Daniele Albanese nasce a Parma. Si forma come ginnasta e ballerino classico. Nel 1997 si diploma presso il "European Dance Development Centre di Arnhem" (Olanda) dove studia, tra gli altri, con Steve Paxton, Eva Karkzag, Lisa Kraus, Benoit Lachambre, Jennifer Lacey, Mimi Goese. Crea i suoi primi spettacoli dal 1995 e danza per artisti come Peter Pleyer, Tony Thatcher, Company Blu, Martin Butler, Mawson-Raffalt + Faulder-Mawson, Jennifer Lacey, Virgilio Sieni, Nigel Charnock, Karine Ponties, Enzo Cosimi. Nel 2002 fonda la propria compagnia di danza "STALKER". Le sue creazioni sono state presentate in molti teatri e festival internazionali, tra cui Festival Sesc (S. Paulo), Fabbrica Europa (Firenze), Masdanza (Gran Canaria), Teatro Comunale di Ferrara, Interplay e TorinoDanza (Torino), Festival Grec (Barcellona), Vie dei Festival (Modena), Dna - RomaEuropaFestival (Roma). Dal 2005 al 2010 crea i seguenti spettacoli: "àrebous 100" (2005), "Tiqqun" (2007), "Pietro 1° studio" (2008), "Only You" (2008), "In a Landscape" (2008), "Andless" (2009), "Something About Today" (The Vicious Circle), "AnnotTazioni". Coreografo italiano selezionato per DancEUnion 2011 nel cui ambito presenta a Londra presso il Southbank Centre "AnnotTazioni" (2011). Dal 2012 crea "D.O.G.M.A.", "Digitale Purpurea I" e "Red Blue Works/Drumming Solo" su musiche di Reich e Berio. Ha collaborato come assistente alla creazione di Benoit Lachambre "Snakeskins" all'interno della quale ha un intervento in scena. La sua ultima produzione "VON" ha debuttato al "Festival Les Hivernales" ad Avignone e ha debuttato in Italia al "Torinodanza Festival". La struttura compositiva degli spettacoli STALKer è strettamente interconnessa con la ricerca sul corpo e il movimento allo scopo di indagare la danza come linguaggio. Alcuni spettacoli che hanno visto Daniele Albanese interprete: 1993 "Apollo's Disciples" (coreografia: Peter Pleyer) 1994 "City Bits" (coreografia: Charlotte Zerbey) 1994 "Studs" (coreografia: Tony Thatcher) 1995 "Signo Nù" (coreografia: Joao da Silva) 1996 "Our Dainty Little Tracks" (coreografia: Jennifer Lacey) 1997 "Global tm" (coreografia: Martin Butler) 1998-2000 "Dimmi che sono Bella" (Compagnia Corte Sconta) 2001 "Idiom" (Company blu) 2002 "Barcelona Project" (coreografia: Nigel Charnock) 2002 "Il brutto@natroccolo" (TPO) 2003 "Buffers" (coreografia: Ariella Vidah-Aieprod) 2005 "Mi difenderò" (coreografia: Virgilio Sieni) 2007 "Boreas" (coreografia: Karine Ponties - produzione Lod) 2013 "Snakeskins" (coreografia: Benoit Lachambre) 2016 "Estasi" (coreografia: Enzo Cosimi) 2017 "Xebeche" (Gruppo Nanou). Tra le regie coreografie di Daniele Albanese troviamo: 1995 "L'opera al nero", 1996 "Grand duet", 1997 "Broken Lapsus", 1998-2000 "Organismo 1 e 2", 2002 "Danza per delfino ucciso", 2004 "Gin"; "Lego 1"; "Lego 2"; "àrebours (-2)" 2005 "àrebours 100", 2007 "Tiqqun – 1° studio: nemmeno l'allodola vede l'aperto", 2008 "Pietro – 1° studio", 2008 "In a Landscape", 2008 "Death Pattern", 2008 "Only You (and you alone)", 2009 "Andless", 2010 "AnnotTazioni e Something About Today" (The Vicious Circle), 2012 "D.O.G.M.A.", 2014 "Digitale Purpurea I", 2015 "Red Blue Works" (di cui fanno parte "Drumming Solo" e "Red Blue Work1"), 2017 "VON" e "VON solo". Daniele Albanese in qualità di interprete e con i propri spettacoli di danza ha partecipato ai seguenti festival internazionali: International Choreographic Competition (Groningen); Impuls Tanz (Vienna); Fabbrica Europa (Firenze); Movement Research (New York); PS 122 (New York); Korzo Theatre (Den Haag); Salzmann Fabric-Documenta X (Kassel); CanGo (Firenze); CRT-Short Formats (Milano); Teatro Comunale (Ferrara); Festival Sesc (S.Paulo-Brasile); Festival Interplay; Kaaitheatre (Bruxelles), RomaEuropa Festival/dna (Roma); Cartoucherie (Parigi) e molti altri.
