Giovanna Lisa è nata a Sesto San Giovanni, nel 1950 entra alla Scuola di Ballo del Teatro alla Scala e si diploma professionista nel 1958, accedendo direttamente nel Corpo di Ballo della Scala a tempo indeterminato. Nella sua lunga carriera di interprete ha preso parte a celebri produzioni scaligere sia in opere liriche che in balletti. Tra i tanti titoli si ricordano il “Lago dei Cigni”, “Schiaccianoci”, “Giselle”, “Esoteric Satie”, “Miss Julie”, “Shéhérazade”, “La bella Addormentata”, e numerosi altri, ballando al fianco di grandi nomi della danza internazionale, con coreografi del calibro di George Balanchine, Rudolf Nureyev, Nicolas Beriozoff, Aurel Milloss, Léonide Massine, Luciana Novaro, Mario Pistoni, Margherita Wallmann, Antonio Rodriguez, John Cranko, Antonio Gades, Louis Falco. Contemporaneamente alla carriera di danzatrice ha affiancato quella di docente presso la Scuola di Ballo del Teatro alla Scala.
Carissima Giovanna, “apriamo le danze” con i tuoi inizi...
C’era una volta la figlia di un panettiere, ne ricordo solo il cognome, signorina Verati, di Sesto San Giovanni. Fu lei che diede la prima spinta affinché potesse realizzarsi ciò che la vita aveva in serbo per me. Parlo del tempo delle elementari: scuola di via Rovani a Sesto San Giovanni: prima, seconda e terza. Ogni fine anno, la signorina Verati organizzava un spettacolino dove i bambini si esibivano in recitazione, danza e canto. Ricordo lo spettacolo di chiusura della seconda elementare nel ruolo di una lucciola (più che una lucciola sembravo un minatore perché mi avevano messo una luce sulla fronte) e, dopo qualche abbozzato passo di danza, cantavo questa canzoncina: “Piccolina, prodigiosa, graziosetta, lucciolina / Che risplendi misteriosa come tremula stellina / Luccioletta, scintillante, meraviglia del creato / Nella notte fra gli incanti va / Chi ti vede poi beato sognerà”.
Quale significato ha questa canzone?
A ben vedere, rappresenta la sintesi della mia vita ed è forse per questo motivo che è rimasta ancora viva nella mia memoria per oltre settanta anni. La mia performance artistica colpì la signorina Verati che chiamò mia madre e le disse che vedeva in me delle doti naturali per la danza classica. Mia madre, che soffriva di una lussazione congenita dell’anca, forse proprio a causa del suo handicap, accettò subito il consiglio e mi accompagnò alla Scala per informarsi. Arrivati in via Filodrammatici, sotto i portici, all’ingresso degli artisti, mia madre chiese ad una signora che stava uscendo a chi doveva rivolgersi per fare domanda di iscrizione alla scuola di ballo. Quella signora, guarda caso, era Ettorina Mazzuchelli allora Direttrice della Scuola di ballo che mi disse: “Hai solo sette anni, ti aspettiamo alla fine della terza elementare”. Aspettai!
E nel frattempo?
Devo aggiungere questa storia parallela Michele. Avevo una zia di nome Rosetta, sorella di mio padre, che era una modista. Un giorno, facendole visita a Milano in via Benedetto Marcello al n. 10, una sua cliente stava provando un cappellino. Mia zia le disse che volevo presentarmi per essere selezionata alla Scuola di Ballo della Scala. Quella signora si chiamava Melò e, guarda caso, era l’insegnante degli allievi maschi della scuola di danza, sempre della Scala. Mi guardò e mi disse: “tira il pé e fam vedé i gambett” e poi disse: “Cun quei pé, te ciappen subit”. All’inizio della quarta elementare, siamo nel 1950, avendo compiuto nove anni, mia madre mi accompagnò alla Scala per affrontare la selezione. I partecipanti erano circa cinquecento. Potrà sembrare strano, ma di quella vicenda ho solo ricordi vaghi e nessuna presenza di emozioni, forse perché la mia agitazione doveva essere alle stelle. Tra la nebbia di quei ricordi intravedo una bimba alla quale le chiesero di stendere i piedi e... fui scelta. In tutto venticinque bambine su cinquecento. Da quel giorno la mia vita ha preso una diversa e inaspettata strada perché scuola elementare e scuola di danza si svolgevano all’interno del teatro. Suora di clausura? non proprio, ma neppure molto diverso. A volte il sacro e in profano hanno punti di contatto.
Come erano strutturate le giornate di studio a quei tempi?
Alle otto e trenta iniziava la lezione di danza e terminava alle dieci, poi la scuola elementare, poi la mensa, poi lezioni di francese e negli anni successivi, progressivamente aumentavano le lezioni su materie come trucco, danza di carattere, mimica... Fin dall’inizio, e sempre più spesso, mi sceglievano come comparsa nelle opere e questo comportava ulteriore lavoro. Credo sia cosa nota che prima di entrare in scena, che sia per un minuto o per un intero atto, la preparazione e l’attesa non cambiano molto. Naturalmente a quell’epoca era tutto dovuto e gratuito e a nessuno veniva in mente che si trattasse di sfruttamento di lavoro minorile. Insomma avevo l’impressione di vivere in un posto dove praticamente non vedevo mai il sole, soprattutto nei mesi invernali. A volte entravo al mattino e uscivo a notte fonda.
