venerdì, 08 novembre, 2024
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INTERVISTA a ELISABETTA POZZI - di Patrizia Iovine

Elisabetta Pozzi - Le Troiane Elisabetta Pozzi - Le Troiane

Un’attrice di grande spessore si rivela e ci racconta il proprio disagio, il proprio sgomento, in questo interminabile periodo oscuro. Dopo un isolamento forzato nella sua casa di campagna Elisabetta Pozzi ha cercato con coraggio di riaffacciarsi, in estate, di mostrarsi timidamente tra le tavole della scena. Ha ritrovato, attraverso un laboratorio teatrale da lei stessa diretto, la forza di salire sul palcoscenico. Lo ha fatto il 19 luglio scorso, ha vestito i panni della sua amata Elena, da una pièce del poeta greco Ghiannis Ritsos, in occasione del Festival del Teatro Classico di Portigliola ed ha riscontrato incoraggianti consensi.

Hai dovuto interrompere una tournèe con l’arrivo di questa terribile pandemia, come è stato l’impatto?
Stavo facendo Apologia di Alexi Kaye Campbell a Torino prodotto dal Centro Teatrale Bresciano e dal Teatro Stabile di Catania, con la regia di Andrea Chiodi. Ci stavamo divertendo molto, uno spettacolo intelligente, acuto che parlava di noi… Il 26 febbraio abbiamo organizzato una festa per il mio compleanno e per la buona riuscita della compagnia. Siamo però stati poi avvisati che l'ultima settimana prevista al Teatro Elfo di Milano non l'avremmo fatta a causa della pandemia. Stavamo insieme da due anni, eravamo molto uniti, si stava pensando anche di riprendere lo spettacolo proprio perché fortunato e con pochi attori.
E' stato terribile, violento e intollerabile per noi. Abbiamo pianto senza capire ancora cosa stesse succedendo, quanto fosse aggressivo e pericoloso questo virus. Io sono da sempre fatalista, mi espongo abbastanza facilmente e non mi preoccupo molto della mia salute. Anziché vivere in isolamento, con restrizioni di carattere sociale preferisco sfidare la sorte: rischiare sì ma scegliere di sentirmi viva.

La situazione degli attori della tua Compagnia?
Apologia di Campbell è stato quindi interrotto, è saltato anche lo spettacolo Ecuba di Marina Carr messo in scena al teatro Olimpico di Vicenza nell’autunno del 2019, che sarebbe dovuto andare in scena per due settimane a Maggio al Teatro Sociale di Brescia. Un testo speciale, particolare. A gennaio 2021 avremmo dovuto riprenderlo ma è saltato tutto. La Compagnia era formata da nove attori. A settembre anziché rifare Ecuba abbiamo ripreso Le Troiane di Euripide con il cast dimezzato. Quattro attori.
La Tournée ripartirà a gennaio 2021 ma ancora con Le Troiane. Verrà rispettata la concezione greca con tre attori e una persona che, da sola, rappresenterà il coro. Ci si dovrà adeguare ad un genere d’altri tempi. Gli artisti italiani stanno pagando a caro prezzo la permanenza di questo virus. Mancherà il lavoro, verranno chiamati soltanto gli attori più visibili. Garantire la sicurezza nelle sale e sulla scena significa oltre che ridurre il numero dei posti in sala, far lavorare soltanto coloro che hanno già un nome.

In che modo proverete ad affrontare tutti insieme questo duro momento?
Emerge oggi un grande problema che ci riguarda come categoria.
Con i teatri stabili sono nate le grandi Compagnie, si è venuta a formare una vera e propria categoria di attori di teatro. Fino agli anni ‘70 sembrava andasse tutto bene, la situazione degli artisti era sicura e dignitosa. Improvvisamente, dagli anni ’90, è cambiato tutto; gli artisti non si sono più interessati alla propria salvaguardia, non si sono attivati ed uniti per mettere in chiaro le proprie posizioni. Tutto ciò che non si è fatto da cinquant'anni a questa parte è emerso ora. Oggi siamo gli ultimi a parlare.
In questo periodo si sono formati gruppi di lavoro, tavoli di discussione ma l’ Italia è l’unico paese in cui gli artisti non hanno diritto di parola, contrariamente agli altri paesi europei. In realtà dovrebbero essere proprio gli artisti a parlare per primi, dovrebbero farsi ascoltare, avere visibilità. Gli attori fanno parte oggi di una categoria non riconosciuta, le Istituzioni hanno nei loro uffici decine e decine di persone che non praticano l’arte ma che detengono semplicemente ruoli amministrativi, punto.