Carissimo Daniele, com'è nato l'amore per la danza, dopo la lunga esperienza da ginnasta?
È sempre difficile ricordare esattamente e si tende poi a dimenticare piccoli eventi importanti. Tento di ricostruire alcuni passaggi. Mia madre mi parlava sempre di Maya Plisetskaya che andava a vedere al Bolshoi quando viveva a Mosca. I miei genitori, entrambi italiani, si sono conosciuti all'Università di Mosca negli anni Cinquanta, molto della cultura russa mi è stata passata fin da piccolo, da qui anche il nome della mia compagnia dal bellissimo film "Stalker" di Tarkovskij. Credo di aver iniziato a studiare danza classica spinto da una mia amica, verso i quindici anni. Ricordo anche un documentario su Nureyev, l'anno prima di iniziare gli studi, passato in televisione, che mi ha folgorato; ero in vacanza con i miei genitori e mi chiudevo in bagno a ripetere gli esercizi alla sbarra che avevo visto.
Hai studiato presso EDDC- Arnhem in Olanda e per quattro anni ti sei concentrato su "Complex Movement, Release Technique, Alexander Technique, Composition, Choreographic Structure, Theory, Improvisation". Che tipo di percorso formativo è stato e quale cammino hai poi sviluppato per raggiungere un tuo linguaggio?
L'EDDC era un posto unico, ora non c'è più, ma ancora vedo molta della sua eredità in giro per il mondo, dagli studenti che oggi sono artisti. C'erano insegnanti fissi, tra cui Eva Karczag e Lisa Kraus, due danzatrici straordinarie dei primi lavori di Trisha Brown e numerosi guest teachers, con cui si poteva studiare per diversi mesi, tra questi Steve Paxton, Lisa Nelson e tanti altri. Il programma era libero, si era obbligati a creare il proprio percorso, al termine dei quattro anni dovevi aver accumulato il numero di credits consentito per ogni materia. Se in un periodo non desideravi accettare nessuna delle proposte della scuola potevi dedicarti al tuo lavoro personale. Una scuola basata sull'idea di anarchia responsabile. Avevamo le chiavi e il libero accesso a tutto: teatro attrezzato, sala video, sala musica, studio di danza, videoteca, biblioteca. Se non creavi una tua struttura di collegamento eri perso, se la creavi avevi adito ad informazioni e persone preziose. Ricordo nel mio primo anno una lecture di Deborah Hay, con un tessuto che le copriva il viso mentre parlava, una sorta di parapetasma, una perfomance/lecture; non ho memoria di ciò che ha detto, ma sicuramente mi è rimasta impressa e pochi mesi fa l'ho incontrata a Berlino, le ho rammentato l'aneddoto. Ho studiato e per un periodo vissuto nella stessa casa di Steve Paxton, in modo del tutto normale, credo di avere ancora le sue "valutazioni". L'approccio al movimento non era tradizionale, ma innovativo, le materie spaziavano dall'Alexander Technique, al Body Mind Centering e si aveva la possibilità di entrare nel lavoro e ricerca dei vari coreografi.
Hai lavorato con svariate realtà. Sono state tutte felici esperienze? Dove ti sei sentito più a casa?
Come coreografo sono a casa dove posso fare il mio lavoro, senza obblighi o pressioni. Diciamo che come danzatore non mi sono sentito spesso a casa, fin dagli esordi ho avuto la percezione di non essere un interprete: funzionavo nei lavori che facevo e ogni volta sembravo aderire perfettamente al dato linguaggio, ma soffrivo. Mi sono trovato molto bene per comunione di linguaggi con Jennifer Lacey e Benoit Lachambre ovviamente, ricordo di un trio con loro due a ventun anni presso Ps122 a New York: seguivo le classi di Jennifer in Olanda, è stata guest teacher all'Eddc per un certo periodo, e lei mi chiese di partecipare a questo trio. Mi sono trovato così a girare con due mostri della scena, da New York al Canada, in giovanissima età!