Tra le tue Maestre scaligere a chi va il primo ricordo?
Alla Giussani, la mia insegnante del primo corso, era una arzilla, piccola signora, già avanti negli anni, ma oggi non ne sarei così sicura, dal momento che a quei tempi una signora di solo quaranta anni era già considerata anziana. La Maestra Giussani che indossava una svolazzante gonna rossa ci mise subito sulle punte. Questo metodo fu fortemente criticato dalla mia seconda, ultima e grande insegnante: Esmée Bulnes che era appena arrivata alla Scala dalla scuola di Londra, ma su questo trasferimento potrei sbagliarmi. Ricordo le frequenti discussioni tra l’insegnante Giussani e la pianista Ricci, perché mentre accompagnava con il piano le lezioni di danza, leggeva il giornale e beveva il caffè. Chissà perché la nostra memoria è così stranamente selettiva. Già dal secondo e terzo corso la mia nuova insegnante Bulnes mi sceglieva per partecipare ad ogni tipo di rappresentazione anche al di fuori del teatro tipo: spettacoli a sostegno dell’Istituto dei ciechi, dell’Associazione dei mutilati... Ero l’unica bambina, oltre a solisti e primi ballerini del teatro, almeno così mi sembrava, ad essere scelta per quegli eventi.
Chi hai avuto come primo partner artistico?
Ricordo perfettamente che fu Giancarlo Morganti con il quale ho ballato più volte la tirolese di Rossini che la signora Bulnes aveva coreografato per noi. Avevo undici anni e Giancarlo quattordici. Ho ancora alcune fotografie di quell’evento.
Qualche incidente artistico ti è mai capitato?
La signora Bulnes mi aveva scelto per una piccola esibizione in casa di una ricca famiglia milanese che doveva festeggiare il terzo compleanno della loro figlioletta. Avevo undici anni. Cosa potesse capire quella bimba, Dio solo lo sa! Ma, come spesso accade, le madri usano i figli per realizzare i loro desideri. Dovevo ballare sulle punte su un brano musicale, che non ricordo, coreografata appositamente per me dalla mia insegnante. Ricordo un pavimento tirato a cera che mi fece cadere subito come un birillo. D’istinto sono schizzata in piedi, continuai a ballare; poi sono scoppiata a piangere consolata dalla signora Ballabio, mia cara pianista fino al diploma e ancora mia pianista quando, molto più avanti negli anni, decisi di insegnare danza alla Scuola di Ballo della Scala. Ricordo anche l’aprile del 1952 per l’Opera: “Il ratto del Serraglio” con il celebre soprano Maria Callas, all’epoca donna decisamente robusta. Devo entrare in scena al buio, truccata da negretto con scarpe nuove fatte a mano dal calzolaio della Scala, ne ricordo ancora il nome: signor Pignolo. Le suole erano lucide come uno specchio. Tenevo in mano un lumicino e, appena messo piede sul palcoscenico, scivolo, non per la cera, ma per le suole. Mi rialzo subito e continuo come se nulla fosse. Appena uscita di scena piansi a dirotto. “Non caddi mai più!”
Hai avuto anche la fortuna di danzare in un’opera diretta da Von Karajan?
Nel febbraio del 1952 Herbert Von Karajan chiese alla Scuola di ballo una bambina per interpretare la parte del negretto servitore della Marescialla (Elisabeth Schwarzkopf) nel “Cavaliere della rosa” e la signora Bulnes mi scelse anche quella volta. A quell’epoca le opere iniziavano alle ore 21 e a volte, come in questa rappresentazione, si tirava fino all’una di notte, ma nessuno esce di teatro alla chiusura del sipario. La tintura di nero che avevo sul viso emetteva un odore disgustoso e mi faceva vomitare; quell’odore mi si è fissato dentro così forte che riesco a sentirlo ancora oggi.
Che tempi erano per una giovanissima allieva?
Una di quelle sere a Milano nevicò molto e così perdemmo la corsa dell’ultimo tram. Io e mia madre tornammo a piedi sotto la neve fino a casa di mia zia Rosetta che abitava più vicino: in via Benedetto Marcello. Una bimba piccola, di notte, sotto la neve con una madre claudicante che la tiene per mano, a pensarci oggi, mi sembra una scena da piccola fiammiferaia o da dottor Zivago. A quell’epoca non c’erano citofoni, almeno nelle case dei più. Dalla strada, a gran voce, chiamavamo la zia Rosetta che abitava al terzo piano. Nulla da fare, non si svegliava. Per fortuna la vicina che forse aveva un udito più fine o un sonno più leggero ci ha sentiti, lanciò dalla finestra le chiavi del portone e fummo salve. Oggi qualcuno avrebbe chiamato la polizia!
Sicuramente una vita di sacrifici?
