in circostanze il più possibile aperte, l'improvvisazione non contiene solo quella spinta anarchica che siamo soliti pensare, piuttosto è un campo disseminato di recinzioni e di trappole, più o meno visibili, e che certamente vanno ridefinite ogni volta nella prospettiva di uno specifico atto creativo. L'atto improvvisativo, in sostanza, è condizionato sempre da un progetto che qualifica la modalità di azione. Il nemico dell'improvvisazione è la genericità e l'abuso.

Nel panorama odierno cosa si intende, esattamente, per danza contemporanea a tuo avviso?
La definizione di contemporaneo, andando oltre la consueta suddivisione di scuole e tecniche e la sua facile contrapposizione a classico e moderno, apre ad una serie di considerazioni e di nodi. Prima di tutto perché pone un superamento della nozione di stile. Contemporaneo per me non è certamente uno stile. Nemmeno un genere. Se lo fosse individueremmo nel contemporaneo un orizzonte soltanto estetico. Una sorta di sigillo o di denominazione (protetta), che trascende tutta una serie di implicazioni che invece proprio la contemporaneità solleva come problemi fondamentali. Essere contemporaneo, rispetto alla danza, probabilmente presuppone un travaso di informazioni e di codici che volutamente interferiscono l'un l'altro informandosi a vicenda e in maniera diacronica. Il contemporaneo è anche una intuizione che ha il carattere della provvisorietà e del transito che a volte si manifesta come anticipazione e altre volte come anacronismo o ritardo. La creazione contemporanea è incentrata sui soggetti anche quando è finalizzata alla produzione di oggetti. La danza contemporanea può essere derivativa pure nel superamento o nel totale rifiuto di un codice, volendo.

Come ti poni nei confronti della danza classica accademica?
Non ho un legame profondo con la danza classica. Né in termini di background, né in termini affettivi. Il mio lavoro coreografico, e le mie pratiche somatiche in generale, non sono particolarmente nutrite da questo sistema di informazioni, codici e tecniche. Allo stesso tempo però mi appassiona moltissimo l'analisi dei balletti dal punto di vista estetico e soprattutto scenico. Come tutte le tradizioni codificate la danza accademica è un bacino prezioso di dati che per me sono prima di tutto culturali. Quando mi trovo ad analizzare o studiare delle partiture classiche quello che mi affascina è cercare di intravedere il confine dell'interpretazione, il deposito di senso nel movimento, al di là del possibile virtuosismo nell'esecuzione.

Il tuo percorso è sicuramente segnato da differenti ambiti espressivi e discipline artistiche. Quanto è importante essere poliedrici?
Non ho una opinione generale in merito. Nello specifico della mia esperienza, probabilmente, la necessità di non stabilire a priori dei confini stabili e unitari rispetto a formati, linguaggi e ambiti di espressione ha tracciato un percorso artistico segnato da più di una traiettoria. Nel mio caso credo che questo rifletta un mio modo di organizzare il pensiero. Anche se non credo che l'enciclopedismo sia di questa epoca, di solito rifiuto la definizione monolitica. Quando lavoro cerco di approfondire le cose da più angolature. Mi piace sfidarmi e rilanciare in ogni caso, anche quando il processo ha ormai assunto una direzione molto specifica e definita dal punto di vista del linguaggio di riferimento. Ma allo stesso tempo penso che la poliedricità non corrisponda solo all'ampiezza della gamma espressiva. È una forma di dinamismo potenziale dell'intelletto che può anche non sfociare in una forma corrispondente.

Quotidianamente ci scontriamo con così tante immagini, idee e opinioni che passano inesorabili e velocissime tanto da non riuscire a selezionare ciò che è meritevole di attenzione da ciò che in effetti non lo è. Come fermare questa sorta di "compulsività" verso l'informazione, in un momento dove i Social la fanno da padroni?
Questa compulsività a cui ti riferisci Michele è un tratto distintivo di questo frangente. È l'espressione di una trasformazione epocale che non va sottovalutata. Non è detto che rappresenti qualcosa di negativo. Per quanto mi riguarda nutro molto interesse per i social e spesso sono ispirato proprio dalle dinamiche che i social sono in grado di attivare tra gli utenti della rete. Anche se quello che accade in rete si caratterizza per una totale assenza di corpo; questo a tratti mi intimorisce (poiché anche i corpi, come i pensieri e le parole sono generatori di azioni) e a tratti mi affascina perché la rete è la traduzione per me più comprensibile dell'effimero contemporaneo. Osservo e vivo i suoi prodotti senza giudizio e con la consapevolezza che a volte quelle immagini e quei contenuti mi attraversano mio malgrado, anche se non li scelgo.