Il tuo primo lavoro da danzatore e da coreografo qual è stato e dove?
Come danzatore... è difficile da ricordare, mi sembra un saggio con la variazione dal "Don Chisciotte" e in duo con la mia maestra Marina Fisso a Parma, poi il vero primo spettacolo in Olanda nel 1992 con Peter Pleyer. In qualità di coreografo l'esordio è avvenuto nel 1995 con "L'opera al nero", ad Arnhem in Olanda.
Come ti accosti ad una creazione coreografica? Da dove trai spunto per la realizzazione?
Da più punti e da più direzioni che creano un nuovo elemento inedito. Un pensiero sullo spazio può nascondersi e crescere negli anni, legandosi poi ad una riflessione sul corpo, da queste combinazioni avviene l'origine delle creazioni. È più un campo di lavoro che un unico tema, quando capisco che l'incontro di svariate informazioni su cui stavo riflettendo da tempo è diventato generativo è il momento di fare il lavoro.
La musica come si combina con il lavoro del coreografo e in particolare con il tuo?
Dipende dal progetto. In "HOME", il nuovo assolo a cui lavoro, per ora è quasi assente, c'è un testo che parlo mentre mi muovo, con un suo ritmo ma la musica è mancante. Solitamente lavoro con musicisti che compongono ad hoc per la creazione, tutto nasce dall'incontro tra artisti diversi, come nel caso di "VON" e di "Elsehwere" con la musica di Luca Nasciuti, in questi casi la musica, come le luci, definiscono lo spazio, la sua densità, le sue forze.
Com'è stata l'esperienza presso l'Odin Teatret? In quale modo ne sei uscito arricchito?
All'epoca, avevo poco più di vent'anni, ero un ottimo danzatore, avevo creato alcuni miei lavori, ero già un maker ma non amavo la coreografia, non capivo cosa fosse. Creavo lavori ibridi e forse più teatrali. Mi sono avvicinato al teatro di ricerca per scoprire i segreti del fare profondo del performer, nel tentativo di incontrare il pubblico con intensità. Non trovavo nella danza di ricerca un approccio altrettanto sistematico.
Ho letto che ti sono stati fondamentali gli studi con il filosofo portoghese José Gil?
È stato mio insegnante in Olanda per alcune settimane e poi siamo rimasti in contatto per diversi anni. Mi ha dato le chiavi di lettura che uso ancora oggi: le piccole percezioni, la differenza tra micro e macro, l'invisibile e come vederlo, la magia, Gregory Betson e la struttura che connette per delineare la differenza tra qualità e quantità. Il mio sguardo e il mio pensiero seguono questi cardini tutt'ora.
Qualche anno fa hai pubblicato un libro dal titolo "Geometrie d'acqua e altre poesie", di cosa parla?
Delle parole. Quando scrivo parlo sempre delle parole. Quando creo un lavoro con il corpo parlo sempre della creazione e del corpo. Mi interessa l'arte che nel mentre dice qualcosa anche di se stessa e riflette automaticamente sul linguaggio.
Quali sono stati, finora, gli incontri più felici a livello professionale, non solo dal punto di vista artistico ma anche umano?
Diversi e rischio di perderne qualcuno per strada a tentare di ricordare. L'intero staff di "VON", Eva Karczag e tutte le persone con cui sto lavorando ora.
La tua città è Parma. Come ti piacerebbe raccontarla per chi non la conoscesse?
Questa è una domanda impossibile, non saprei. Poi da un anno vivo tra l'Italia e Berlino dove studio "Alexander Technique" e quando sono in Italia sono ben poco a Parma. La mia famiglia non è di Parma, mia madre era siciliana, mio padre è marchigiano. Ma... il mio prossimo lavoro, si chiama appunto "HOME" e parla di questo, di una "casa non casa" che forse è il linguaggio che utilizziamo. Molto del mio passato, e lo noto anche ora che rispondo alle tue domande Michele, sta prepotentemente tornando: l'assolo "HOME", ma pure il duo "Elsewhere" con Eva e tante altre coincidenze... che forse coincidenze non sono! È un momento in cui tutto si sta collocando in modo chiaro e diventa un paesaggio a cui posso riferirmi.