Facevo una vita faticosissima ma gratificante, mia madre, invece, solo faticosissima, oltretutto abitavamo fuori Milano, nel comune di Sesto San Giovanni. Mi accompagnava tutte le mattine e mi riprendeva tutte le sere e, a volte, come ti ho raccontato Michele, a notte fonda. Camminare non era per lei per nulla agevole. Fu dopo questa lunga e fredda notte che decise di farmi ospitare in casa di zia Rosetta e di zio Peppino che non avevano figli e furono felicissimi di accogliermi. Abitai con loro fino all’età di ventidue anni. Furono i miei secondi genitori: quelli complici! Per mia madre fu una grande perdita, ma allo stesso tempo, credo, un grande sollievo. La mamma è sempre la mamma. Si sarà capito che la mia famiglia era appena benestante e per benestante, negli anni cinquanta, significava avere un pasto caldo a pranzo e a cena; nulla di più e se la scuola di danza non fosse stata gratuita, la Scala l’avrei vista solo in fotografia e penso lo stesso per una grandissima della danza: Carla Fracci.
Parlami della Signora Bulnes?
Chi ha studiato danza attorno al mio periodo ha convenuto che l’appellativo più adatto per la signora Bulnes fosse “lady di ferro”. Immaginate come doveva sentirsi una bimba di dieci anni alla quale un’austera signora si rivolgeva dandole del Lei. Quasi tutte le mattine eravamo chiamate nel suo studio e messe su una bilancia. Ricordo che mi congedava dicendomi: “lei è quadrata”, perché le mie spalle, a quell’età, erano piuttosto marcate. Potete capire quanto questo giudizio fosse poco incoraggiante e quanto potesse deprimermi, soprattutto prima della lezione. A ripensarci, la signora Margaret Thatcher, forse era meno dura.
Raccontami dello scheletro nello studio della Signora Bulnes?
Il suo ufficio non era certo arredato in modo allegro forse perché vicino alla bilancia troneggiava la struttura, in altezza naturale, di uno scheletro umano. “Caspita” era il nome che la Bulnes gli aveva dato, perché questa era l’esclamazione più ricorrente di chi entrava per la prima volta nel suo ufficio, e per questo motivo la nostra insegnante, mostrando uno humor inaspettato, trasformò quella esclamazione in un nome. Delle venticinque bambine mie coetanee, selezionate all’inizio, una buona metà si perse per strada già con la fine del terzo corso.
Chissà quanti aneddoti conservi sulla Signora Bulnes?
Un anno, non ricordo quale, io e Liliana Cosi, torniamo dalle nostre rispettive vacanze estive. Liliana con i capelli corti, io con due scintillanti orecchini: due cerchi non troppi vistosi avuti in regalo da mio padre. Soffrii non poco quando mi bucarono i lobi. Erano tempi duri anche per queste frivolezze. La signora Bulnes ci guarda inorridita e rivolgendosi a me dice: “Tolga i suoi orecchini” e, rivolgendosi anche a Liliana, disse: “Sembrate due turiste”. Per un mese fummo completamente ignorate. Bisognava dare il tempo ai capelli di Liliana di crescere, almeno un po’.
Mentre con la Signora Novaro che esperienza hai avuto, prima ballerina fino al 1956 e coreografa?
Ti parlo di lei Michele perché ha profondamente influito sul mio equilibrio emotivo durante tutta la mia formazione scolastica. Era abbastanza chiaro, più agli altri che a me, che la mia insegnante, pur nella sua rigidità molto anglosassone, apprezzava le mie doti perché non mancava di metterle in luce presso chi aveva ruoli importanti all’interno del teatro. Era anche per questo che spesso ero scelta dai coreografi di opere e di balletti. Dico questo perché Luciana Novaro, che stava componendo una coreografia, mi scelse dicendomi testualmente: “Vediamo questa grande Lisa cosa sa fare”. Quella frase, che ho ancora in testa, la vissi come un’impari sfida. Lei: una autorevole signora e io: poco più che una bimba. Potevo dare il meglio di me, lei presente? A conferma di questa strana conflittualità, penso reciproca, ma potrei sbagliarmi, ricordo che durante una prova del “Vagabondo azzurro”, alla Piccola Scala, nel ruolo di una della quattro ballerine di Degas, la sentii urlare dalla platea: “Lisa cara, sorridi! mi sembri un tram, un ciliegio, un materasso, una sedia”. Probabilmente aveva anche ragione, ma mettetevi nei panni di una ragazzina che si sente continuamente messa alla prova su tutto da chi ha il potere di decidere della tua vita. Ovviamente non era così, ma lo era per me! Moltissimi anni dopo il suo atteggiamento verso di me cambiò e la vissi come una piccola, grande soddisfazione.
Parlami della tua naturale attitudine alla danza?
Mi viene in mente un episodio di qualche anno prima durante la preparazione per lo spettacolo, già citato, a sostegno dell’Istituto dei ciechi. Giuliana Barabaschi, allora ballerina solista, con Roberto Fascilla ballavano il passo a due del ”Don Chisciotte” e io come il prezzemolo ballavo la mia solita tirolese con Giancarlo Morganti. Durante il riscaldamento, in un angolino, feci tre piroette. Barabaschi mi vede e con tono piccato dice: “Io sono anni che faccio fatica a fare due piroette e questa in un attimo ne fa tre ed è solo una bimba del terzo corso”.