In generale che temi trattano i tuoi spettacoli?
Il mio lavoro di questi anni ruota principalmente intorno ai temi di percezione e memoria in rapporto all'osservazione della realtà e ai suoi prodotti culturali, con particolare attenzione alle dinamiche relazionali e a come queste muovono le persone.

Che tipo di lavoro svolgi sulla correlazione tra corpo, musica e narrazione?
Il corpo e la musica nei miei lavori si informano a vicenda. O forse, più correttamente, la specifica idea di corpo e la precisa immagine sonora che di volta in volta mi accingo a sviluppare si scambiano informazioni (spesso contrapposte). Quello di narrazione, invece, è un concetto molto scivoloso e fraintendibile. Anche se sono certo che qualsiasi cosa possa produrre racconto, non sono interessato particolarmente alla narrazione intesa come arte del raccontare. Mi interessa più la narrazione in termini retorici, ovvero come espediente per organizzare un discorso il cui esito non è detto debba essere "affabulatorio".

Nella danza la musica "conduce", ma è giusto stiano allo stesso livello o il lato "fisico" deve predominare?
Per me la musica non conduce né accompagna. Non "vivo per lei". La musica non è una nostra guida nel lavoro, anche se molto spesso è nostra "influencer", almeno in termini di immaginario. La ricerca sonora e la produzione musicale, anche quando momenti seminali del processo, non si sono mai affermate come gerarchicamente più rilevanti nella composizione dei lavori. Almeno non nelle mie intenzioni. Non ce ne sarebbe stata la necessità perché la musica è una inscrizione sulla scena al pari degli altri elementi. Idem per il lato fisico.

La danza dev'essere netta, pulita, precisa, profonda ed intensa... Un coreografo prima seziona ogni elemento per poi montare il tutto e assaporare il risultato finale, qual è il momento che più ti affascina nella creazione?
Nettezza e pulizia sono delle categorie non universali. La nettezza e la pulizia possono non riguardare affatto un processo in termini formali e possono non connotare o riflettere la qualità del movimento, ed essere, allo stesso tempo, il pungolo costante di una creazione. Nettezza e pulizia sono ispirate dai canoni, i quali esistono per essere superati. Nella creazione i momenti che più mi affascinano sono quelli delle supposizioni, che normalmente precedono le verifiche.

Quanto è importante, in un momento storico come quello attuale, investire nuovamente sulla cultura e sull'arte?
Ovviamente è importantissimo. Anche se la funzione dell'investimento pubblico non si risolve solo nella quantità. Intendo dire che ogni finanziamento pubblico si legittima con una politica culturale ragionata, il più possibile equa e lungimirante. Se prendiamo in esame un caso recente ed eclatante come quello del finanziamento al Teatro Eliseo, possiamo comprendere quanto la quantità debba sempre essere connessa alla progettualità. Le specificità dei progetti dovrebbero determinare le modalità di sostegno. Oltretutto il finanziamento perde di senso se non è espressione di una logica chiara. Perché non risulti arbitraria persino la premialità non può essere né "casuale" né randomica. La sconsideratezza di un atto come questo rischia di essere interpretata come mancanza di considerazione nei confronti di molti altri soggetti che sulla progettualità stanno investendo proprio nella prospettiva di ricevere sostegno.

Quali sono le domande o le aspettative che ti arrivano maggiormente dai più giovani?
Ho trentuno anni e non sento molta distanza tra le mie aspettative e quelle di colleghi ancora più giovani di me. Di certo, a proposito, penso che sia comune il desiderio di essere considerati per il proprio lavoro al di là della soglia anagrafica. L'essere giovani non può essere un marchio.

Il concetto di "bellezza" così poco esprimibile, dove lo ritrovi e qual è la giusta formula per trasformarlo in danza, in performance?
La bellezza per me risiede laddove decade l'assoluto!

La voglia di esprimerti attraverso lo strumento della danza come è nato in te, quando e quali sono i primissimi ricordi?
A Villarosa, in Sicilia, nel paese in cui sono cresciuto, avevo più o meno cinque anni e i miei genitori hanno affittato il pian terreno della nostra casa ad una danzatrice che vi ha realizzato una piccola scuola di danza. È stata la prima scuola di danza del paese. Ai miei occhi quella era davvero una circostanza fuori dal comune. Ma in quegli anni ero troppo timoroso, e forse ancora un po' piccolo, per propormi come allievo. Mi ricordo di avere assistito a diverse classi (soprattutto finché le mie due sorelle sono state allieve). Questo è il mio primo ricordo legato alla danza.