Mi racconti la tua visione di cultura, sperimentazione e bellezza?
Su questa domanda torno da te Michele tra un paio di mesi, se sei d'accordo. Ho bisogno di pensarci a lungo.
Qual è l'aspetto che ti gratifica nel ruolo di docente?
Resto ancora sorpreso quando i danzatori che studiano con me si entusiasmano, io non faccio altro che dire e fare ciò che so, in modo molto semplice e alquanto pratico. Mi piace aiutarli a sgombrare il campo da falsi ragionamenti, alleggerirli, in qualche misura, per quanto possibile, liberarli.
La pratica del "movimento istintivo" come nasce e come si articola nel tempo?
Anche questa è una domanda che richiede uno spazio tutto suo e preferisco risponderti in futuro. Le informazioni si stratificano, rendendo il fare scenico sempre più organico, sono processi lenti tra il conscio e l'inconscio dove le parole sono porte che permettono l'accesso a mondi diversi.
Quali sono le prospettive future sul lavoro che stai portando avanti? Cosa ci riservi in scena prossimamente?
A breve debutto a Milano con "Elsewhere", all'interno del "Festival Exister/Dancehaus più" il 27 ottobre presso il Teatro Fontana, lo stesso lavoro replica a Parma il 30 ottobre al Teatro Due e poi a Berlino al Dock11 (l'8, 9, 10 novembre). È un duo con Eva Karczag, un lavoro a suo modo "aereo" e sulla comunicazione invisibile. Contemporaneamente sto lavorando ad "HOME", il nuovo solo di cui ho mostrato alla NID un frammento di ricerca. Amo molto "HOME", è il lavoro che mi aiuterà a definire il mio linguaggio da oggi in poi – sicuramente si scosta da ciò che ci si aspetta da me... da bravo danzatore – è più vicino alla performing art che alla danza, ma questa divisone tra le arti è forse più forte in Italia che all'estero, e non fa benissimo alla creatività!
Come ti poni nei confronti della disciplina classica accademica?
Mi piace guardarla quando è perfetta. Non penso sia necessaria alla danza contemporanea, non sono della scuola "tutti devono possedere le basi classiche", ho visto persone avvicinarsi alla danza a ventotto anni e studiando in modo del tutto non accademico diventare grandissimi movers. È ovviamente un possibile punto di riferimento perché è strutturata, ma è ben diversa rispetto alle danze tradizionali di altre culture che sono radicate in una tradizione e nel flow del corpo. Non dobbiamo mai dimenticare il contesto socio-politico in cui le discipline nascono. In prova mi diverto a fare danza classica per gioco: ero un piccolo talento particolarmente dotato, dall'estensione all'en dehors ai piedi, ma poi mi è stato stretto quel mondo, ho seguito un workshop di Pippo del Bono a Parma e la danza classica l'ho abbandonata, scappando in Olanda a diciotto anni, dopo il Liceo.
Esiste un filo che fa da comune denominatore nei tuoi lavori o sono slegati uno dall'altro?
Cerco di fare qualcosa sempre di innovativo, anzi cerco di mettere a punto un abbozzo di linguaggio inedito ogni volta. È un procedimento faticoso. Forse negli ultimi anni vedo alcuni punti fissi; di certo non ho mai separato l'azione dalla presenza, il corpo oggetto dal corpo soggetto.
Quanto è importante il binomio corpo/spazio?
Credo che nel mio caso sia fortissimo. Io non mi muovo e poi metto ciò che faccio nello spazio ma mi direziono nello spazio e questo genera movimento. E uso lo stesso procedimento quando lavoro con altri danzatori.
Nella tua visione il corpo è lo strumento creativo per eccellenza?
Credo di sì, sono sempre affascinato dal togliere il più possibile – credo che questo possa essere un punto in comune con il teatro dell'Odin Teatret e di Grotowsky che ho seguito a lungo – alla fine se spogliamo tutto resta sempre solo il corpo del perfomer e almeno uno spettatore.
Dell'attuale scena contemporanea a chi rivolgi il tuo sguardo con maggiore interesse?
Nel mio percorso questo periodo è un grande momento di passaggio, ciò che guardavo prima non mi interessa molto ora, credo che per rispondere adeguatamente avrei bisogno di altri due mesi, posso averli Michele? Sono in bilico tra due opposti, da una parte amo guardare anche ciò che non amo, posso imparare pure così, dall'altra il tempo è poco e non non voglio sprecarne nemmeno un secondo.