A quei tempi la Sovrintendenza del Teatro alla Scala era affidata a Ghiringelli?
Il sovrintendente del teatro, dopo la guerra, ben appunto era Antonio Ghiringhelli, di certo un grande perché riportò il teatro a livelli forse mai raggiunti sia con le opere sia con i balletti ed, essendo un ricco imprenditore tessile, non volle compensi per la sua attività e spese anche del suo per la ricostruzione del teatro. Ghiringhelli era un amante della danza, e non solo!
Continuiamo Giovanna con il tuo percorso formativo?
Durante tutto il mio percorso formativo ho sempre ottenuto a fine anno il punteggio più alto del mio corso e, ma potrei sbagliarmi, forse di tutta la scuola. Alla fine dell’ottavo anno eravamo rimaste in cinque. Con il passare degli anni una maggiore distanza e obiettività mi hanno permesso di capire e giustificare le scelte di altri, scelte che mi hanno così tanto amareggiata. Ma veniamo ai fatti. La prima avvisaglia che qualcosa stava cambiando l’ebbi quando la signora Bulnes al saggio di chiusura, dopo il diploma, decise di affidare il ruolo di Aurora, quindi di protagonista, ad un’altra allieva mentre a me e ad Amedeo Amodio diede i ruoli degli uccellini bleu. Pari punteggio ma ruoli non pari. Alla fine dello spettacolo, come di consuetudine, sale in palcoscenico il sovraintendente Antonio Ghiringhelli che, dopo aver fatto i complimenti di rito, annuncia la decisione di premiare la migliore allieva dell’anno con una borsa di studio in Russia. La scelta cadde sull’altra allieva. A me fu data una scatola di cioccolatini. Concludendo: pari punteggio, ruolo inferiore, cadeau adatto per un invito a cena. Dimmi Michele se non era il caso di scoppiare a piangere e così feci. La signorina Elide Buonagiunta, braccio destro della signora Bulnes, cercò inutilmente di consolarmi tenendomi sulle sue ginocchia. Per diverso tempo odiai i cioccolatini anche se mi piacevano molto. Immagino che anche voi, leggendo la mia storia, potete capire la mia delusione, perché una danzatrice affina la sua arte anche in funzione dei ruoli che deve interpretare e dall’insegnamento e dal contatto con i più grandi coreografi. È vero anche io ho avuto il privilegio di conoscerli tutti (Nicolaj Beriozov, John Cranko, George Balachine, Léonide Massine, Alfredo Rodriguez, Mario Pistoni, Louis Falco, Antonio Gades...) e da molti ho la certezza di essere stata apprezzata. Ma il sogno di una ballerina non è forse altro?
Che ballerina sei stata Giovanna?
Ero una ballerina con doti sicuramente non comuni e una tecnica molto forte, ma ero anche molto piccola, e questo ha sicuramente fatto pendere la bilancia su chi, indubbiamente molto brava, aveva un aspetto scenico superiore al mio, ma questa scelta non poteva essere fatta se io mi fossi diplomata con il punteggio più alto come era sempre stato prima del diploma.
Raccontami della bella consuetudine legata al passo d’addio, oggi non più presente?
Era abitudine del teatro che le licenziande e i licenziandi si esibissero in pubblico al termine di un’opera lirica in quello che bene appunto si chiamava tradizionalmente “Passo d’addio”. Per me l’opera rappresentata era “Ifigenia in Aulide” interpretata da Maria Callas la quale non poteva accettare che dopo la sua rappresentazione ci fosse altro. Fu una dura battaglia ma alla fine il teatro vinse.
Cosa accadde poi?
Da allieva mi ritrovai ballerina professionista. Non fui scelta per andare in Russia, ma fui l’unica del mio corso ad essere assunta da subito a tempo indeterminato come ballerina di fila. John Cranko, uno dei grandi coreografi del Novecento, fu incaricato di metter in scena “Giulietta e Romeo”. La stagione scaligera per tradizione inizia il 7 dicembre, giorno del Santo protettore di Milano: Ambrogio. Mi ero diplomata in giugno e quella rappresentazione si svolse in estate sull’Isola di San Giorgio di fronte a Venezia. Pur entrata nel corpo di ballo come ballerina di fila, Cranko mi scelse nel ruolo di uno dei giullari, ruolo di Solista. Fu la mia prima tournée, il mio primo vero spettacolo e iniziai a dimenticarmi di qualche cioccolatino. Quello, per una serie di circostanze, fu per me un momento magico. Mettete assieme la storia di “Giulietta e Romeo”, la musica di Prokofiev, la splendida coreografia di Cranko e me, ragazzina di appena diciotto anni, al centro della scena nel paesaggio da favola dell’Isola di San Giorgio e, fatto questo, non comprenderete che un millesimo dell’emozione che provai. Se ci penso oggi mi vedo come immortalata in un dipinto del Canaletto. Ritornai subito ad amare la danza e ad apprezzare il privilegio che la sorte mi aveva donato. Malauguratamente per l’arte, Cranko ci lasciò troppo presto.
Celebre la tua interpretazione nella danza dei “quattro cignetti”?