Hai alle spalle una lunga carriera artistica. Quali sono le tue riflessioni sui cambiamenti vissuti?
Ho avuto la fortuna di far parte del Teatro Stabile di Genova che dalla fine degli anni ‘70 alla fine degli anni ‘80 era una macchina meravigliosa diretta da un grande direttore, Ivo Chiesa. C'era molto entusiasmo, la complicità scenica era ben supportata da un reparto tecnico attivissimo. Sono entrata in quel mondo a quindici anni. Lì mi sono formata e sono cresciuta. Poi ho deciso di andare a Parma, al Teatro Due, perché credo che si debba cambiare rotta di tanto in tanto, mi sono affiancata a mio padre e poi al mio maestro Albertazzi. Potrei definire Genova la casa dei genitori, e Parma la casa dei compagni di scena.
C’era una situazione a Parma che somigliava a quella di Genova: vi erano cinque o sei persone negli uffici che venivano ad assistere alle prove, stavano sempre con noi sul palcoscenico.
A partire dalla fine degli anni ‘90 è esplosa una proliferazione di scuole dirette da gente che aveva bisogno di fare teatro, o più precisamente. di lavorare. Le gestioni dei teatri si sono “lottizzate”, non c'è stata più la possibilità di avere una relazione diretta, di empatia, con le Direzioni dei teatri e noi non siamo stati capaci di unirci per difenderci insieme, ciascuno ha lavorato per proprio conto. Quando si è cominciato a parlare della legge sul teatro noi artisti avremmo dovuto schierarci in prima linea invece ognuno ha pensato al proprio lavoro. Come categoria non abbiamo costruito nulla e tutto questo è stato evidenziato in questo periodo.
Dal 15 giugno e fino a qualche settimana fa, i teatri hanno riaperto, ma noi, ancora oggi, non siamo pronti e forse non lo è neanche il pubblico.

Durante il confinamento hai mantenuto il tuo rapporto con il pubblico?
Sì con delle dirette Facebook ho mantenuto vivo il rapporto con il pubblico. Perché il teatro ha ancora voglia di uscire. Non vuole nascondersi. Come me altri artisti hanno raccontato un po' il lavoro che avevano già fatto sul palcoscenico.
L’ Effetto pandemia è stato davvero o sconvolgente, il distanziamento sociale, le direttive dell’Oms che ci hanno imposto il distanziamento fisico. Tutto ciò ha portato a qualcosa di diverso, ha spaccato il nucleo sociale. Il rapporto tra le persone è stato fortemente intaccato. In assoluto, chi ne paga le conseguenze e non ha più diritto di esistere è proprio il teatro.
Io stessa ho rifiutato di fare spettacoli estivi, a parte il personaggio di Elena che sento pulsare in me, sento una sorta di smarrimento, non mi riconosco, mi sento diversa dopo questo lungo periodo di confinamento. Con tutto ciò che si è detto e per la prospettiva che si intravede, gli artisti si sentono sotto choc. Molti vivono tuttora nella paura. Questa pandemia ce l'hanno narrata come un qualcosa che probabilmente non finirà mai. Gli artisti sono ancora smarriti, non sanno come risalire sul palcoscenico. Paradossalmente, il pubblico in questo momento ha bisogno del teatro ma gli attori vivono con impotenza questa realtà: oltre ad essere ancora spaventati, si son visti sbattere la porta in faccia per la seconda volta. Bisognerà adeguarsi ad una sorta di teologia sanitaria.

Chi sei tu, oggi?
Normalmente l’arte e, in questo caso, il teatro, trasforma tutto, anche le cose peggiori. In questo momento però non riesco a trasformare questa angoscia, questa situazione di incertezza e di perdita totale di ogni punto d'appoggio. Ho quasi smarrito la mia identità come essere umano che si occupa di arte e che si relaziona con gli altri. Come apparire di fronte al pubblico? E’ cambiato lo slancio emotivo, modificato dalle regole imposte ed è cambiato anche lo spettatore.

Lo scorso luglio, hai diretto un laboratorio teatrale con quindici attori in Calabria, nella Locride, partendo dal testo “Le Troiane”, di dodici giorni. Come è stata questa esperienza ?
Si è trattato in verità di un pretesto per cercare di capire come ritornare sul palcoscenico. Non si è trattato di un laboratorio di formazione ma di un territorio da esplorare che ci permettesse di riflettere insieme su come tornare sul palcoscenico. Pensando al testo Le Troiane di Euripide e anche ad Ecuba, alla disfatta di Troia, si è messa a confronto una grande sconfitta con la fine di una società, con la fine di una civiltà che è quella che stiamo vivendo oggi. In qualche maniera dovremmo essere anche “entusiasti” di vivere tutto questo perché siamo testimoni di un cambiamento storico: noi resteremo sui libri di storia.