Che tipo di evoluzione ha avuto il tuo lavoro negli anni?
Se prima tutto nasceva da necessità che non controllavo, ora so meglio dove mi trovo, chi sono e cosa faccio. Colloco il lavoro più chiaramente nel suo spazio-tempo, in questo senso è più maturo e quindi credo più leggibile. Creo un contratto maggiormente chiaro con lo spettatore.
Cosa ricordi del tuo primo giorno in sala danza?
Ricordo poco purtroppo. Nutro delle reminiscenze solo al fatto che ero una piccola macchina da guerra, del tutto monomaniacale e ossessivo, cose che in parte sono ancora, ma per fortuna molto addolcite, almeno spero!
Parlami di Steven Paxton e della sua visione artistica?
Ho studiato con Steve Paxton spesso e a lungo, ho visto negli anni Novanta il suo "Solo Goldberg" e tante altre cose. Ho anche litigato con lui in un paio di occasioni. Non so se posso parlare della sua visione, quello che posso dire è che come docente era molto chiaro, era riuscito a creare una sintesi di informazioni e a farle ruotare attorno a pochi punti cardine. Ricordo "spirali" ed "estensioni" e i suoi riferimenti erano l'aikidō e il balletto classico, forse non ci si aspetterebbe quest'ultimo ma era così. Diceva: "nel balletto vedo un grado di estensione interessantissimo e che ha condizionato la mia danza più di ogni altra cosa!".
Mentre per chi non la conoscesse, chi è Eva Karkzag, a mio avviso grande artista nel campo della danza sperimentale?
Eva è un artista indipendente. Ha danzato con Trisha Brown nei primi lavori importanti come "Set and Reset", "Opal Loop". Ma poi ha scelto di continuare a sperimentare in modo indipendente. Il suo corpo ha così tante informazioni e sa come passarle agli allievi. Quando la vedo muoversi, anche ora che ha settant'anni, imparo tanto su organicità, collegamento e fluidità. È una grandissima della danza che nasce dalla scena post moderna americana e allo stesso tempo una delle persone più umili che abbia conosciuto. Per me è un onore lavorare con lei, anche se quando ci vediamo non c'è alcuna gerarchia perché è tutto estremamente naturale. Il gruppo di "Elsehwhere" è formato da artisti fortissimi che si sono amalgamati benissimo; oltre a me ed Eva ci sono Fabio Sajiz per il disegno luci e Luca Nasciuti che ha composto la musica.
La tua danza si basa su un linguaggio libero o segue sempre un filo logico nella narrazione?
Non mi interessa la narrazione, però cerco sempre una struttura.
Nel dirigere una Compagnia, quali sono i problemi riscontrati e come nasce il nome Stalker?
La burocrazia, i finanziamenti e i problemi tecnico-amministrativi. "Stalker" nasce dal film di Tarkvoskij: lo Stalker ha il compito di portare le persone nella Zona. A mio modo spero di fare lo stesso, cerco di portare il pubblico in un luogo altro, con le sue leggi e i suoi precipizi.
La tua è una compagnia d'autore, ritieni sia fondamentale questo aspetto dal punto di vista artistico e culturale?
Siamo persone, come una idea si sviluppa nella mente di qualcuno, come passa agli altri è affascinante. Ciò che rende interessante la vita credo siano gli incontri, cosa vuol dire incontrare qualcuno? Un lavoro come il mio e dei miei colleghi aiuta questo scambio e in qualche modo ripara alcuni deficit del nostro mondo. Anche per questo mi rattrista molto quando nel nostro ambiente si vedono attriti, livori, mancanze di ascolto, guerre per il territorio, ma immagino abbia a che fare con il mondo di oggi e con alcuni aspetti poco gratificanti insiti nell'essere umano.
Nei tuoi lavori cosa vuoi lasciare in eredità agli spettatori, una volta terminato lo spettacolo?
Spero di lasciare delle domande e dei dubbi, solo nei dubbi possiamo scoprire qualcosa di nuovo.
Mi regali un pensiero su Pina Bausch?