Chi, appassionato di danza, non conosce il passo a quattro del Lago dei cigni? La perfetta sintesi tra musica e coreografia è tale da coinvolgere ogni tipo di pubblico dal più profano al più esperto. Insomma, lo definirei uno dei più bei cammei della danza classica. Non penso sia per casuale scelta che alla voce balletto, nel dizionario Rizzoli Larousse, sia stata inserita proprio l’immagine del passo a quattro. Per molti anni Antonietta Cozzi, Ivonne Ravelli, Gianna Ricci ed io abbiamo ballato questo brano, raggiungendo una tale intesa ritmica e una così perfetta unità di movimenti da apparire un unico insieme danzante. Credo che nessun altro gruppo sia riuscito ad eguagliare la nostra prestazione ed è forse per questo, e non per caso, che nella foto riportata nell’Enciclopedia, ci siamo proprio noi quattro. Io sono la prima a destra. Quindi: perfetta musica, perfetta coreografia e perfetta esecuzione. Spero che da qualche parte sia rimasta almeno una registrazione a convalida di quanto penso. Ma si sa, in ognuno di noi alberga un certo tasso di megalomania.
Raccontami della tua esperienza al fianco di Rudolf Nureyev?
Anno 1969, località Trieste, Teatro Verdi, rappresentazione “Giselle”. Primo Ballerino il mitico Rudolf Nureyev, prima ballerina Liliana Cosi. Pur continuando a svolgere ruoli importanti e pur continuando a ricevere molti riconoscimenti ero pur sempre una ballerina di fila. Durante la rappresentazione, al termine del valzer dei contadini, mi fermo con le mie colleghe a ridosso della casa di Giselle al lato sinistro del palcoscenico: non poteva che essere così. Nureyev volteggia ma, sbagliando la misura, mi si ferma quasi addosso e con stizza lancia una tale offesa, riferendosi a mia madre, che anche oggi, usi ad un linguaggio ben più pesante, sarebbe totalmente irripetibile. A quel punto, a denti stretti e con un filo di voce, ribatto con un epiteto. All’improvviso mi assesta un potentissimo manrovescio ed esce di scena. Scoppio a piangere ed esco di scena anche io. Non so cosa abbia capito il pubblico perché Liliana, che in quel momento non doveva essere in scena, con grande presenza di spirito e professionalità entra e improvvisa una variazione. Nureyev non aveva ancora sfogato tutta la sua rabbia e si dirige verso di me nel tentativo di completare il suo raid punitivo. Per fortuna alcuni macchinisti lo bloccano. Credo che le lacrime e la gioia, a parte questa insensata ed estrema vicenda, facciano parte delle dinamiche della vita di una ballerina perché seguono l’onda dei possibili successi e insuccessi che possono verificarsi in ogni momento di uno spettacolo. Un perenne esame nel quale ogni volta si possono guadagnare o perdere punti. Credo che anche questo sia un ottimo allenamento mentale, non diverso e non meno importante di quello fisico. Più si è in alto più la tensione tra successo e insuccesso aumenta. Questa è la regola, e le regole, si sa, danno spazio alle eccezioni. Non crediate che la cosa sia finita qui. Oltre a quella irripetibile offesa, a quello schiaffo, al dolore fisico e alla paura, il giorno dopo, sui giornali locali, nazionali ed esteri, apparve la notizia. Un giornale francese titolava più o meno così: “Ecco come una sconosciuta ballerina di fila diventa famosa dalla mattina alla sera”. Per mettermi in cattiva luce, facendomi passare da vittima a carnefice, quel giornale mostrò una mia foto scattata durante una tournée a Mosca mentre aggiustavo la parrucca ad una mia collega. La fecero apparire come se le stessi tirando i capelli a dimostrazione del mio pessimo carattere. La mia cara inseparabile amica e collega Antonietta Cozzi, che ho già menzionato parlando del passo a quattro, era in viaggio di nozze in Sicilia; lesse la notizia sul giornale e ancor prima di vedere il mio nome pensò. “Questa è Giovanna” poi, trovando conferma alla sua ipotesi, mi disse al telefono: “Non posso lasciarti sola un momento che combini disastri”. Luigi Mariani, avvocato e mio primo marito, su mia decisione, intraprese un’azione legale contro Nureyev e inoltrò denuncia per ingiurie e percosse. Antonio Ghiringhelli, cercando di mitigare l’imbarazzo del Teatro, una sera lo convocò nella sua villa di Milano e gli chiese: “Caro amico a quanto potrebbero ammontare i danni morali?”. Su mia inamovibile direttiva rispose: “Una lira simbolica e le sue pubbliche scuse”. Era chiaro che la Scala si sarebbe fatta carico della eventuale spesa e sicuramente avrei potuto ottenere qualche favore nella carriera che oltretutto mi ero già conquistata nei fatti, quindi nulla di non meritato. Il mio fondamentalismo etico fu premiato così: fui messa in castigo per due anni facendo la sostituta, condizione che non significa affatto vacanza, ma solo lavoro come prima e nessuna soddisfazione. Non ricevetti la ricchissima lira simbolica. Non ricevetti alcuna scusa perché l’azione legale intrapresa, essendo penale, e non anche civile, fu amnistiata. Capirete che fare la ruota di scorta per due anni nel pieno di una carriera non ha influito positivamente sulla mia graduatoria. A onor del vero anche Nureyev fu punito e allontanato per qualche mese, ma era troppo importante per il Teatro e la sua pena durò molto poco.