Cosa ti ha spinto a studiare danza, a voler fare il danzatore e il coreografo poi?
La scuola sotto casa è durata solo pochi anni. Crescendo ho cominciato ad avere coscienza del mio corpo e sentivo che in generale ero attratto dall'espressione motoria. Poi, quando avevo dieci anni, sempre in paese è stata aperta una scuola di danza sportiva. Quella è stata la mia pratica quasi quotidiana per diversi anni inseguendo allenamenti e competizioni. Poi a quattordici anni ho incontrato la danza moderna e contemporanea e ho cominciato a considerare la danza come espressione artistica. La scelta di occuparmi di coreografia è arrivata nel tempo e comunque non si è presentata come strada esclusiva. È stato un inevitabile sbocco del mio interesse per la regia teatrale.

A chi sei grato?
A moltissime persone e a moltissime cose. La gratitudine è un sentimento che coltivo con convinzione. È una delle cose che mi rendono impegnato.

Le nuove generazioni necessitano di un'identità, e il teatro, la danza, la musica e l'arte tutta sono portatrici di identità ben chiare. Cosa vuoi lasciare in eredità agli spettatori al termine di un tuo spettacolo?
Identità ed eredità sono due concetti che credo di non padroneggiare. Per me l'identità è una delle possibilità che le persone hanno per essere fluidi. L'identità mi riguarda quando non deve confrontarsi a tutti i costi con la chiarezza. Quando non è definita da confini stabili e unitari. Riguardo l'identità vorrei rivendicare il diritto all'opacità piuttosto che alla trasparenza. Per questo motivo non credo che l'arte sia un veicolo di identità, né tanto meno di valori universali. Al contempo pensare all'eredità mi fa pensare immediatamente ad una fine, ad un trapasso. Per me il teatro, la danza e l'arte non si occupano di questo.

La danza dovrebbe portare ad una reale e più profonda comprensione di chi siamo e di chi ci circonda, è sempre così per tua esperienza?
La danza non è separata dal resto delle altre cose che accadono nel mondo. È l'espressione di un pensiero e può anche essere un modo per posizionarsi. In questo senso può aiutare alla comprensione dei fenomeni attraverso dei processi che non sono statici ma dinamici e in trasformazione.

Quali sono stati i maggiori momenti di orgoglio nella tua giovane carriera, finora?
Il mio percorso è stato segnato finora da una costellazione di felici incontri, accadimenti, opportunità e contesti che lo hanno incoraggiato e sostenuto. In termini produttivi e di pensiero. Quello che mi rende orgoglioso, però, non è solo la progressione lineare intesa come prospettiva di una "carriera", quanto piuttosto la possibilità di costruire un percorso organico.

La danza, in ogni suo stile, è sinonimo di umiltà, disciplina, rigore e rispetto. Fra tutti gli insegnamenti ricevuti nell'ambito coreutico quali ti piacerebbe fossero attualizzati nella società che ci circonda?
L'entrare in connessione con il corpo come condizione basilare. I corpi, come dicevo prima, generano azioni. Possono diventare metafora di una espressione che da singolare tende alla pluralità.

Pensi sia indispensabile per un coreografo essere stato anche un danzatore?
Probabilmente no.

Qual è stato il tuo primo lavoro coreografico e dove è andato in scena?
È stato l'esito di una residenza, nel 2010, che si è svolta a Orroli, in Sardegna, sotto la supervisione di Claudia Castellucci. L'impostazione della residenza era seminariale e indagavamo il concetto di scrittura. Le mie scritture furono principalmente motorie. Quello fu il mio primo esercizio coreografico consapevole.

Sei didatta di arti performative e hai condotto vari workshop. Qual è l'aspetto che più ti soddisfa nel ruolo di maestro?
Non ho mai esercitato il ruolo del maestro. Mi capita spesso di condurre delle classi, dei workshop e di coordinare dei momenti di studio che hanno una funzione didattica per le persone coinvolte. Ma in primo luogo ce l'hanno per me. La didattica è una manifestazione dialettica e scarsamente gerarchica e presuppone un rapporto binario tra docenti e discenti. Implica un costante aggiornamento degli obiettivi e capacità di negoziazione. Nello specifico del mio caso le occasioni di insegnamento sono quasi sempre state contestualizzate nell'ambito di progetti specifici e per questo sono state per me occasioni di prolungamento e allargamento dei miei temi di lavoro. Penso ai workshop come una estensione relazionale della ricerca che in quei momenti diventa, per forza di cose, polifonica.

Michele Olivieri

Ultima modifica il Sabato, 21 Aprile 2018 11:28

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