Devo confessarti una cosa Michele: gli studi che ho intrapreso in Olanda, con tutti maestri americani è agli antipodi del teatro-danza di Pina Bausch... ma ti racconto un fatto bizzarro. Anni fa ho presentato il lavoro "In a Landscape" a San Gimignano, in piazza. C'era Fernando Arrabal (drammaturgo, saggista, regista, sceneggiatore, poeta, scrittore e pittore spagnolo) ad assistere e dopo mi ha parlato, mi ha scritto il nome di un musicista con cui ha lavorato perché la musica di "In a Landscape" gli aveva fatto ricordare questo compositore. E poi mi ha detto le seguenti parole "Mi è piaciuto molto. Sarebbe piaciuto anche ad una mia amica. Ma è morta. Pina Bausch". Sono rimasto pietrificato!
Il colore, il gusto, il sapore, il tatto e la luce che ruoli giocano nel tuo quotidiano per poi riflettersi nel lavoro creativo?
La mia memoria fisica detta i primi tratti di un lavoro. Spesso fisso materiali a partire da sensazioni e direzioni, dalla memoria fisica in primis.
Nelle scelte professionali sei un istintivo o pianifichi il tutto?
Il mio istinto è fortissimo, poi cerco di ammaestrarlo con il pensiero. Raramente ci riesco!
Come si dovrebbe valutare obiettivamente un lavoro altrui? Che ruolo ha giocato e gioca oggi la critica nell'essere artista e artefice?
A me piace molto fornire feedbacks, è una pratica che facevamo spesso all'EDDC. La critica non dovrebbe -desiderare che- o -sperare di- ma capire l'opera, leggerla nella sua logica, e da lì eventualmente trovarne aspetti forti e deboli. La critica intesa come la critica che leggiamo non ha giocato alcun ruolo nel mio sviluppo. È bello quando si è capiti, ma non ha direzionato il mio lavoro. Diverso è il dialogo con colleghi che stimo e che ascolto. Ti riporto un pensiero di George Steiner che mi è caro: "...L'unica critica letteraria possibile è la lettura, come la sola critica musicale possibile è suonare la musica. Quando un tale gli chiese di spiegare un étude difficile, Schumann si sedette al pianoforte e lo suonò di nuovo. Benedetti Michelangeli è il più grande critico di certi problemi di Beethoven. La critica è un gesto di natività".
Quanta importanza dai allo studio e alla capacità di ascolto?
Sto studiando "Alexander Technique", significa cinque ore al giorno tutti i giorni, di lavoro su ascolto e direzioni e molto altro. Solo con una pratica così estrema, al tempo stesso fisica e mentale, il mio lavoro, anche nelle sue parti più volatili e di pensiero, cresce in modo organico.
Mentre all'improvvisazione?
Raramente nei miei ultimi lavori costruisco frasi perfettamente ripetibili, eppure a loro modo sono ripetibili, mi piace il gioco tra struttura che ripeto e idiosincrasie che rendono il lavoro sempre qui e ora. Ma improvviso molto poco in creazione, preferisco capire e poi muovermi, non parto mai dall'improvvisazione, forse ci arrivo in scena, è un punto di arrivo non di partenza per me.
Qual è il momento che più ti affascina nella creazione?
Il passaggio dal non sapere e dubitare di tutto a quando le cose prendono una logica, mediante un procedimento non lineare.
Chiudiamo parlando di Sibilla Aleramo, sei d'accordo Daniele?
Sibilla Aleramo... devo riparlare di mia madre. A sedici anni era la presidente della "Federazione Italiana Giovani Comunisti", in Sicilia. Sibilla Aleramo quando veniva in Sicilia passava sempre a trovare i miei nonni e quindi anche mia madre, abbiamo ancora le dediche sui libri a Maddalena Gaglio, e alla sua fervida giovinezza... Poi il caso ha voluto che di ritorno dalla Russia mia madre scelse alcuni mobili in un deposito del PCI (lavorava all'ufficio esteri del PCI una volta ritornata in Italia - parlava sia russo che cinese!) e scelse proprio quelli della Aleramo... ogni volta che vedo una sua foto riconosco la poltrona ancora a casa di mio padre - mi ci arrampicavo sopra e facevo acrobazie. Credo che tutto questo abbia segnato profondamente il mio rapporto con ciò che è giusto e corretto. Tollero molto poco gli abusi di potere, immagina che fatica nel panorama del teatro italiano?! E finirei così Michele ...con una risata divertita!
Michele Olivieri