E poi come andò a finire?
Dopo alcuni anni mi trovai faccia a faccia con il re, da sola, sul ballatoio del quinto piano del teatro. Ero immobilizzata perché già mi vedevo volare giù. Lui deve essersi accorto della mia paura e accennò un sorriso. Poi, in silenzio, ognuno per la sua strada. Scampato pericolo. Devo comunque riconoscere che dopo l’episodio di Trieste non smise mai di inserirmi nei balletti, ma senza rivolgermi una parola. Che anche lui mi temesse? Una sola volta si rivolse a me, ma indirettamente. Durante la coreografia della “Bella addormentata”, indicò un certo movimento che, subito, replicai. Lui disse: “Ecco, fate come Giovanna”. Furono le uniche ed ultime parole che mi rivolse. Sempre a proposito del buon carattere di Rudolf ricordo, in questo caso da spettatrice, un episodio. In una rappresentazione dello “Schiaccianoci”, Vera Colombo, sua partner, durante il passo a due cadde perché “il principe” non la prese in tempo durante la diagonale. Lui con assoluta tranquillità disse: “Lei contato sette, io contato otto: caduta”. Ho raccontato questi aneddoti solo per mostrare un aspetto forse conosciuto ma mai evidenziato di uno che è stato sicuramente un grande innovatore della danza, soprattutto maschile. Prima di lui il ballerino era una figura importante ma sempre subalterno alla ballerina. Lui fece in modo che quella differenza fosse colmata. Se oggi calcano le scene grandissimi ballerini, Roberto Bolle ne è l’emblema più chiaro, lo devono sicuramente a lui. È strano come nella danza l’uomo sia riuscito a conquistare la parità di genere senza poi troppa fatica, mentre nella società civile la donna faticherà ancora molto per ottenerla.
Ai tuoi tempi come si passava di categoria?
Ai miei tempi, non so se quella regola comportasse eccezioni e se sia ancora parzialmente attiva, un ballerino per passare di categoria doveva svolgere un ruolo superiore a quello contrattuale per almeno novanta giorni lavorativi e consecutivi. Ciò comportava che una danzatrice poteva svolgere diversi ruoli da solista o da prima ballerina e rimanere per anni al primo livello e a stipendio invariato. A me è capitato di essere sia solista sia prima ballerina in diversi balletti e per molte rappresentazioni e, non so se per caso o per una decisione caduta dall’alto, sistematicamente ero fermata prima di raggiungere il traguardo che mi avrebbe permesso il passaggio di categoria. Il caso limite lo vissi quando Paolo Bortoluzzi mi affidò un ruolo di prima ballerina in “Cenerentola”. Ero una delle sorellastre, ruolo che mantenni per ottantanove giorni, ne mancava solo uno e sarei passata automaticamente a prima ballerina. Accidenti! Potevo più di così dar ragione al detto: “Per un punto Martin perse la cappa”?
Raccontami di te e di Antonietta, grandi amiche e colonne del Corpo di Ballo?
La mia amica Antonietta e io eravamo serie danzatrici e accettavamo con piacere e dedizione qualunque parte ci fosse assegnata, anche quelle che molti rifiutavano perché ritenute da loro non sufficientemente dignitose per il loro ruolo. Non è difficile per una danzatrice fingere qualche malore fisico e il gioco è fatto e non era difficile per noi capire chi se ne approfittasse. Conosciamo colleghe e colleghi che hanno danzato pochissimo perché avevano, secondo loro, di meglio da fare. Pochissimi giorni di lavoro per stagione a stipendio immutato. Oltretutto quelle ritenute meno idonee erano facilitate nell’assenteismo, perché gli stessi coreografi non le sceglievano e per loro era vera pacchia. Ma si sa, in nessuna attività mancano i veri professionisti, i carrieristi e i lavativi. Noi due eravamo sempre presenti, non eravamo le uniche, e anche se doloranti, facevamo finta di niente. Avevo 37 anni quando fui operata al menisco; all’epoca quell’intervento era molto invasivo. Tornai a insegnare con le stampelle, perché in quel periodo oltre a danzare ero insegnante alla Scuola di Ballo della Scala e non me la sentivo di abbandonare le mie allieve. Ripresi a danzare appena me lo sentii, senza aspettare il canonico periodo di convalescenza. Fummo un riferimento positivo per tutto il corpo di ballo e soprattutto per le ballerine fresche di diploma. Attorno agli anni ottanta, Giuseppe Carbone, l’allora direttore del corpo di ballo, diceva che eravamo le due colonne portanti del balletto. Questo perché la nostra passione per la danza e il privilegio di calcare il palco di uno dei teatri più prestigiosi del mondo era più importante della carriera. Insomma, da una parte non eccellevamo in diplomazia e per altro verso non mancavamo di metterci contro chi non avremmo dovuto, quando vedevamo comportamenti che non ci piacevano. Questo comportamento un po’ ribelle potrebbe non aver facilitato le nostre carriere e così siamo rimaste ballerine di fila fin quasi alla soglia della pensione. Naturalmente, come dicevo, non eravamo le sole a comportaci così, ma essendo state per decenni sedute l’una accanto all’altra, infatti ci chiamavano “Cip e Ciop”, il segnale era decisamente forte. Io e Antonietta ci trovavamo spesso in scena alla testa di un gruppo di ballerine ed era nostro compito dare il la. Ci bastava inviare un piccolo cenno dalle opposte sponde del palcoscenico per intenderci perfettamente. Con il passare degli anni avevamo acquisito una tale familiarità nell’entrare in scena che, a esclusione dei ruoli più impegnativi, che sempre mettono la giusta carica e tensione, facevamo ogni cosa con grande naturalezza. Questa semplicità di esecuzione assumeva sempre più la forma di un divertimento adolescenziale e spesso, in scena, ci prendevamo la libertà di fare tra noi piccoli giochetti senza che il pubblico se ne accorgesse. Insomma una sorta di rappresentazione nella rappresentazione così da rendere meno monotono ciò che per noi era ormai troppo semplice.