Oggi si tende a proporre il teatro in televisione. Quale è la tua opinione in merito?
Il teatro in televisione è una contraddizione semantica. Si potrebbe fare uno spettacolo teatrale sì ma come se si girasse un film, direttamente per la televisione. Il teatro è un’arte diretta e immediata, nel teatro c'è bisogno dell'attore che interagisca con lo spettatore. Proporre in televisione una rappresentazione scenica non significa trasmettere emozioni palpabili e irripetibili come in sala. In questo periodo però c'è stato bisogno anche di questo perché il pubblico è rimasto per mesi chiuso tra le mura domestiche.

Hai scoperto qualcosa di nuovo e piacevole nel periodo del confinamento?
Abbiamo avuto in questo momento di isolamento la possibilità di creare. Ognuno di noi ha reagito a proprio modo. Sono venute alla luce anche delle nuove idee.
Nonostante i timori che in questo momento riguardano il mio lavoro, sono riuscita ad estraniarmi con la musica, provando a suonare la chitarra. Qualcosa di nuovo per me che ho scoperto con stupore proprio in questo periodo oscuro. La musica abbraccia completamente lo spirito. Si è cercato, bene o male, di sopravvivere intellettivamente e si è tentato poi di trasformare questa sensazione così drammatica in qualcos’altro: un'abilità di raccontarsi, di elaborare e di esprimere le proprie sensazioni. Da tutto questo è emerso paradossalmente uno strato profondo di sentimenti, si sono scoperte risorse interiori affascinanti, ognuno di noi ha reagito più o meno positivamente a qualcosa di spaventoso, affrontando il cambiamento. Si è trasformato anche il nostro rapporto con la morte di cui non si poteva quasi parlare. In questa società la morte non viene mai considerata. Adesso, dopo aver visto sfilare bare ed aver preso atto, giorno dopo giorno, dei numeri dei contagi come se fossero bollettini di guerra, abbiamo avuto anche la consapevolezza di una realtà ostile che ci fa tornare alla mente ciò che i nostri genitori hanno vissuto, alle situazioni terribili che ci hanno raccontato. Questo somiglia a quel periodo: lo smarrimento, il non riconoscersi. La crisi di identità e la percezione di essere soltanto un numero ci fa pensare alla nostra vita effimera: tutto questo ci ha cambiato un po' come ha cambiato le persone che hanno vissuto le due guerre mondiali.
Il problema grave è che oggi abbiamo la sensazione di una guerra contro un nemico invisibile che si potrebbe celare nel nostro interlocutore. Inconsciamente elaboriamo la concezione del nemico come la persona che incontriamo perché proprio quella persona, in quel momento, potrebbe essere contagiosa. L'elaborazione del concetto di nemico è spaventoso. Nel 1978 c'è stato un virus terrificante, proveniente dai paesi asiatici, che ha fatto migliaia di vittime per le complicazioni causate dalla malattia. Però alla fine dell'anno, in un servizio del telegiornale, si è parlato di una brutta ed aggressiva influenza.
Oggi invece si parla continuamente di questa pandemia che sembra non conoscere limiti di tempo e di spazio, una guerra in cui il nemico non si fa catturare.

Cosa ne pensi gli attori dei corsi di teatro on-line?
I laboratorio on-line si possono fare di certo ma è molto difficile effettivamente in quanto il teatro è contatto ed interazione. Mi è stato proposto un corso online ma non mi sembra possa dare grandi soddisfazioni.

Cosa proponi agli attori per un prossimo futuro?
Gli attori dovrebbero prendere in mano la propria responsabilità, dovrebbero uscire allo scoperto. Il mio amico Paolo Rossi, ad esempio, con due persone è andato nei quartieri di periferia di Milano, ha distribuito il cibo nei cortili ed ha fatto anche laboratori di teatro. Questo significa mettersi a disposizione. Ora dovremmo andare noi a prendere il pubblico, portare il teatro fuori, scendere dalla torre per andare in piazza, tra la gente, far circolare il teatro in aree diverse. In alcuni paesi la gente non conosce affatto il teatro. Bisogna mettersi in discussione e portare il teatro altrove. Con il coraggio di ricominciare.

Patrizia Iovine

Ultima modifica il Mercoledì, 18 Novembre 2020 13:10

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