Attrice di formazione importante (anche con l’Actor’s Studio a New York, con Elia Kazan), seducente e misteriosa in alcuni suoi ruoli, intensa in altri, Anna Galiena si alterna tra teatro e cinema portando la stessa grazia sia sul palco che sul set, con una recitazione mai sopra le righe. Ha interpretato diverse fiction televisive, ed é stata anche giurata al Festival di Berlino. Molti sono i film da lei interpretati, con registi di calibro quali Chabrol, Leconte, Bigas Luna solo per citarne alcuni, e poi ancora Brandauer, Bolognini, Lizzani e Castellitto. Da poco ha appena terminato a Vicenza due spettacoli per il 73.mo Ciclo di Spettacoli Classici al Teatro Olimpico, “La signora Dalloway” tratto dal romanzo di Virginia Woolf e “Noi – Dialoghi Shakespeariani”, dov’era in scena sola ma con la poesia straordinaria dei brani del Bardo tradotti da lei stessa, bravissima, in uno spettacolo che è piaciuto molto al pubblico. Giù dal palco e fuori dal set è una signora riservata e gentile, e anche spiritosa, che noi abbiamo avvicinato con piacere per l’intervista che segue.
A Vicenza ha interpretato due spettacoli, uno corale, l’altro, sola, sui testi shakespeariani.
Quello sui brani di Shakespeare è uno spettacolo a cui tengo moltissimo, ho sempre amato quell’autore. Già anni fa quando vivevo a New York la sera, nel mio poco tempo libero che rimaneva, mi imparavo le scene a due personaggi. Anche dopo ho cominciato a lavorarci sempre di più e un teatro italiano molto importante mi propose di fare uno spettacolo con i brani più famosi del commediografo, voleva farlo in inglese ma io non ero mai pronta, nicchiavo un po’. Sono tornata a farlo ora con la produzione “La nutrice”, di Karin Proia e Raffaele Buranelli, traducendolo io, curandone anche la regia. Loro hanno accettato la sfida lasciandomi fare come lo sentivo, una messa in scena semplice, minimalista. Giancarlo Marinelli mi ha invitato a farlo a Vicenza per il Ciclo di Classici all’Olimpico, ed è rimasto così, uno spettacolo dove ci si deve concentrare sui personaggi, su questa faccia che cambia, i gesti che cambiano, come la voce. E voglio continuare a farlo, ci tengo veramente tanto.
Ritiene Shakespeare il miglior autore?
Lo amo molto, appunto, diciamo che è un capitolo importante. Non lo trovo però perfetto nelle sue commedie o tragedie, a parte il “Sogno di una notte di mezza estate”, nelle altre invece, in genere bisogna lavorarci sopra, mentre la sua cosa più bella sono i versi, dove c’è una musica che trascina, questo suo pentametro giambico. Certo non bisogna diventarne vittime come fanno certo attori shakespeariani che sono troppo attaccati al verso. Ma se ti lasci guidare da questa tessitura musicale diventa veramente molto interessante. Quando frequentavo la scuola shakespeariana a New York quello era il lavoro che ci facevano fare. Ecco perché traduco Shakespeare, perché anche se è un po’ anomalo il mio alessandrino, permette una certa musicalità di base. Mantenendo la prosa, come quando parla Bottom, o Amleto. Ho anche in mente altre traduzioni, dopo questa, con la speranza di poterle poi mettere in scena, e non da sola ma con un cast.
La entusiasma parlare di Shakespeare.
Mi entusiasma come lui cambia il linguaggio a seconda della situazione, come quando mette la punteggiatura sempre a metà verso nel “Macbeth”, facendo una cosa incredibile. Sembra zoppicante ma non lo è. O quando passa invece alle scene e alle liriche d’amore come quella del balcone in “Romeo e Giulietta”, è tutto suoni dolci, con una padronanza della lingua notevole. Chiunque lui sia stato veramente. La sua genialità era anche questa oltre che la grande conoscenza dell’animo umano.
Passiamo a lei. Da bambina sentiva il sacro fuoco della passione per il teatro?
Non ce l’avevo o almeno non ci pensavo. Ma mi hanno messo su un palcoscenico a quattro anni, a scuola, e mi sono trovata così bene che da allora è diventato il mio gioco preferito. Ero quella che ai compleanni doveva organizzare la recita, facevo tutto oltre che recitare, e dirigevo le altre bambine che se ne fregavano della cosa. La passione è nata lì, da allora non ha mai smesso di esserci.
De “La signora Dalloway” tratto dal romanzo di Virginia Woolf cosa l’ha colpita della protagonista, che lei interpretava?
La linea sottile sulla quale viaggia, tra l’attrazione per la morte e il desiderio grande di vita, quel desiderio di far star bene gli altri anche se lei sta male. Il fatto che sia un personaggio in bilico. Difficilissimo da recitare, ma se ci si abbandona è molto interessante. Richiede un’ interpretazione vissuta, non esteriore o vocale, perché se non si vive profondamente il suo disagio e il suo dolore non si riesce a trasmetterli. Un lavoro che mi ha dato molta soddisfazione.
Parliamo di cinema, lei ha lavorato con grandi registi.
E grandi colleghi, penso a Robin Williams, a Michel Serrault, Jean Rochefort, o Kim Rossi Stuart, un genio d’attore. E ancora Xavier Bardem e Penelope Cruz.
Incontri interessanti, esperienze da ricordare?
Sicuramente, come quella di “Mosca addio”, di Bolognini, con protagonista Liv Ullmann, dove io avevo un piccolo ruolo ma bello. Avevo una scena lunga, complessa, con lei. Che grande lezione, è arrivata sul set concentrata, senza chiacchiere, stava già nella parte. Mi ha colpito, commosso fino alle lacrime vedere quest’attrice al lavoro, non lo dimenticherò mai.
Sono grandi lezioni che le rimarranno per sempre?
Assolutamente sì, come quella di Michel Serrault, anche lui talmente dentro la parte che interpretava da far venire i brividi.
Ha qualche rimpianto, qualche dispiacere per non aver fatto un ruolo, un film?
Non mi piace vivere di rimpianti, me li tengo per i giorni dove sono depressa, e non serve a niente comunque. Io guardo a quello che ho fatto, e quello è stato e non si poteva far di meglio, quindi va bene così. Ci sono delle situazioni dove non si poteva fare diversamente, come quando mi chiamò Pedro Almodovar, ed io stavo girando “La scuola”, e anche se il suo film si girava un mese dopo non potevo fare le prove. Ma non è un rimpianto, è successo e basta.
Il ruolo di un mestiere come l’attrice, oggi?
Per me è un ruolo sacro, se fatto bene. Non a caso la chiesa ci impediva di esistere, perché tu sei lì e fai vedere al mondo le maschere, e le togli. E’ un ruolone quello dell’attore. Non è un lavoro come un altro, per me no, intanto richiede vocazione che se non si ha meglio sceglierne un altro, perché è così difficile da fare bene che non è il caso. E poi ha una funzione sociale profonda, importante come il teatro che da qualsiasi civiltà si prenda, anche quelle cosiddette primitive che poi non lo sono, ha sempre la rappresentazione, esseri che rappresentano gli altri. Che è quello che fa dire Shakespeare ad Amleto quando parla agli attori, “non potete dimenticarvi che lo scopo del teatro era ed è sempre stato , come il nostro ruolo, quello di regger lo specchio alla natura”. E se l’ha scritta Shakespeare, mi viene da dire che è anche una bella cosa.
Francesco Bettin