A proposito di piccoli giochi, qualche episodio?
Durante una rappresentazione del “Lago dei Cigni”, passando davanti al principe, in quella circostanza impersonato da Marco Pierin, gli abbiamo messo tra le mani una mela che assolutamente non si aspettava. Lui rimase per un attimo interdetto. Ancora se lo ricorda. Dice con piacere. Sarà vero? Ma si sa, gli esempi positivi non sempre sono accolti da tutti con favore, soprattutto da chi è portato a comportarsi in modo opposto. Infatti, ritornando al mio rapporto con Nureyev ricevetti da alcuni colleghi e colleghe, che oltretutto avevo difeso, solidarietà privata e pubblico disappunto e questo ha comunque lasciato in me una cicatrice mai totalmente rimarginata. Poi, verso la fine della carriera un’amica ballerina, Vittoria Minucci, che comprese l’ingiustizia verso di noi per essere rimaste al palo come ballerine di fila, ingiustizia rispetto al fatto di essere state superate da altre colleghe, sicuramente brave, perché nel corpo di ballo della Scala la bravura è una condizione imprescindibile, lottò perché passassimo ufficialmente al ruolo di soliste. Una sorta di riconoscimento alla carriera. Sempre meglio che postumo. Di questo le sarò sempre riconoscente, non tanto per il passaggio professionale che ormai non aveva più importanza ma per il vantaggio economico che ha influito sulla pensione. Non pensiate che stia parlando di cifre mensili importanti, ma sommate nel corso di decenni... Il Teatro alla Scala di Milano ha una grandissima storia. Ogni grande storia è l’insieme di tanti piccoli eventi!
Come già accennato prima, oltre alla Solista che tutti abbiamo conosciuto, sei stata una stimata Maestra alla Scuola di Ballo dell’Accademia del Teatro alla Scala?
Iniziai seguendo il sesto corso e le condussi fino al diploma. Le mie prime allieve erano: Marina Mavian, Debora Miano, Annalisa Masciocchi e Aglaia Lovetti. Non ne persi nessuna. Aglaia e Annalisa rimasero nel corpo di ballo fino alla pensione, Marina decise di andare a Düsseldorf, di Debora non ricordo le sue scelte. Poiché io ero ancora in forze come ballerina le mie allieve me le sono trovate come colleghe. Ricordo in particolare, assieme ad alcune di loro, la tournée al Metropolitan di New York. A proposito di quella tournée, ricordo questo episodio. Dopo uno spettacolo, ero seduta con alcune colleghe e colleghi al bar del Mayflower a bere qualcosa e a fare le solite rilassanti chiacchiere. A un tavolo vicino a noi c’era Robert De Niro con la sua guardia del corpo visibilmente armata. Del resto la civiltà americana deve molto ai cowboy. Io e Antonietta ritorniamo alla nostra stanza, prendiamo l’ascensore e dentro vediamo una donna bellissima, molto alta e con occhi stupendi. Cosa più che ovvia: era Jane Fonda. Ci dirigiamo verso la nostra stanza e apriamo la porta; sentiamo un sommesso vocio. Spaventate richiudiamo subito la porta, torniamo di corsa al bar e informiamo le nostre amiche dell’accaduto. De Niro e il suo pistolero sentono tutto e immediatamente offrono il loro aiuto e il loro coraggio. In ascensore siamo Cozzi, io, il cowboy e De Niro. Apriamo con estrema cautela la porta della nostra camera, il pistolero con passo felpato e pistola spianata si guarda attorno e avanza lentamente, si sente un leggero vociare che arriva dalla stanza da bagno, il pistolero entra e i criminali sono colti sul fatto. Due cinesini terrorizzati stavano cercando di riparare una perdita di acqua. Ho vissuto per tutta la vita in Italia, ho girato mezzo mondo, ma mi è bastato soggiornare per poche settimane nel cuore del cuore della civiltà occidentale, per essere testimone di una scena da far west. Poi, come nel gioco dell’oca, ritornai alla casella di partenza e mi affidarono le bimbe del secondo corso. La vita ha sempre strani risvolti perché, senza volerlo, stavo seguendo le orme della mia grande e severa insegnante Esmée Bulnes che mi prese al secondo anno e mi condusse fino all’ottavo. Dico questo perché credo di essere stata l’unica insegnante in quel periodo a seguire le allieve dall’inizio fino alla fine. Tutte le altre insegnanti seguivano o le piccoline, o i corsi intermedi e Anna Maria Prina le portava al diploma. La mia fu una eccezione perché lo chiesi con molta determinazione. Quel secondo corso era formato da: Gilda Gelati, Daniela Gorella, Katia Pianucci, Isabella Padovani, Cristina Amodio e Nicola Biasutti a questo gruppo si aggiunse più avanti Sabina Galasso, ma non ricordo in quale corso. Tutte giunsero al diploma ad esclusione di Isabella Padovani perché Baryšnikov, avendola notata mentre frequentava uno stage a New York, durante le vacanze estive tra il settimo e l’ottavo anno, la volle subito all’American Ballet Theatre. Gilda Gelati si diplomò con il mio stesso punteggio di 28 trentesimi. Sempre ricordando Esmée Bulnes va anche detto che lei prese circa dieci allieve al secondo corso e solo in cinque arrivammo al diploma. Forse lavorava su un materiale umano meno valido del mio, e forse tiro troppa acqua al mio mulino, ma è anche vero che se l’acqua che arriva al proprio mulino non la si fa scorrere come dovrebbe, si corre il rischio di peccare di falsa modestia. Dovete sapere che al diploma delle ballerine si riunisce una commissione formata da tutti gli insegnanti della scuola e da un certo numero di personaggi esterni e qualificati che partecipano alla votazione, in modo da ottenere un giudizio meno soggetto a simpatie e a favoritismi. Solitamente la lezione d’esame si svolge in mezza punta sia alla sbarra sia al centro e solo l’ultima parte è dedicata al virtuosismo sulle punte. Un anno decisi, senza avvisare nessuno, di cambiare procedura. Lasciai in mezza punta soltanto l’esecuzione alla sbarra e tutto il centro e il finale fu eseguito sulle punte. Questa mia scelta era motivata dal fatto che una ballerina in palcoscenico danza soprattutto in punta e una diplomata deve essere in grado di farlo con la massima naturalezza. La cosa sorprese non poco la commissione. Tutto andò per il meglio e la votazione fu buona per tutti anche se ricordo solo il voto di Gilda, 28 trentesimi, e di Katia, 27 trentesimi, ma non credo che ci furono voti inferiori a 23 trentesimi. Ricordo che a lezione finita, Luciana Novaro presente in Commissione, mi si avvicina e mi dice “Cara Lisa, complimenti, che brave le tue ragazze e che belle cose gli hai insegnato”. Il mio cuore, dopo decenni, si mise in pace. Non so dire se questa mia piccola rivoluzione sulla procedura dell’esame sia rimasto un fatto isolato oppure se sia stata adottata altre volte o sempre. In aggiunta a questo risultato va detto che quasi tutte le mie allieve, ma non dimentichiamo l’unico allievo il carissimo Nicola Biasutti, hanno fatto, e continuano a fare, una importante carriera nel mondo della danza. Cercate i loro nomi su Internet e ne avrete conferma. È pur vero che per avere una buona pianta occorre disporre di un buon seme, ma se quel seme non è ben coltivato da bravi contadini la pianta difficilmente sarà rigogliosa. Se poi i semi sono molti e il contadino è uno solo, traete voi le conclusioni. Dopo aver, per ragioni anagrafiche, abbandonato le scene, insegnai ancora per un anno, ma per vari motivi non mi sentivo più a mio agio e lasciai anche l’insegnamento. Avevo sempre pensato a cosa sarebbe diventata la mia vita senza la danza ed ero spaventata alla sola idea di andare in pensione, poi, in modo che ancora mi è incomprensibile, questo temuto e radicale cambio di realtà, non sortì alcun effetto negativo. Quando dico a persone che non mi conoscono ciò che ho fatto e i sacrifici che ho dovuto sopportare fin dalla più tenera età, la domanda più frequente è: “Lo rifaresti”. E io rispondo. “Non oggi, ieri”.
Chiudiamo al meglio questo racconto della tua lunga vita professionale?
Milano, anno 2017, credo fosse primavera. Vengo a sapere che il Teatro alla Scala ha allestito un mostra fotografica sul balletto. Non posso non andarci. A partire da piazza Mercanti e a scendere lungo via Dante fino a piazza Castello, sul lato sinistro e sul lato destro ci sono numerosi grandi fotografie che raffigurano personaggi e scene di danza. Riconosco quasi tutto e tutti, poi vedo un’immagine a me molto familiare. Una fila di bimbe sedute compostamente ai banchi di scuola, vestite da ballerine, gambette incrociate e piedi in posizione di punta. La prima a destra sono io, avevo nove anni. Mi misi accanto a quel poster e mi feci fotografare con un’altra me stessa. Erano passati solo 67 anni. Se immagino la mia vita come un arcobaleno quella foto mostra i due punti estremi dell’arco. Poi la parola arcobaleno dona oltre all’idea di bellezza e di serenità, anche l’idea della fugacità del tempo.
Michele Olivieri